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domenica 26 febbraio 2012

Il più grande spettacolo dopo il Big Bang


Il più grande spettacolo dopo il Big Bang

Marco Bersanelli
CULTURA - SCIENZA E FEDE
Non solo i “cieli”, ma tutto parla del Creatore, il bagliore primordiale come le montagne. L’uomo? Un nulla. Che però è «coronato di gloria e di onore». Un astrofisico che per mestiere va in cerca dell’origine dell’universo interviene al Pontificio Consiglio per i Laici sul tema: «Chi è Dio?». Raccontando di sé, del suo lavoro e di quei grani di polvere sul tavolo...

La domanda “Chi è Dio per te?” chiama in causa tutta la vita: la famiglia, le amicizie, i desideri, gli interessi, il lavoro. E, come mi è stato chiesto, è proprio a partire dall’esperienza del mio lavoro quotidiano che proverò a rispondere a questa domanda.
Il mio lavoro è un po’ particolare. Mi occupo di ricerca scientifica nel campo della cosmologia, la scienza che studia la struttura e l’evoluzione dell’universo nel suo insieme. Da molti anni, con molti colleghi e amici sparsi un po’ in tutto il mondo, stiamo studiando “la prima luce dell’universo”: si tratta della luce primordiale rilasciata nei momenti iniziali dell’espansione cosmica, prima della formazione delle galassie, delle stelle, dei pianeti, e degli stessi atomi che costituiscono il nostro corpo. Da quasi 20 anni sono impegnato nel più ambizioso progetto in questo settore, il satellite Planck dell’Agenzia Spaziale Europea, lanciato nello spazio il 14 maggio 2009, e che si trova in un’orbita a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra. Grazie a strumenti ad altissima sensibilità, raffreddati a temperature vicine allo zero assoluto, Planck osserva questo debole bagliore proveniente dai confini dello spazio-tempo, che giunge a noi dopo un viaggio di quasi 14 miliardi di anni, e ci permette di ricostruire un’immagine dell’universo appena nato con un dettaglio senza precedenti. 
La vastità dell’universo, che la scienza contemporanea mette davanti ai nostri occhi, ci lascia sbalorditi: miliardi di galassie, ciascuna composta da centinaia di miliardi di stelle, distribuite in uno spazio la cui profondità si misura in miliardi di anni luce (e ogni anno luce è circa diecimila miliardi di chilometri!). Ma da molto prima dell’avvento della cosmologia moderna, l’uomo ha vissuto con grande intensità il rapporto con l’universo. 

Fascino misterioso. Tutte le civiltà antiche sono state profondamente segnate dal fascino misterioso del cielo, e hanno avvertito nella volta stellata la vertigine, l’immensità, la bellezza del creato. Anche la nostra tradizione biblica è ricchissima di simboli e riferimenti astronomici: “i cieli” sono spesso chiamati in causa quando si parla di Dio. Così oggi, davanti agli spazi sconfinati della cosmologia moderna, oggetto del mio lavoro quotidiano di ricerca, non posso non chiedermi: chi è Dio, in questo universo immenso? E chi è l’uomo? Come la nostra tradizione giudaico-cristiana ci introduce e illumina queste domande? L’antico popolo ebraico, scrutando la volta celeste a occhio nudo, si rese conto molto bene della sproporzione che sussiste tra la natura umana e l’immensità del cosmo. Le parole del Salmo 8 sono ancora oggi - a mio parere - insuperabili nel dar voce a questa sproporzione, anche secondo la sensibilità che nasce dalla nostra visione attuale dell’universo:
«Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,4-5)
Che cos’è l’uomo, chi siamo noi in questa “smisurata stanza” della creazione? Grani di polvere. L’uomo è “quasi nulla” nell’immensità del cosmo. La scienza moderna, ben lungi dal ridimensionare questa sproporzione, la amplifica a dismisura. Ma il Salmo 8 mette subito in luce l’altro versante del paradosso della condizione umana:
«Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,6)
L’uomo è una particella infinitesima nell’universo, eppure ogni essere umano, l’io di ciascuno di noi, è un punto vertiginoso nel quale l’universo diventa cosciente di sé. È impressionante pensare alla piccolezza dell’uomo, e al tempo stesso alla grandezza della sua natura, commensurabile solo con l’infinito. L’uomo è l’autocoscienza del cosmo.
Mi colpiscono quei passi dell’Antico Testamento nei quali la vastità del cielo è usata come immagine della grandezza di Dio, come segno della sproporzione tra Dio e l’uomo, come emblema della Sua misericordia infinita:
«Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,9)

L’enormità delle dimensioni cosmiche che oggi la scienza ha messo in luce approfondisce ancor più la forza di questo paragone. Ma per quanto meraviglioso, nell’Antico Testamento l’universo è sempre indicato come un “segno”, una “immagine”, una “analogia” del suo Creatore. C’è una distinzione fondamentale tra la creazione (l’universo) e il Creatore (Dio). Le cose, infatti, non si fanno da sé. 

Questione di equilibrio? Ricordo che una volta, molti anni fa, mi trovavo in una situazione difficile. Ero appena tornato in Italia dopo alcuni anni trascorsi negli Stati Uniti e avevo iniziato insieme ad altri quel progetto che poi sarebbe diventato Planck. Il lavoro era intensissimo, dovevo spesso viaggiare, stare lontano da casa anche per lunghi periodi. Avevamo un figlio piccolo, nato in America, e appena ritornati in Italia era nata la nostra seconda figlia. Nel frattempo avevo anche iniziato a insegnare in università. Insomma, mi sembrava di non riuscire a rispondere a tutto quello che la vita mi chiedeva. Un giorno ebbi la fortuna di incontrare don Giussani, al quale raccontai questa situazione e gli chiesi un consiglio su come trovare un equilibrio, un giusto compromesso, tra la mia responsabilità in famiglia, l’impegno nella ricerca, l’insegnamento, eccetera. Dopo qualche secondo di silenzio lui mi guardò, e mi rispose: «No, non è un problema di equilibrio. Quello di cui devi renderti conto è che quando hai a che fare con i tuoi figli e con tua moglie, e quando hai a che fare con il tuo lavoro e le tue ricerche, con i tuoi studenti, con i tuoi amici, hai a che fare con Cristo». Poi prese di tasca un fazzoletto, lo passò sul tavolo e me lo mostrò dicendo: «Vedi questi grani di polvere? Anche questi grani di polvere, ultimamente, vengono da Lui».
Quel dialogo mi colpì a fondo. Non ha magicamente risolto i miei problemi (anzi… negli anni la complessità della vita è aumentata!), ma ha introdotto uno sguardo nuovo sulle cose, uno sguardo che pian piano si è fatto largo in me. «Tutto, ultimamente, viene da Lui». La realtà non si fa da sé, ogni cosa è data, è creata, ora. Cogliere questo fa la differenza. C’è un punto nel quale la natura della realtà come “data”, “creata”, è più facilmente accessibile alla nostra ragione, diventa un’esperienza sensibile per ognuno di noi: l’esserci del mio io in questo istante. Per usare ancora le parole di don Giussani: «In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”... Io sono Tu che mi fai» (Il senso religioso, Rizzoli, p. 146). 

La sorpresa del reale. Questa è la nostra condizione, ed è la stessa condizione in cui si trovano tutte le cose intorno a noi: i grani di polvere, le stelle del cielo, ogni galassia e ogni particella dell’universo, il tempo e lo spazio, ogni creatura se potesse pensare, dovrebbe dire: «Io sono Tu che mi fai». Ultimamente ogni cosa ha radice nel mistero che la chiama all’essere in ogni istante. È di qui che nasce in noi la sorpresa per la presenza del reale, senza della quale tutto sarebbe scontato, tutto si fermerebbe alla pura apparenza, tutto si svuoterebbe di senso: 
«Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dèi, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,1-5)
Uno degli aspetti più affascinanti che emergono dall’astrofisica attuale è l’evidenza che la vita, e la nostra esistenza, richiedono il concorso dell’intera storia dell’universo per poter sussistere. Già gli antichi sapevano che la vita umana dipende dal sole e dalla pioggia, dalla fertilità della terra, dal giorno e dalla notte, dall’avvicendarsi delle stagioni. Oggi sappiamo che la vita dipende anche dai cicli stellari, dalle esplosioni di supernovae, dal ritmo dell’espansione cosmica, dal contrasto di densità nell’universo primordiale, dalla struttura delle leggi fisiche, dal valore delle costanti fondamentali. Senza tutte queste cose (e molte altre), senza una storia cosmica di 14 miliardi di anni, non ci sarebbe la vita. Più conosciamo l’universo e più ci accorgiamo che ogni suo aspetto sembra concorrere alla possibilità di ospitare la nostra esistenza. 
Nell’Antico Testamento si trovano riferimenti sublimi all’universo (non solo alla Terra) come il luogo che accoglie la vita, l’ambiente creato per rendere possibile la nostra esistenza.
«Egli stende il cielo come un velo, lo spiega come una tenda ove abitare» (Is 40,22)
L’universo intero è il grembo della vita, fino al miracolo dell’unicità della creatura umana. Dio chiama per nome ogni uomo, unico e irripetibile, e ha dato forma alla figura personale di ciascuno di noi dalle profondità della storia del cosmo, nel segreto delle sue viscere, fino alla fisicità del ventre di nostra madre.
«Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra» (Sal 138,15)
Ho cercato di dire come, nella mia esperienza, il rapporto con Dio allieta la percezione dell’oggetto del mio lavoro quotidiano, che è lo studio dell’universo. Ma a dire il vero, nella mia vita, la familiarità con Dio non è anzitutto il frutto della ricerca scientifica, che pure tanto mi appassiona. È piuttosto il frutto di un incontro umano che ho fatto, e che continuo a sperimentare nel presente. “Dio” sarebbe per me una parola astratta se non Lo avessi incontrato in Gesù, attraverso l’incontro con testimoni credibili, affidabili, affascinanti, nella Chiesa. Senza l’avvenimento di questa umanità cambiata, che continuamente mi sorprende e mi corregge, che ne sarebbe del mio sguardo all’universo? Sarebbe forse più cinico, più smarrito, più presuntuoso... E che ne sarebbe del mio rapporto con i colleghi, con i collaboratori, con i miei studenti? Perché ogni lavoro, anche il mio, è fatto soprattutto del rapporto con le persone con cui si lavora. E questo non è tutto. Che ne sarebbe del bene che voglio a mia moglie e ai miei figli, agli amici? Che ne sarebbe di me?

Il Mistero e noi. È commovente pensare che il Mistero eterno che trae dal nulla l’universo in ogni istante si è interessato a noi fino a diventare compagnia umana alla nostra vita. E in questa prospettiva cosmica, che impressione sentirsi dire da Gesù, Re dell’universo: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati» (Lc 12,1-7). Che tenerezza infinita, che vertigine. È questo il carattere di Dio, il vero abisso: la cura che Egli ha per ciascuno di noi. «Per noi Dio non è un’ipotesi distante», ha scritto Benedetto XVI ai seminaristi il 18 ottobre 2010, «non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il Big Bang. Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio, nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi».
Intervento alla XXV Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici su “La questione di Dio oggi”. Roma, 25 novembre 2011
da tracce N.1 2012

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