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giovedì 23 febbraio 2012

sfrancesco,


A PROPOSITO: VOGLIAMO PARLARE DEL “TAU”?!
NO,
NON È LA STESSA COSA DI UNA TESTA MOZZA DI CHE GUEVARA
***
Un’ultima riflessione mi sia concessa per il Tau, l’ormai famosa “croce” francescana, che, senza voler giudicare il cuore delle persone, è portata più per superstizione o come talismano, anziché essere usata con lo spirito sensibile di Francesco. Ma cosa significava il tau per il santo di Assisi?
Il tau è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. Esso venne adoperato con valore simbolico sin dall’Antico Testamento. Se ne parla già nel libro di Ezechiele: “Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono” (Ez.9,4). Esso è il segno che, posto sulla fronte dei poveri di Israele, li salva dallo sterminio: san Francesco lo collega subito anche al passo dell’Apocalisse 7,2-3 dove si parla di un sigillo posto sulla fronte e lo identifica quale segno di redenzione, segno esteriore di quella novità di vita cristiana, più interiormente segnata dal Sigillo dello Spirito Santo, dato a noi in dono il giorno del Battesimo (Ef.1,13).
Esso fu adottato prestissimo dai cristiani e, per la verità, prima del Crocefisso. Tale segno si trova già nelle catacombe a Roma. I primi cristiani adottarono il Tau perché, come ultima lettera dell’alfabeto ebraico, era una profezia dell’ultimo giorno ed aveva la stessa funzione della lettera greca Omega, come appare dall’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dal fonte dell’acqua della vita… Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap.21,6; 22,13).
San Francesco d’Assisi, per lo stesso motivo, faceva riferimento al Cristo, l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine, anzi il fine: per la somiglianza che il Tau ha con la croce, ebbe carissimo questo segno, tanto che esso occupò un posto rilevante nella sua vita come pure nei gesti.
Vi è da dire, però, che se il Tau era per Francesco “il segno, il simbolo” – tanto da usarlo anche come firma nelle lettere – il Crocefisso era l’oggetto della sua adorazione: davanti a Lui si inginocchiava, trascorrendo molte ore e aspettando spesso anche risposte alle sue domande. Il tau, dunque, non sostituisce il Crocefisso, come taluni erroneamente credono trasformandolo in una sorta di feticcio. Portare il Tau significa avere risposto sì alla volontà di Dio di salvarci, accettare la sua proposta di salvezza: significa, quindi, convertirci a Gesù Cristo – incarnato, morto e risorto – e non ad una sua immagine generica, privandolo, come spesso avviene, della Sua Sposa, la Chiesa…
CONCLUDIAMO CON UN CANTO FRANCESCANO. FALSO (NATURALMENTE)
***
Per concludere, come ciliegina sulla torta, non possiamo dimenticare il famoso canto attribuito a san Francesco: Signore fa’ di me uno strumento della tua pace. E’ uno di quei fiori all’occhiello, fino a qui descritti, di un Francesco “mitico” e pacifista, che nulla ha a che vedere con quello autentico.
Roberto Beretta, in un articolo intitolato Gli apocrifi del Poverello (Avvenire 9 gennaio 2002, p.23), ha scritto:
Tutti conoscono la cosiddetta “Preghiera semplice” – quella che suona: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace. Dove è odio, fa’ che io porti l’amore…”- e quasi tutti ne allegano la paternità all’autore del “Cantico delle creature”. Gli storici, peraltro, e gli addetti ai lavori hanno sempre saputo invece che tale suggestiva orazione è tutt’altro che
: infatti ha un secolo d’anzianità al massimo e non è stata neppure composta da un frate minore; l’attribuzione al Poverello si deve al fatto accidentale che essa fu stampata una volta sul retro di un santino di Francesco d’Assisi…
Certo: la “Preghiera semplice” è un inno alla pace, all’amore, insomma alle virtù cristiane che ben corrispondono all’immagine di san Francesco divulgata popolarmente. Ma si tratta comunque di uno stereotipo: è corretto alimentarlo senza ricorrere alle fonti originali? Padre Willibrord-Christian van Dijk, un cappuccino che ha studiato la vicenda della “Preghiera semplice” per 40 anni, ha notato, per esempio, la stranezza di attribuire a un “santo che passa per essere un grande mistico cristiano un testo che non s’indirizza a Gesù Cristo e nemmeno lo nomina, né vi si trova alcuna citazione evangelica o biblica”. Osservazione pertinente, visto che tutte le preghiere autentiche di Francesco sono nient’altro che centoni di frasi desunte dalle Scritture e/o dalla liturgia
San Francesco non è un “archetipo” astratto, bensì un personaggio storico; e come tale merita di essere trattato anche nell’esame dei suoi scritti. Con metodo rigoroso, infatti, lo studioso francese arriva a risultati pressoché definitivi sull’origine della “Preghiera semplice”: la sua più antica stampa conosciuta risale al dicembre 1912, quando l’orazione comparve sulla pia rivista parigina La Clochette (“La campanella”), bollettino mensile della Lega della Santa Messa: era anonima, ma forse attribuibile al direttore del periodico stesso, il prete poligrafo normanno Esther Auguste Bouquerel.
Di lì a poco la strofetta fu ripresa da un’altra rivista francese e quindi, nel 1916, sulla prima pagina dell’Osservatore romano, che la lanciò internazionalmente come invocazione per la pace.
L’abbinamento col saio del grande Assisate avviene dopo il 1918, quando il cappuccino padre Etienne Benoit stampa il testo dell’orazione sul retro di un’immaginetta destinata al suo terz’ordine e recante in facciata la figura del Fondatore: “Questa preghiera riassume meravigliosamente la fisionomia esterna del vero figlio di san Francesco”, scrive il religioso. E’ un santino, dunque, l’origine della falsa attribuzione francescana, che però diventa esplicita per la prima volta nel 1927 in una pubblicazione protestante: i cattolici infatti rifiuteranno tale abusiva paternità almeno fino agli anni Cinquanta…”
Chiudiamo così, con un falso, uno dei tanti, questa ricapitolazione del Francesco autentico.    
                 da:

Raccontare "on the road" la Chiesa

Postato da: giacabi a 08:20 | link | commenti
sfrancesco

venerdì, 16 settembre 2011

Dialogo  tra San Francesco e il Sultano
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FF. 2690-2691
IL SULTANO: II vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliervi la tonaca, dunque voi cristiani non dovreste imbracciare armi e combattere i vostri nemici.
FRANCESCO: Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Il perdono di cui Cristo parla non è un perdono folle, cieco, incondizionato, ma un perdono meritato.
Gesù infatti ha detto: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”. Infatti il Signore ha voluto dirci che la misericordia va dispensata a tutti, anche a chi non la merita, ma che almeno sia capace di comprenderla e farne frutto, e non a chi è disposto ad errare con la stessa tenacia e convinzione di prima.
Altrove, oltretutto, è detto: Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E, con questo, Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete.
Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi.

Postato da: giacabi a 07:14 | link | commenti
islam, sfrancesco

martedì, 13 settembre 2011

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Predicate il Vangelo sempre...

se necessario usate anche le parole.
(San Francesco di Assisi))

Postato da: giacabi a 14:17 | link | commenti
sfrancesco

domenica, 29 maggio 2011

L’Everest dell’umano
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[234]A frate N... ministro. Il Signore ti benedica!
Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell'amare ilSignore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia.
E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori.
[235] E questo sia per te più che stare appartato in un eremo.
E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè:
che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.
[236] E avvisa i guardiani, quando potrai, che tu sei deciso a fare così

SAN FRANCESCO D'ASSISI
***************************************************
Dice Francesco d’Assisi, rivolgendosi a un ministro, cioè a un ministro del culto: «Ama coloro che agiscono con te in questo modo», cioè in modo obbediente, rispettoso. Ma cosa vuol dire questo, rispetto alle segretarie, alle infermiere che lavorano con me? Immediatamente è una cosa grande! Ama coloro che si comportano così con te, non considerarli pezze da piedi. «Quelli che agiscono con te in questo modo»: era un ministro del culto quello, la gente gli andava dietro. «Ama coloro che agiscono con te in questo modo»: vale anche con i figli, perché non troviamo gusto nel tenerli sotto (tra l’altro, poi, psicologicamente, succedono tutti i disastri del mondo), ma ad amarli sì. «Non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te». Questo è troppo bello! «Non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te», e così come Dio dà a te quel che ti dà, e da te non si può pretendere di più, allo stesso modo tu non pretendere dagli altri più di quello che possono dare. Ma il prosieguo della frase è il massimo, l’Everest dell’umanità, una cosa che non ho mai sentito: «In questo amali [in questo amali: nella loro presenza], non pretendere che diventino cristiani migliori». Non pretendere che diventino cristiani migliori, perché quel “migliori” ce lo metti tu e vuol dire “come tu vuoi che diventino”. È il mistero di Dio presente che te li fa abbracciare, come ci fa abbracciare tra noi senza porci il problema se uno è più o meno cristiano. «Non pretendere che diventino cristiani migliori», perché sarebbero cristiani migliori secondo la tua testa. È veramente un’umanità grandissima.
ENZO PICCININI l'Everest dell'umano


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cristianesimo, piccinini, sfrancesco

domenica, 06 febbraio 2011

Quando ci irridevano per la castità…
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6 febbraio 2011 / In News
Fummo una generazione irriverente, trasgressiva. Negli anni Settanta chi non ha fatto scioperi e okkupazioni? Il “vietato vietare”, il sei politico, poi gli spinelli, gli amorazzi usa e getta, il fanatismo ideologico, la violenza politica, i capetti intolleranti circondati di “compagne” adoranti.
Una generazione obbedientissima – come la giudicò Pasolini – ai padroni del pensiero dominante che la volevano rivoluzionaria.
Poi alcuni di noi hanno incontrato dei padri e hanno disobbedito ai padroni. Abbiamo sperimentato la vera libertà. Ci siamo avventurati in terre sconosciute, abitate da una bellezza mai immaginata, abbiamo sperimentato l’amicizia, l’autenticità, il gusto di una vita diversa.
Senza neanche metterlo a tema, seguendo il fascino di Gesù Cristo, ci siamo trovati a vivere lo splendore della castità, fra ragazzi e ragazze, e perfino a intuire la poesia rivoluzionaria della verginità.  
Meravigliati da quanto era bello il volto della propria ragazza non ridotta a preda, a oggetto su cui sfogare la propria violenta solitudine.
E’ la sovrana e lieta libertà dei figli di Dio per cui Francesco d’Assisi poteva dire:dopo Dio e il firmamento: Chiara”. E nel Testamento di Chiara si legge: “Francesco, nostra unica consolazione e sostegno, dopo Dio”.
Avevamo incontrato uomini veri e per nulla al mondo volevamo perdere quella nuova vita e quel gusto dell’esistenza.
Così diventammo gli “odiati ciellini”. Odiati dal branco dei “compagni” che, al mercato libertario delle facili carni (limitrofo alla bancarella dell’eroina), sghignazzavano sui preti e il papa e – com’era facile per gli sciocchi – sulla castità dei ciellini. In tanti casi dal disprezzo si passò pure alle spranghe, ai pugni, agli insulti.
Eccoli là, oggi, i compagni di allora. Non hanno fatto la rivoluzione, però molti hanno fatto carriera e soldi. E l’arroganza è spesso rimasta identica. Sotto la canizie e la calvizie ruggisce ancora il giovanotto fanatico di allora.
L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi.
Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?
Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio: quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale.
In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni…
Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”.
Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.
Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato?
D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”?
E’ la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne” dunque parteciperà questo Scalfaro.
E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: ‘Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort’ ”.
Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?
E’ meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa?
Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pedofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.
Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità.
O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante.
C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.
Bene. Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.
E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.
Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.
Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico?
E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?
E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità.
Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”.
Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.
  
Antonio Socci
da “Libero”, 6 febbraio 2011

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lunedì, 04 ottobre 2010

San Francesco
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Nasce, tra il Dicembre 1181 e il Settembre 1182 da Pietro Bernardone dei Moriconi, ricco mercante di stoffe, e dalla nobile Signora Pica Bourlemont, un figlio a cui viene dato inizialmente (dalla madre) il nome di Giovanni.
Il padre, che al momento della nascita era in Francia per affari, quando ritornò ne cambiò il nome in Francesco e, con tale nome, fu ed è comunemente e generalmente conosciuto.
Dopo aver condotto fino ai 24 anni una vita dissoluta ed aver provato la carriera militare (tra le altre fu fatto prigioniero dai perugini), San Francesco riceve in sogno la chiamata del Signore.
Rinuncia pubblicamente nella piazza del Vescovado di Assisi agli averi paterni e si incammina con pochi seguaci verso una vita di preghiera e di obbedienza a “Sorella Povertà“:
Gli inizi sono molto difficili in quanto le idee di San Francesco sulla povertà e sulla semplicità della vita non sono comprese ne dalla gente e ne dal clero.
E’ questo il periodo del miracolo del lupo di Gubbio e della riparazione di San Damiano, di San Pietro alla Spina e della Porziuncola di Santa Maria degli Angeli.
Le gesta di San Francesco (il Poeta) non passarono inosservate e le genti di Assisi cominciarono a cambiare l’opinione su questo stravagante giovane e così, dopo qualche tempo, Gli si affiancarono i primi seguaci.
Del primo seguace non ne è noto ne il nome e ne la fine.
Pertanto la storia ci indica come primo “discepolo” Bernardo da Quintavalle (un mercante) seguito da Pietro Cattani (un giurista) (+10 Marzo 1221).
In questo periodo San Francesco concepì (leggendoli dal Messale e dal Vangelo) i primi abbozzi di quella che poi sarebbe divenuta la regola Francescana:
 “Se vuoi essere perfetto va e vendi tutto quello che possiedi e donalo ai poveri, così avrai un tesoro in cielo Non portare alcuna cosa per via, nè bastone, nè bisaccia, nè calzari, nè argento Chi vuol venire dietro di Me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” 
 Le prime esperienze “conventuali” con i compagni San Francesco li ebbe nel Tugurio di Rivotorto.
E proprio nel Tugurio di Rivotorto che poco dopo arrivarono Egidio (un contadino) e successivamente Sabatino, Morico, Filippo Longo e prete Silvestro.
Seguirono poi Giovanni, Barbaro e Bernardo Vigilante ed infine Angelo Tancredi.
Erano arrivati ad essere in dodici e tutti i compagni vestivano come Francesco di un rozzo saio cinto da una corda.

Solo nel 1209 Papa Innocenzo III (dopo la predica ai porci!) approva la Regola dell’Ordine ed autorizza San Francesco a predicare tra le genti.
San Francesco inizia così a girare per il mondo arrivando fino a Dalmiata d’Egitto (1219-20 erano i tempi delle crociate) dal sultano Melek El Kamel.
Nel 1224 San Francesco riceve le stigmate un miracolo mai accaduto prima di allora se non al Figlio di Dio.
Sentendo vicina la morte San Francesco si fa riportare da Siena ad Assisi e più precisamente alla Porziuncola la piccola cappella (allora) ove morirà su un giaciglio sulla nuda terra il 4 ottobre 1226.
Fu Frate Elia, suo successore a capo dell’Ordine a annunciare al mondo la presenza sul corpo del Santo delle stigmate e la rivelazione di esse provocò nella chiesa gravi lacerazioni e scetticismi che dureranno anche nei secoli successivi.
Basti pensare che, quando San Francesco fu proclamato Santo (1228) da Papa Gregorio IX, la bolla di canonizzazione non ne citava la presenza.
Nel 1939 Papa Pio XII proclamò San Francesco il Patrono d’Italia.

Grazie a : http://beatifulife.splinder.com

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venerdì, 30 aprile 2010
LA SINDONE NUOVE RIVELAZIONI



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giovedì, 29 gennaio 2009

Il lavoro

Chi lavora con le mani
è un operaio,

chi lavora con le mani e la testa
è un artigiano,

chi lavora con le mani, la testa e con il cuore
è un artista.

San Francesco D' Assisi?

Postato da: giacabi a 21:51 | link | commenti
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martedì, 06 gennaio 2009


La povertà di spirito

***

Perché, diciamo la verità, per ciascuno di noi i disonesti, i profittatori, gli opportunisti e i puttanieri (o le puttane) sono sempre “gli altri”. E ognuno di noi istintivamente si mette nel novero delle persone che fanno il proprio dovere, le persone perbene. Ebbene, i santi fanno l’esatto opposto. Un giorno frate Masseo chiede a frate Francesco: “perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti, d'udirti, d'ubbidirti? Tu non sei un uomo bello nell’aspetto, tu non sei di grande scienza, tu non sei nobile; dunque perché a te tutto il mondo viene dietro?”. E Francesco: “Vuoi sapere perché a me tutto il mondo mi venga dietro? Questo io ho dagli occhi dell’Altissimo, che in ogni luogo contemplano i buoni e i rei: poiché quegli occhi santissimi non hanno veduto fra i peccatori nessuno più vile, nè più insufficiente, nè più grande peccatore di me; e perché per fare quell'operazione meravigliosa che egli intende fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra... cosicché si conosca che ogni virtù e ogni bene viene da lui e nessuna creatura si possa gloriare al suo cospetto”.

di Antonio Socci
Tratto da Libero del 25 giugno 2008

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giovedì, 25 settembre 2008

La tentazione più grande
 ***
“Carissimo, la tentazione più grande che il demonio mette nel tuo cuore è di farti credere di essere più utile in qualunque altra parte del mondo fuorchè dove ti trovi o che sarebbe più importante fare qualsiasi altra cosa fuorchè quello che stai facendo.”

Francesco di Sales


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sfrancesco

venerdì, 13 giugno 2008

Il tempo presente

***
           
Il mio passato non mi preoccupa più: appartiene alla Misericordia divina.
 Il mio futuro non mi preoccupa ancora: appartiene alla Provvidenza divina.
Ciò che mi preoccupa é l'adesso, qui ed oggi: esso appartiene alla Grazia di Dio e all'impegno della mia buona volontà.
 San Francesco di Sales



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sfrancesco

domenica, 25 maggio 2008

Ricercare la Verità,
senso profondo dell’esistenza umana
(17 agosto 2005)
 ***


«Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella» (Mt 2,2)
Francesco Lambiasi, vescovo Assistente generale Azione Cattolica
Voglio trovare un senso a questa sera
anche se questa sera un senso non ce l’ha.
 Voglio trovare un senso a questa vita
anche se questa vita un senso non ce l’ha.
 Voglio trovare un senso a questa storia
anche se questa storia un senso non ce l’ha.
Queste parole – tratte da una canzone di Vasco Rossi – voi le conoscete e, forse, in parte vi ci riconoscete o perlomeno ci riconoscete il profilo di qualche vostro amico o amica. Queste parole dicono la nostalgia struggente di un senso, e quindi di un sapore, di un gusto, di una perfezione assoluta, di un cielo incontaminato, ma gridano pure l’angoscia disperata di un labirinto asfissiante e senza uscita. E’ questa la vita: una ingiusta, insopportabile condanna-a-morte? Veniamo dal nulla, viviamo di nulla, costretti a passare i nostri poveri giorni nella morsa a tenaglia tra una volontà irrinunciabile – “voglio trovare un senso a questa vita” – e una verità irraggiungibile – “anche se un senso non ce l’ha”? Siamo torturati da una sete cocente e nello stesso tempo in preda a un miraggio seducente e disperante? Siamo pacchi postali spediti dall’ostetricia all’obitorio?

1. Il vicolo cieco del Nulla?
 Tragico o assurdo quanto si vuole, ma è così. O meglio, sarebbe così secondo una delle posizioni che si possono recensire al riguardo. “In principio era il Non-Senso e il Non-Senso era presso Dio e il Non-Senso era Dio”, sentenziava il padre del nichilismo, F. Nietzsche. Non c’è alcun fine, non si va da nessuna parte, non c’è alcun valore, non esiste alcuna verità. Una parodia tragica del nichilismo nietzscheano è quella dello scrittore Ernest Hemingway: “O nulla nostro che sei nel nulla, sia nulla il tuo nome, nulla il regno tuo, e sia nulla la tua volontà, così in nulla come in nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano. Ave, nulla, pieno di nulla, il nulla sia con te”.
 Lo stesso filosofo del nulla scattava questa istantanea della nostra società di inizio Millennio, nel lontano 1888: “Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Tutta la cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa… Alla fine l’uomo osa una critica di tutti i valori in generale e non crede più in nessun valore: ecco il pathos, il nuovo brivido… Che significa nichilismo? Che i valori supremi si svalorizzano… che non ci sia una verità… che a ogni valore non corrisponda nessuna realtà”.
 Qualcuno potrebbe pensare che queste cose si trovino in pesanti, polverosi tomi di biblioteca. E invece continuano ad intossicare l’aria che respiriamo. Mi limito a qualche esemplificazione.
 Il messaggio del più noto romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, si condensa nelle ultime pagine con due citazioni, una in latino e una in tedesco.
 Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus: “L’antica rosa (Dio) esiste come nome, abbiamo soltanto puri nomi”. Cioè: abbiamo in mano soltanto nude parole, suoni vuoti, dietro cui c’è solo il nulla. La verità non esiste, “non è da nessuna parte”. Anche Dio è solo una bella parola, ma in realtà è un puro nulla: Gott ist ein lautes Nichts. Anche l’altro romanzo, L’isola del giorno prima, si conclude con il dissolvimento di Dio e dell’uomo “in questo grande vuoto del vuoto… composto dall’unico grande nulla, che è la Sostanza del tutto”.
Sullo stesso tasto batte José Saramago, il romanziere portoghese Nobel per la letteratura 1998. La storia è tutta una pazzia, governata com’è da un destino beffardo. Cos’è la vita? Un’apparizione situata tra il nulla e il nulla: il nulla dell’anagrafe e il nulla del cimitero. Tutti siamo “niente… diversi nomi dell’illusione”.
La ricaduta di questi segnali? Una società obesa e depressa, ingolfata e alienata, con un pesante, penoso deficit di speranza. Certo, ci manca la giustizia, sicuramente ci manca, e molto, l’amore, ma più ancora ci manca un senso: non-significato del lavoro, non-significato del piacere, non significato della sessualità. Ai tempi di Freud si parlava di frustrazione sessuale; oggi si deve parlare piuttosto di frustrazione esistenziale. Soffriamo di un vuoto abissale: che senso ha la nostra esistenza?
Se c’è un senso, è sopportabile anche il dolore; se non c’è un senso, il lavoro è inutile, perfino il piacere diventa noioso, e l’angoscia si fa intollerabile. Smarrita la luce della vita, si scolora il quotidiano. Ecco come A. Camus, nobel per la letteratura, già una cinquantina d’anni fa descriveva l’uomo moderno preso negli ingranaggi mortificanti della vita moderna: “Alzarsi, tram, quattro ore di lavoro, mangiare, tram, quattro ore di lavoro, riposo, dormire,  e lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì con lo stesso ritmo… a un tratto tutto crolla, l’assurdità e il vuoto di una simile esistenza si rivelano crudelmente. E allora l’interrogativo fondamentale: ma la vita merita di essere vissuta?”.
Prima di morire I. Montanelli confessava: “Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli. La mia è soltanto una dichiarazione di fallimento” (Corriere della Sera, 28 febbraio 1996).
Ma se la vita non merita d’essere vissuta, non resta che sprofondare nella noia, annegare nella droga, sfogare la disperazione nella violenza. Ma allora ci dobbiamo dire con chiarezza che non è vero che questa “cultura del nulla” non porti da nessuna parte. In verità porta… all’inferno. Non è una “bufala”. Proprio di “inferno” si parlava in una lettera-denuncia giunta al quotidiano Avvenire il 23 luglio u.s., a firma di Marzia Sgrevi, presidente della cooperativa che gestiva la ristorazione al campeggio di “Arezzo Wave”, il festival di musica rock tenutosi dal 12 al 17 luglio scorso. “Ho visto gente “farsi” davanti alla cassa del bar senza ritegno: tanto al campeggio nessuno ci fa caso, nessuno controlla. Fare sesso davanti a tutti oppure “farsi” durante l’atto sessuale per raggiungere il massimo dello sballo. Gente che arrivava al 118 allestita all’interno del campeggio ferita da coltelli. Gli accoltellamenti erano frequenti, e di solito legati a scontri tra spacciatori. Mille o forse più gli spacciatori presenti. Quest’anno c’erano pure tanti bambini all’interno del campeggio: alcuni, figli di tossicodipendenti, li ho visti in crisi di astinenza”.
Sono solo alcuni esiti estremi, questi, della cultura del non-senso? E i tanti giovani in depressione – in Italia uno su cinque! - a chi li mettiamo a carico?  Non ci dicono niente i miliardi di euro dedicati al gioco d’azzardo che in Italia sono aumentati di quasi la metà in quattro anni – cifre da manovra finaziaria?! Non ci dice niente il fatto che in Europa un giovane su quattro, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, muore a causa dell’alcool? che nella sola Milano nell’ultimo anno 136 giovani hanno tentato il suicidio, ma pare che il numero si debba moltiplicare almeno per 10? che in Italia i maghi sono numerosi come i medici: 1/2.900 abitanti? Smarrito il senso, trionfa la banalità, dilaga la disperazione; negata la verità, si afferma la superstizione; archiviato Dio, proliferano i demoni: vedi il satanismo.
Ma ora, senza continuare in questa lugubre litania, forse è più opportuno passare ad una lettura critica della cultura del nulla.
Ci dobbiamo porre, al riguardo, due domande: quella del prima e quella del dopo.
Cosa c’è prima del mio inizio? Le risposte possibili sono due: o alle mie spalle c’è un Altro che mi ha pensato e voluto, e allora non vengo dal nulla, vengo dall’Amore. Oppure alle mie spalle non c’è l’Amore, ma il nulla, ma allora resta da spiegare come mai io ci sia eppure non l’ho deciso io di iniziare ad esistere, non ho fatto io la domanda di poter venire al mondo e di venirci da uomo e non da cavallo, non mi sono fatto da me, a mio piacimento.  E poi se io venissi dal nulla, allora non avrei nulla da sperare, nulla da fare se non lasciarmi andare alla deriva del nulla. Senonché non è possibile volere il nulla e vivere di nulla. Di fatto ognuno sceglie un comportamento perché almeno implicitamente si pone un certo fine. Se invece tutto fosse uguale a zero, se nulla facesse la differenza tra l’onestà e la delinquenza, tra la bontà e la cattiveria, tra la tenerezza e la crudeltà, allora tutto sarebbe uguale al contrario di tutto: il bene sarebbe uguale al male, e alla fine i carnefici avrebbero l’ultima parola sulle vittime innocenti, Hitler sarebbe uguale a Massimiliano Kolbe, e Gandhi potrebbe andare a braccetto con Benladen.
In realtà la volontà del nulla deriva da un amore deluso: da un amore assoluto dell’essere, deluso dall’insufficienza di ciò che appare. Insomma ciò che si vuole veramente è che ci sia qualcosa di consistente, che ci sia l’Amore. Anche il suicida che sceglie di non essere più e quindi decide di uccidere la sua volontà di essere, sceglie di agire per l’unico bene che gli appare in quel momento: quello di far cessare il suo male e quindi paradossalmente grida la sua volontà più profonda, assetata di un Essere vero.  
 Legato a questo problema del “prima”, è il problema del “dopo”: se vengo da un Altro che mi ha pensato e voluto e quindi mi ha amato, non posso andare verso il nulla. Che Amore sarebbe infatti quello che mi avrebbe posto in essere  solo per farmi andare verso la distruzione totale del mio essere? Non è crudele e contraddittorio affermare che il Mistero d’amore che è all’origine della mia storia mi abbia messo in cammino solo per farmi cadere nell’abisso del nulla?
Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo -  confessava Montanelli - La nostra vita, il mondo, il creato, l’esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la mia ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove mente e ragione finiscono – e finiscono purtroppo presto – che per me comincia il grande mistero di Dio”.
Ora, il grande mistero di Dio è un mistero d’amore, che ha il volto e il nome di Padre-Abbà: questo ci ha rivelato Gesù. Ma se Dio è Abbà-Papà, allora sono al mondo su chiamata di Dio, allora c’è un disegno di amore previdente e provvidente sulla mia vita. Posso pensare che esista qualcosa di più giusto e utile per me dell’accettare di realizzare quel piano che è stato tracciato appositamente per me? Colui che fa funzionare l’universo non sarà in grado di far andare bene anche la mia vita? Quel Padre che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e che in una notte nera su una pietra nera vede una formica nera e se ne prende cura, non si prenderà cura di me?
 Questa è la bella notizia (il vangelo) di Gesù: siamo amati prima di ogni nostro bisogno d’amore; siamo attesi, oltre ogni nostro desiderio di attesa; siamo accolti, prima ancora di ogni nostro sogno di ospitalità.

2. La via infinita, senza meta?  
C’è un altro modo per affrontare (o non affrontare!) il problema della verità e del senso della vita: quello di ritenere che non esista una verità, ma che la verità abbia tanti volti e tante espressioni quanti sono gli uomini che ne parlano. Viviamo in un tempo in cui nulla è fisso, nulla è certo, tutto è sfuggente, mobile, inafferrabile. Siamo, dice Bauman, in una “società liquida”, nomadi sperduti in una società individualizzata, soli e spauriti nel grande mercato globale, abitato da sei miliardi di solitari.
 Viviamo nella cultura del frammento: non esiste più il progetto, la storia. Il tempo si frantuma in una miriade di istanti e di eventi che fluiscono senza ordine, senza direzione. Come lo zapping davanti alla TV, come le scorribande dei navigatori su internet, la vita si è fatta un guazzabuglio di immagini in cui si riflette la fantasmagoria della società contemporanea, febbricitante di stimoli e di esperienze.
 Il grande pericolo oggi è quello di teorizzare “la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità di raggiungere la meta della verità” (Giovanni Paolo II, Fides et Ratio 46).
 Ma occorre decidersi una buona volta per tutte. Non si può cercare all’infinito; non si può rimanere alla finestra a guardare. Bisogna fare come Zaccheo e scendere dall’albero… In una breve poesia E. Montale confessava: “Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. Ahimè non sono un rampicante e anche restando / in punta di piedi, non l’ho mai visto” (Diario, 1971). La posizione scelta da Montale è assai diffusa fra persone che si dichiarano intellettualmente oneste e moralmente esigenti. Si sceglie di stare in perpetua ricerca. Oggi la ricerca della verità viene da alcuni elevata a valore supremo, al di sopra della stessa verità. “Se Dio – aveva scritto l’illuminista G.E. Lessingtenesse stretta nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra soltanto l’aspirazione sempre viva della verità, fosse anche a condizione di dovermi sempre, eternamente sbagliare e mi dicesse: ‘Scegli!’, umilmente mi prostrerei verso la sua sinistra dicendo:Questa, Padre! La pura verità appartiene senz’altro a te”.
 E’ una posizione soggettivamente sincera, ma oggettivamente ambigua: con il pretesto di non voler essere mai “sicuri di sé”, questa posizione nasconde un orgoglio sottile: finché si è alla ricerca della verità, il protagonista è il ricercatore, non la verità. La “veracità”, cioè la sincerità della ricerca, l’onestà con se stessi, prende, in questo caso, il posto della verità. La Scrittura ci parla già di alcuni i quali sono “sempre in ricerca, ma senza mai giungere al riconoscimento della verità” (cfr 2Tm 3,7). E’ un tentativo sottile di condurre il gioco, di tenere in scacco Cristo. Di questo passo infatti l’uomo può passare la vita intera a fare ricerche su Cristo, senza mai farsi incontrare personalmente da lui.
 Finché restiamo “in punta di piedi”, in perpetua ricerca, o chiusi nella stanza degli specchi delle interpretazioni, o dondolanti sul ramo di un albero, riusciremo al più a soddisfare una curiosità, ma non a fare l’esperienza dell’incontro che salva. I magi invece non si sono accontentati di contemplare la stella; hanno lasciato casa e patria e sono andati alla ricerca del neonato “re dei Giudei”.

3. La via della stella
Ciò che colpisce nel racconto dei Magi è un particolare tutt’altro che secondario: appena hanno intravisto la stella, subito si sono messi in cammino: “Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo”. Vedere e partire: i Magi non si sono messi a calcolare rischi e pericoli, non si sono fatti prendere dalla nostalgia dell’ambiente che stavano per lasciare, hanno affrontato rinunce e disagi e così, solo così, hanno potuto trovare il re dei Giudei.
Questa capacità di distaccarsi dall’ambiente di tutti i giorni, di prendere le distanze dai luoghi comuni, di liberarsi dalla schiavitù degli idoli più seducenti mi pare una premessa indispensabile per trovare la verità che salva la nostra vita dal non-senso.
Vorrei accennare qui ad alcuni idoli dominanti nella cultura occidentale.
Il primo è l’idolo del piacere.Se vuoi essere felice, cerca di godere finché  puoi, più che puoi”. La cultura edonistica celebra i suoi trionfi soprattutto nel campo della sessualità, dove l’unico criterio sembra essere l’esaltazione del libero godimento, in nome dell’autonomia da ogni “repressione”. Di fatto non si può misconoscere il mare di sofferenze che derivano dalla disgregazione della famiglia, dai sentimenti calpestati, dai coniugi abbandonati, dai figli contesi o lasciati soli, dalla dignità della persona umana umiliata, dall’abbrutimento della pornografia, dall’abominio della pedofilia e della prostituzione infantile.
Il secondo idolo è quello dell’immagine; la sua ideologia si potrebbe formulare così: “Se sei bravo, avrai successo; se avrai successo, sarai felice”. Viviamo, si dice, in una società “meritocratica”, ma è proprio vero? E’ proprio vero che arriva al successo chi è davvero bravo, competente e capace? E’ questo che avviene, ad esempio, nel mondo dello sport o dello spettacolo, o invece per “sfondare”, occorrono bustarelle, spinte, sgambetti? Non dico che avvenga sempre così, che cioè il successo sia sempre comprato; ma se non è sempre così, allora non si può considerare un dogma quella che è solo una (rara) possibilità, e cioè che se sei bravo, puoi arrivare al successo, ma non è detto che ci riesca. E comunque è ancora meno vero che se si raggiunge il successo, si ottiene la felicità. E’ proprio sicuro che le persone più felici si trovano nel settore dei V.I.P.?
Il terzo idolo è quello della libertà. Ma qui bisogna spiegarsi. La libertà, di per sé, è un grande dono di Dio, e il fatto che la società occidentale si sia costruita sul principio del rispetto della persona e dei diritti umani è una grande conquista positiva, indiscutibile e irrinunciabile. Ma tale principio “impazzito” può portare all’individualismo eretto a idolatria (“io mi faccio i cavoli miei”), anche perché sganciato da ogni esigenza di solidarietà e responsabilità. Una libertà selvaggia, “legge a se stessa”, porta inevitabilmente a soggiacere all’istinto, al capriccio, e quindi a smarrire ogni logica del bene comune, ogni doveroso rispetto dei diritti altrui, ogni generosa apertura ai bisogni dei più poveri e dei più deboli.
Occorre una cambiamento di rotta; mettersi in cammino al seguito della stella di Cristo Gesù. Come hanno fatto i magi. Come fece Francesco d’Assisi. Immaginiamo di incontrare il figlio di Pietro di Bernardone in una delle tante feste da lui organizzate: è un giovane che scoppia di vita e di sogni. E ha anche i mezzi per realizzarli. Ricco, intelligente, simpatico, alquanto esibizionista, con una voglia matta di stare sempre al centro dell’attenzione, sembra il tipo del “giovane lupo” che addenta la vita con avidità. Il suo avvenire è senza problemi: soldi, belle compagnie, notti folli e “casinare”: cosa gli manca? Ecco come lo ricorderanno tre dei suoi primi compagni: “Non era spendaccione soltanto in pranzi o in divertimenti, ma passava ogni limite anche nel vestirsi. Si faceva confezionare abiti più sontuosi di quanto non convenisse alla sua condizione sociale, e nella smania dell’anticonformismo, arrivava a far cucire insieme nello stesso vestito stoffe preziose e toppe di panno grezzo” (Legenda dei tre compagni, I,2). C’è però una cosa che Francesco cerca e non trova: la felicità. Di questo passo non la troverà mai, perché scambia la gioia con il piacere ( “a me mi piace”), la libertà con la voglia (“a me mi va”), la verità con l’opinione (“a me mi pare”).
Francesco non è nato santo: lo è diventato. Le fonti francescane ricostruiscono in modo dettagliato e convergente il processo della sua conversione: dopo varie delusioni e sconfitte, il giovane Francesco viene toccato dalla grazia di Dio e vi si arrende, disarmato e  disponibile. Finora non ha vissuto  una vita dissoluta; ha semplicemente immaginato di poter servire Dio e gli idoli del suo tempo: la gloria militare, il piacere di festini e corteggi, il sogno di essere il primo, sempre e in tutto. Ora si ritrova distrutto, ma dopo varie esperienze, finalmente – leggiamo nella stessa Legenda – Francescosmise di adorare se stesso”.
Questa è la conversione più radicale: è la rinuncia al padre di tutti gli idoli, il nostro Io, per far posto a Dio; è “allontanarsi dagli idoli per servire al Dio vivo e vero” (cfr 1Ts 1,9b).
 Storia di altri tempi? Leggiamo allora una pagina ancora in corso, quella di Alessandra Borghese, vaticanista di Panorama. Ripensando alla confessione che ha dato una “svolta” alla sua giovane vita e le ha fatto guardare a Dio Con occhi nuovi – è il titolo del suo libro - racconta: “Avevo scoperto con una gioia che non riesco neanche pienamente a descrivere, che Dio era lì per me, per accogliermi e offrirmi il suo aiuto. Provai un sollievo enorme, mi sentii come rinata”.Cari giovani, vi auguro in questi giorni di poter vedere o rivedere la stella del vangelo. Riprendete la via che essa vi indica. Lasciate le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli correnti: il successo a tutti i costi, la bella figura sempre e comunque, il piacere a prezzi stracciati. “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”, ha ripetuto papa Benedetto, ricordando il grande e indimenticabile Giovanni Paolo II. Oggi, anch’io vi ripeto: “Non abbiate paura di Cristo!”. Lui non è venuto per togliervi la vita, per spegnere la vostra voglia di felicità, per espropriarvi della vostra libertà. Beati voi se crederete al suo amore e gli direte sì..


Postato da: giacabi a 07:42 | link | commenti
sfrancesco, senso religioso

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