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giovedì 23 febbraio 2012

socci1


Gli occhi di Marthe Robin
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Marthe è una straordinaria mistica. Figlia della profonda Francia contadina, questa ragazza di grande forza interiore, dopo ripetuti gravi problemi, dal 1928 resta completamente paralizzata e perfino impossibilitata a deglutire. Vivrà inchiodata al suo letto, senza più poter dormire, senza più poter mangiare né bere alcunché, nutrendosi solo dell’eucaristia che inspiegabilmente poteva deglutire. Non vedeva. Ogni venerdì riviveva le sofferenze della Passione di Gesù del quale portava le stimmate.




Ecco un capitolo del nuovo libro di Antonio Socci “La guerra contro Gesù” (Rizzoli)
          La storia di Alessandra dimostra che infine dal pantano della cultura nichilista, che genera disperazione, non ci libera un’altra cultura, neanche cattolica, ma un incontro, dove si sperimenta che davvero Gesù è vivo, oggi e opera potentemente (e questa è la prova della sua resurrezione).
          Così come i sofismi di certi antichi filosofi greci sull’impossibilità del movimento venivano spazzati via non da altri sofismi contrapposti, ma dalla concretezza di un uomo in movimento. Dal fatto che accade.
          Anche i pregiudizi ideologici dell’esegesi razionalista (poiché un pregiudizio è impermeabile agli argomenti altrui) sono spazzati via di colpo solo da un fatto in cui ci si imbatte e che mostra tangibilmente Gesù esistente e vivo, quindi risorto, operante qui e ora. E’ quanto accadde – secondo Guitton – a uno dei più radicali fra gli esegeti razionalisti: Paul-Louis Couchoud.
          Abbiamo già visto il suo pensiero espresso in “Le mystère de Jésus”. Ecco le sue parole: “L’idea che Dio si sia incarnato… ci urta. E’ una concezione prekantiana. Essa è stata accettata da grandi spiriti come sant’Agostino, san Tommaso, Pascal; però oggi è inammissibile”[1].
Couchoud esprimeva con perfetta lucidità il “pregiudizio” dei moderni.
          Egli infatti eliminava “a priori” la possibilità dell’incarnazione perché “inconcepibile”, pretesa tipica del razionalismo moderno secondo il quale ciò che supera le possibilità del raziocinio umano non esiste (come se l’Essere fosse stato partorito dagli uomini e quindi dovesse star “dentro” la loro mente, quando è evidente il contrario: gli uomini sono “contenuti” dentro l’Essere e la loro mente è piuttosto una finestra aperta sull’infinito che una scatola contenente il Tutto)[2].
          Il suo pensiero si inseriva nel filone “mitico” dell’esegesi, quello che da David Strauss ritiene che Gesù sia stato “inventato”, come Dio incarnato che soffre e redime, per dare concretezza a un pensiero, a un simbolo dell’immaginario collettivo. Couchoud, filosofo, esegeta, medico, docente universitario, fondatore di un nota collana di libri “anticristiana”, arrivava alle conclusioni estreme.
          Jean Guitton, che fu suo amico e ha scritto molto su di lui e la sua parabola umana e intellettuale, sintetizza così il suo caso: “Egli era la persona più estranea al cristianesimo che vi sia stata al mondo (negava l’esistenza storica di Gesù)”[3]. 
          Quella sua negazione a priori dell’esistenza storica di Gesù non aveva il supporto di veri argomenti storici, perché anzi i documenti dimostrano il contrario. La sua era una paradossale conclusione filosofica ed esegetica che nasceva dal riconoscere che la riduzione di Gesù a semplice rabbi, fatta dagli esegeti alla Loisy e Renan, faceva sorgere un problema ancor più grande di quello che pretendeva di risolvere, perché così diventava assolutamente impossibile spiegare “la nascita del cristianesimo”, che ai suoi occhi appariva “un’incredibile assurdità e il più bizzarro dei miracoli”[4].
Era dunque su posizioni radicalmente anticristiane.
          Eppure anche Couchoud capovolge la sua posizione e si converte – secondo la testimonianza di Guitton[5], contestata da alcuni – perché un giorno si imbatte in un fatto, nella presenza evidente di Gesù vivo e operante nel XX secolo. La clamorosa conversione di Couchoud si verifica grazie al suo incontro con Marthe Robin.
          Marthe è una straordinaria mistica. Figlia della profonda Francia contadina, questa ragazza intelligentissima, dolce, semplice, di grande forza interiore, nata nel 1902 e morta il 6 febbraio 1981, dopo ripetuti gravi problemi, dal 1928 resta completamente paralizzata e perfino impossibilitata a deglutire.
          Per 50 anni, nel suo villaggio tra il Rodano e le Alpi, vivrà inchiodata al suo letto, senza più poter dormire, senza più poter mangiare né bere alcunché, nutrendosi solo dell’eucaristia che inspiegabilmente poteva deglutire. Non vedeva. Ogni venerdì riviveva le sofferenze della Passione di Gesù del quale portava le stimmate. Dal suo letto di dolore, tramite le persone che andavano da lei, ha fondato centinaia di centri di preghiera in tutto il mondo, i “Foyers di carità”. Il 15 ottobre 1925 aveva messo nero su bianco il suo atto di abbandono e offerta al Signore: “una vera e propria lettera d’amore. Ha ventitré anni, è il suo fidanzamento”[6].
Ecco le sue parole:
Signore, mio Dio, hai domandato tutto alla tua piccola serva. Prendi dunque e accogli tutto.
In questo giorno mi affido a Te senza riserve e senza nulla in cambio.
O mio amato, è solo Te che voglio…
E per amor tuo  rinuncio a tutto…
O Dio d’amore prendi la mia memoria e tutti i suoi ricordi.
Prendi la mia intelligenza e fa’ che sia a servizio solo della tua massima gloria…
Prendi tutta la mia volontà…
Prendi il mio corpo e tutti i suoi sensi, il mio spirito e tutte le sue facoltà, il mio cuore e tutti i suoi affetti.
Ricevi l’immolazione che ogni giorno e ogni ora io Ti offro in silenzio. Degnati di accoglierla e trasformarla in grazie e benedizioni per tutti coloro che amo, per la conversione dei peccatori e la santificazione delle anime…
Prendi e santifica tutte le mie parole, tutte le mie azioni, tutti i miei desideri.
Sii per l’anima mia il suo bene e il suo tutto. La dono e l’abbandono a Te.
Accetto con amore tutto ciò che viene da Te: dolore, sofferenze, gioia, consolazione, aridità, abbandono, rinuncia, disprezzo, umiliazione, lavoro, prove…
Dio mio, Tu conosci la mia fragilità e l’abisso infinito della mia grande debolezza. Se un giorno dovessi essere infedele alla Tua suprema volontà, se dovessi… disertare il Tuo cammino d’amore, oh!, te ne supplico, fammi la grazia di morire all’istante!
O Dio dell’anima mia, o sole divino, io Ti amo, Ti benedico, Ti lodo, mi abbandono tutta a Te. Mi rifugio in Te.
Nel Tuo seno… Prendimi con Te.
Non voglio vivere che in Te.
 
          Riferisce Jean Guitton: “Mi accadde di parlare con de Gaulle di Marthe Robin e di sentirgli dire che la considerava forse la persona più eccezionale di questo secolo. Il cardinale Daniélou condivideva questa opinione”[7].
          Il fatto curioso è che Guitton, importante filosofo cattolico, conobbe Marthe proprio su invito di Couchoud che con lei aveva intrecciato una grande amicizia: “un’amicizia che legava il più grande ateo dell’esegesi alla persona mistica più singolare del mondo”[8].
          Guitton dà ancora qualche flash su Marthe: “Possedeva un carisma superiore a qualunque altra persona che io abbia mai conosciuto. Non so spiegarlo: quella donna era isolata da tutto; lottava continuamente contro il demonio. Non si poteva entrare nella sua stanza senza che tutti i mobili fossero scagliati a terra, non si sa come”[9].
          Il vescovo di Valence incaricò due illustri medici di visitare Marthe ed esprimere il loro parere scientifico. Il dottor André Ricard, chirurgo degli Ospedali di Lione, e il dottor Jean de Chaume, professore alla Facoltà di medicina e primario della Clinica neuropsichiatrica di Lione, la visitarono per un’intera giornata e stilarono un rapporto medico in cui, sotto giuramento, scrissero:
Non presenta turbe psichiche di rilievo, né segni di affezione clinica: escludiamo la frode, la simulazione e l’origine isterica delle manifestazioni (stigmate, inedia, visioni, estasi); siamo obbligati a riconoscere la nostra impotenza; dichiariamo la presenza di vere stigmate sanguinanti, al di fuori di ogni imbroglio e preferiamo riconoscere che non vediamo né la causa né il meccanismo in base alle nostre attuali conoscenze e le consideriamo di ordine soprannaturale”[10].
L’incontro e l’amicizia con Marthe Robin fu decisivo per Couchoud.
          Il grande ateo, lo studioso razionalista, non poteva negare l’evidenza del Mistero, in quella presenza. Le scrisse: “Ignoro quello che ignori. Vorrei sapere quello che sai. Di quello che preghi, mi giunge il profumo. Non dimenticarti di me, o piena di vita!”. Jean Guitton, che ha conosciuto e seguito questa loro amicizia, testimonia la conversione finale di Couchoud nel libro “Ogni giorno che Dio manda in terra” [11].
 
Note:
[1] Cit in storia esegesi spadafora… p. 228
[2] Quello straordinario maestro di razionalità che è don Luigi Giussani osserva: “Se c’è un delitto che una religione può compiere è quello di dire ‘io sono l’unica strada’. E’ esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Non è ingiusto sentirsi ripugnare di fronte a tale affermazione. Ingiusto sarebbe non domandarsi il motivo di tale pretesa” (All’origine della pretesa cristiana, p. 31). Quindi l’atteggiamento razionale, osserva Giussani, è quello di chi si chiede – davanti a simile pretesa – se sia vera oppure no, se sia accaduto oppure no, se Dio si è davvero fatto uomo o no. Perché “se fosse accaduto, questa strada sarebbe l’unica… perché l’avrebbe tracciata Dio” (p. 34).
[3] Guitton, Ritratto di Marthe Robin, p. 19.
[4] Cit. in Messori, Ipotesi su Gesù, p. 152
[5] Guitton, Ogni giorno che Dio manda in terra, cit. pp. 157-159
[6] Così scrive Raymond Peyret, in “Marthe Robin” (Massimo…), p. 24. Da questo libro riprendo anche il testo scritto da Marthe.
[7] Guitton, Ogni giorno che Dio manda in terra, p. 112
[8] Guitton, Ritratto di Marthe Robin, p. 25
[9] Guitton, Ogni giorno che Dio manda in terra, p. 112
[10] Guitton-Antier, Poteri misteriosi della fede, Piemme, p. 206
[11] Guitton riferisce i fatti in “Ogni giorno che Dio manda in terra”, pp. 157-158
 
da; http://www.antoniosocci.com

Postato da: giacabi a 14:35 | link | commenti
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domenica, 11 settembre 2011

Uno sfregio a padre Pio
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11 settembre 2011 / In News
Sono milioni ogni anno i pellegrini che si recano a San Giovanni Rotondo. E negli ultimi tempi si trovano davanti a sorprese che lasciano sconcertati, nel nuovo edificio di Renzo Piano dove è stato portato il corpo di san Pio.
Per esempio i mosaici (che a me non piacciono) realizzati da Marko Rupnik proprio per il sepolcro del Padre. In tutto il ciclo delle raffigurazioni c’è una testata giornalistica italiana che viene mostrata e di conseguenza viene – per così dire – pubblicizzata.
Una sola: “l’Unità”. E’davvero molto sorprendente perché nel mosaico si vede padre Pio che addirittura benedice una tizia che ha in mano appunto “l’organo del Partito comunista italiano”.
Il messaggio inequivocabile è quello di una benedizione alla stessa “Unità” e all’appartenenza comunista.
O comunque di una sua irrilevanza agli occhi di padre Pio. La didascalia – come vedremo – fornisce proprio questa interpretazione.
Bisogna tenere presente cosa era l’Unità e cosa era il Pci di Togliatti e Stalin ai tempi di padre Pio.
Sulle pagine del giornale comunista ovviamente venivano magnificate quelle dittature dell’Est che martirizzavano la Chiesa. E venivano propalate le tipiche menzogne del comunismo internazionale.
Quando, nel 1953, morì Stalin, uno dei più sanguinari carnefici della storia umana, l’Unità titolò così, a tutta prima pagina: “Stalin è morto. Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità. Onore al grande Stalin!”.
L’editoriale dell’Unità era il testo del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione sovietica. Vi si leggeva: “Il nome immortale di Stalin vivrà per sempre nel cuore del popolo sovietico e dell’umanità amante del progresso. Evviva la grande e invincibile dottrina di Marx, Engels, Lenin e Stalin! Evviva il grande Partito Comunista dell’Unione Sovietica!”.
Poi veniva riportato la servile sviolinata di Togliatti, nel 1949, per il compleanno del feroce tiranno. Padre Pio conosceva bene l’orrore e le stomachevoli menzogne del comunismo che aveva imposto l’ateismo di stato con stragi e regimi di terrore.
E’ ben noto che per lui l’adesione al Pci non era un’idea politica da discutere, ma un peccato mortale da confessare davanti a Dio e di cui pentirsi e ravvedersi. Senza se e senza ma.
Come ricordava quel comunista di Cerignola che andò a confessarsi dal padre, nel dopoguerra, e quando terminò l’elenco dei suoi peccati si sentì dire: “E quella tessera che tieni qui, non ti dice niente?”.
Lui rispose: “Oh, Padre è per il lavoro”. “E il lavoro te l’hanno dato? Hai tradito il Signore tuo Dio e ti sei messo tra i suoi nemici”, tuonò il padre.

Ancora più movimentato fu il caso di un comunista di Prato, l’esplosivo Giovanni Bardazzi che padre Pio nel 1949 cacciò via dal confessionale e che – per ripicca – andò a un’udienza di Pio XII cominciando a strillare che padre Pio l’aveva cacciato.
Giovanni Bardazzi divenne poi uno dei figli più ardenti di padre Pio e non solo rinnegò la sua militanza comunista, ma andò a cantarle chiare ai suoi ex compagni e poi per anni e anni, ogni settimana, convogliò tanti di loro, un fiume di persone, a San Giovanni Rotondo.
Si può dire che padre Pio sia stato il più straordinario convertitore di militanti comunisti dell’Italia del dopoguerra, perché aveva capito benissimo quello che fior di intellettuali cattolici e laici non capirono: che cioè non era una faccenda politica, ma che si trattava di essere con Gesù Cristo o contro di lui. E il comunismo era ferocemente contro Cristo. Perciò anche contro l’uomo.
Fra le storie di conversione di militanti comunisti, la più sorprendente fu forse quella del medico francese Michel Boyer, un famoso eroe della Resistenza francese.
Una della più commoventi fu quella di Italia Betti, la “pasionaria” dell’Emilia. Durante l’occupazione nazifascista fu membro del CLN di Bologna e la si ricorda, il giorno della liberazione, entrare a Bologna, alla testa delle truppe partigiane, con una bandiera rossa in pugno.
Nel dopoguerra, alla guida di una moto, diffondeva nelle campagne il verbo del partito con grande zelo. L’incontro con padre Pio, nel 1949, capovolge la sua vita.
Nel dicembre lascia Bologna per andare a vivere a San Giovanni Rotondo suscitando grande clamore tra i compagni che cercarono di dissuaderla.

Considerando tutti questi episodi quell’immagine con “l’Unità” al centro risulta del tutto fuorviante.
Ho dunque telefonato a un’importante personalità di San Giovanni Rotondo, che ha voce in capitolo, per capire il motivo di quel mosaico e mi sono sentito rispondere proprio questo: “ma è un’immagine che vuole ricordare le tante conversioni di comunisti avvenute tramite padre Pio, come quella di Italia Betti”.
Sì, ho obiettato, ma in quel mosaico “l’Unità” non giace a terra, come segno di un passato ripudiato e di una conversione, ma sta fra le mani della persona che viene benedetta dal Padre, come una militanza mai abbandonata e legittimata.
Inoltre sotto il mosaico c’è questa incredibile didascalia: “Padre Pio benedice le donne e gli uomini di cultura. Il padre spirituale sa accogliere senza pregiudizi tutti quelli che a lui si rivolgono”.
Non si parla di “conversione”. Anzi, si attribuisce al Padre una “mancanza di pregiudizi” per dare ad intendere che a lui il credo marxista e la militanza comunista non facevano alcun problema.
Il mio interlocutore è parso sorpreso e ha detto che quella didascalia andrà corretta. Non so se sarà corretta, ma di certo non è un incidente. Riflette tutta una mentalità che è esattamente agli antipodi di quella di padre Pio.

Una mentalità per cui è proibito usare sia la parola “comunismo” che la parola “conversione”. Sostituiti da “dialogo” e “senza pregiudizi”.
Lo dimostrano due mosaici lì vicino. Nel primo, a fianco di quello descritto, si vede padre Pio che in bilocazione va a trovare il cardinale Mindszenty carcerato. La didascalia recita: “San Pio porta il pane e il vino al cardinal Mindszenty prigioniero”.
Prigioniero di chi? Dell’anonima sequestri? No. Il primate fu incarcerato dal regime comunista ungherese, ma ovviamente lì non c’è scritto. E ben pochi pellegrini lo ricordano.
L’altro mosaico è il quadro della vita di san Francesco che vorrebbe essere il corrispettivo dell’immagine di padre Pio con la militante comunista: Francesco che durante la crociata va dal Sultano per convertirlo alla fede cristiana.
Convertire non è un verbo “politically correct”. Che san Francesco e padre Pio vivessero letteralmente per salvare anime, quindi per annunciare Cristo a tutti (compresi musulmani, comunisti o massoni) e quindi per convertire tutti a Gesù Cristo, nella mentalità clericale corrente (espressa da Rupnik) sembra assolutamente un tabù. Indicibile.
Infatti nel sito internet del Centro Aletti, di cui è direttore proprio il pittore Rupnik, nella riproduzione dei suoi mosaici, sopra l’immagine di Francesco dal Sultano, si legge questa considerazione: “San Francesco, da uomo libero, non agisce secondo i pregiudizi e affascina persino il sultano con la sua predicazione. E, come dice san Bonaventura, è tornato in Italia triste non perché non abbia convertito il sultano, ma perché questi lo ha persino difeso e Francesco non è potuto diventare martire”.
Dove san Bonaventura lo abbia scritto non è dato sapere. In realtà nella “Legenda Maior” di Bonaventura, al capitolo IX, dove si racconta l’episodio, si legge che Francesco chiede al Sultano “con il tuo popolo di convertirti a Cristo” e di “abbandonare la legge di Maometto per la fede di Cristo”.
E’ lì per questo e lo ripete al Sultano, pronto a subirne ogni conseguenza. San Francesco, come padre Pio, non era “politically correct”.
E’ noto che a Maglie c’è la discussa statua di Aldo Moro con l’Unità sotto il braccio. Ma che in una chiesa, nel sepolcro di un santo, si rappresenti padre Pio che benedice la militante con l’Unità in mano è decisamente troppo.

Antonio Socci
Da “Libero”, 11 settembre 2011 da:www.antoniosocci.com/

Postato da: giacabi a 18:30 | link | commenti
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domenica, 04 settembre 2011

Stanno estromettendo Gesù dalle chiese
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3 settembre 2011 / In News
Un giorno, conversando con amici, Ratzinger (ancora cardinale) se ne uscì con una battuta: “Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica”.
Se ne sentono infatti di tutti i colori. Non c’è solo il prete che – è notizia di ieri – in una basilica della Brianza diffonde una preghiera islamica in cui si inneggia ad Allah.
Ci sono quelli che consigliano la lettura di Mancuso o Augias… E si trovano “installazioni” di arte contemporanea nelle cattedrali che fanno accapponare la pelle.
D’altra parte pure i cardinali di Milano hanno dato sfogo alla “creatività”.
Leggo dal sito di Sandro Magister: “Nel 2005, l’11 maggio, per introdurre un ciclo dedicato al libro di Giobbe è stato chiamato a parlare in Duomo il professor Massimo Cacciari: oltre che sindaco di Venezia, filosofo ‘non credente’ come altri che in anni precedenti avevano preso parte a incontri promossi dal cardinale Martini col titolo, appunto, di ‘Cattedra dei non credenti’. Cacciari ha tessuto l’elogio del vivere senza fede e senza certezze”.
Insomma nelle chiese si può trovare di tutto. Tranne la centralità di Gesù Cristo.
Infatti – nella disattenzione generale – i vescovi italiani hanno estromesso dalle chiese (o almeno vistosamente allontanato dall’altare centrale e accantonato in qualche angolo) proprio Colui che ne sarebbe il legittimo “proprietario”, cioè il Figlio di Dio, presente nel Santissimo Sacramento.
Non sembri una banale battuta. Al Congresso eucaristico nazionale che si sta aprendo ad Ancona dovrebbero considerare gli effetti devastanti prodotti dall’incredibile documento della Commissione Episcopale per la liturgia del 1996 che è il vademecum in base al quale sono state progettate le nuove chiese italiane e i relativi tabernacoli, o sono state “ripensate” le chiese più antiche.
Non si capisce quale sia lo statuto teologico di cui gode una Commissione della Cei (a mio avviso nessuno). Ma la cosa singolare è questa: che nell’ambiente ecclesiastico – a partire da seminari e facoltà teologiche – trovi legioni di teologi pronti (senza alcuna ragione seria) a mettere in discussione i Vangeli (nella loro attendibilità storica) e le parole del Papa, ma se si tratta di testi partoriti dalle loro sapienti meningi, e firmati da qualche commissione episcopale, ti dicono che quelli devono essere considerati sacri e intoccabili.
Dunque in quel testo del 1996, fra le altre cose discutibili, si “consiglia vivamente” di collocare il tabernacolo non solo lontano dall’altare su cui si celebra, ma pure dalla cosiddetta area presbiterale. Relegandolo “in un luogo a parte”.
Le motivazioni – come sempre – sono apparentemente “devote”. Si dice infatti che il tabernacolo potrebbe distrarre dalla celebrazione eucaristica.
Motivazione ridicola e – nella sua enfasi sull’evento celebrativo a discapito della presenza nel tabernacolo – anche pericolosamente somigliante alle tesi di Lutero.
L’effetto inaudito di queste norme è il seguente: nelle chiese si assiste da qualche anno a un accantonamento progressivo del tabernacolo, cioè del luogo più importante della chiesa, quello in cui è presente il Signore.
Prima lo si è collocato in un posto defilato (una colonna o un altare laterale), quindi in una cappella, parzialmente visibile. Alla fine probabilmente sarà del tutto estromesso dalle chiese.
Come risulta essere nell’incredibile edificio di San Giovanni Rotondo in cui è stato portato il corpo di san Pio.
L’edificio, progettato da Renzo Piano, non ha inginocchiatoi e la figura centrale e incombente è l’enorme e spaventoso drago rosso dell’apocalisse rappresentato trionfante nell’immensa vetrata: ebbene il tabernacolo lì non c’è.
Non so a chi sia venuto in mente questo progressivo occultamento dei tabernacoli nelle chiese (che avrebbe fatto inorridire padre Pio). Esso non corrisponde affatto all’insegnamento del Concilio Vaticano II, visto che l’istruzione post-conciliare “Inter Oecumenici” del 1964 affermava che il luogo ordinario del tabernacolo deve essere l’altare maggiore.
E non piace nemmeno al Papa come si vede nell’Esortazione post sinodale “Sacramentum Caritatis” dove egli sottolinea il legame strettissimo che deve esserci fra celebrazione eucaristica e adorazione.
Sottolineatura emersa dall’XI Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2005 che ha richiesto la centralità ed eminenza del tabernacolo.
Basterà per tornare sulla retta via? Nient’affatto. Come dimostra il comportamento – a volte di aperta contestazione al Papa – tenuto da certi vescovi quando il suo famoso “Motu proprio” ha restaurato la libertà di celebrare anche con l’antico messale.
Purtroppo le idee sbagliate dei liturgisti “creativi” continueranno a prevalere sul papa, sul Concilio e sul Sinodo (forse faranno strada anche altre balordaggini come la “prima comunione” a 13 anni). Fa da corollario a questa estromissione di Gesù eucaristico dalle chiese, la stupefacente pratica del biglietto di ingresso istituito perfino per alcune Cattedrali. Degradate così a musei. 
La protestantizzazione o la museizzazione delle chiese è un fenomeno dagli effetti spaventosi per la Chiesa Cattolica. Si dovrebbero prendere subito provvedimenti.
Per capire cosa era – e cosa dovrebbe essere – una chiesa cattolica voglio ricordare la storia di due persone significative.
La prima è Edith Stein, una donna straordinaria, filosofa agnostica, di famiglia ebrea, che divenne cattolica, si fece suora carmelitana ed è morta nel lager nazista di Auschwitz.
E’ stata proclamata santa da Giovanni Paolo II nel 1998 e nell’anno successivo compatrona d’Europa.
La Stein ha raccontato che un primo episodio che la portò verso la conversione accadde nel 1917 quando lei, giovinetta, vide una popolana, con la cesta della spesa, entrare nel Duomo di Francoforte e fermarsi per una preghiera:
“Ciò fu per me qualcosa di completamente nuovo. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti, che ho frequentato, i credenti si recano alle funzioni. Qui però entrò una persona nella chiesa deserta, come se si recasse ad un intimo colloquio. Non ho mai potuto dimenticare l’accaduto”.
Lì infatti c’era Gesù eucaristico.
Un altro caso riguarda il famoso intellettuale francese André Frossard. Era il figlio del segretario del Partito comunista francese.
Era ateo, aveva vent’anni e quel giorno aveva un appuntamento con una ragazza. L’amico con cui stava camminando, essendo cattolico, gli chiese di aspettarlo qualche istante mentre entrava in una chiesa.
Dopo alcuni minuti Frossard decise di andare a chiamarlo perché aveva fretta di incontrare “la nuova fiamma”. Lo scrittore sottolinea che lui non aveva proprio nessuno dei tormenti religiosi che hanno tanti altri.
Per loro, giovani comunisti, la religione era un vecchio rottame della storia e Dio un problema “risolto in senso negativo da due o tre secoli”.
Eppure quando entrò in quella chiesa era in corso un’adorazione eucaristica e, racconta, “è allora che è accaduto l’imprevedibile”.
Dice:
“il ragazzo che ero allora non ha dimenticato lo stupore che si impadronì di lui quando, dal fondo di quella cappella, priva di particolare bellezza, vide sorgere all’improvviso davanti a sé un mondo, un altro mondo di splendore insopportabile, di densità pazzesca, la cui luce rivelava e nascondeva a un tempo la presenza di Dio, di quel Dio, di cui, un istante prima, avrebbe giurato che mai era esistito se non nell’immaginazione degli uomini; nello stesso tempo era sommerso da un’onda, da cui dilagavano insieme gioia e dolcezza, un flutto la cui potenza spezzava il cuore e di cui mai ha perso il ricordo”.
La sua vita ne fu capovolta. “Insisto. Fu un’esperienza oggettiva, fu quasi un esperimento di fisica”, ha scritto. Frossard è diventato il più celebre giornalista cattolico. In una chiesa di oggi non avrebbe incontrato il Verbo fatto carne, ma le chiacchiere di carta.
Antonio Socci

da: lo Straniero


Postato da: giacabi a 21:24 | link | commenti (1)
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lunedì, 22 agosto 2011

Cose che nessuno sa (sui nostri figli e… su noi). Scoperte parlando con Alessandro D’Avenia a proposito di Madrid e di Rimini

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19 agosto 2011 / In News
Bianca come il latte, rossa come il sangue
  • Titolo: Bianca come il latte, rossa come il sangue
  • Autore: Alessandro D'Avenia
  • Editore: Mondadori
  • ISBN: 9788804595182
  • Pagine: 254
  • Prezzo: € 19.00
“La giovinezza è la scoperta del corpo e dello spirito… è lo stupore e il desiderio del proprio corpo e lo stupore e il desiderio della propria anima che arde di domande su di sé, sulla vita, la morte, l’amore e Dio. Ma è l’anima, lo spirito, che esplode verso l’infinito desiderio. Il corpo cerca solo, arrancando di stargli dietro”.
Mi folgora così Alessandro D’Avenia. Invece la mentalità dominante vede, esalta e amplifica solo i desideri della carne fino a renderli ossessivi, alla fine malati perché non appagano.
Perché anche il piacere più sublime, lascia alla fine insoddisfatti e soli. L’uomo è l’unica creatura sulla terra che non trovi in natura ciò che esaudisce totalmente il suo desiderio e la sua attesa.
Così bisogna vedere le immagini di quel milione di giovani che sono andati a Madrid per ascoltare il papa, a ferragosto. O quelli che la settimana prossima andranno al Meeting di Rimini.
Portati fin lì da “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, quell’amore misterioso che fa correre vertiginosamente le galassie, che fa ruotare i pianeti e fa vibrare l’infinitamente piccolo. E non ci fa star quieti.
Il desiderio arde nelle fibre più intime di questi ragazzi arrivati a Madrid esattamente come nella carne dei loro coetanei di Ibiza.
Loro, però – che magari stavano essi pure su qualche spiaggia – sono partiti per Madrid e se lo portano in quelle infuocate piazze spagnole, sotto il sole cocente, perché hanno intuito, più o meno confusamente, che ciò che infiamma la carne, che dà fame e sete anche di abbracci e di baci e di amore fisico, che sembra così forte, è solo una piccola scintilla del vero, infinito, Amore che tutti gli uomini cercano.  
Quel “Sommo Piacere” (come Dante chiama Dio) che è finalmente appagante e ristoratore.
Sono pazzi? Il dettaglio più impressionante delle cronache, per me, sono quei 40 gradi di temperatura, sommati alle altissime temperature della carne nella giovinezza.
Cosa ci dicono?
Che cercano davvero il dolce refrigerio, dell’unica sorgente inesauribile di acqua fresca: Gesù, “il più bello fra i figli degli uomini”, il cui volto hanno intravisto fra la folla.
E lo stanno cercando soprattutto perché hanno saputo che Lui sta cercando loro, ciascuno di loro, chiamando ognuno per nome.
Perché sono affascinati da questa notizia?
Alessandro D’Avenia, autore di un romanzo bellissimo, “Bianca come il latte, rossa come il sangue” (Mondadori), che è il vero caso editoriale di questi anni, ama appunto raccontare gli adolescenti, i quali saranno al centro pure del suo prossimo romanzo, “Cose che nessuno sa”, in uscita a novembre: “quella è l’età nella quale le cose sono nude, senza sfumature. Dunque è una straordinaria lente di ingrandimento di ciò che veramente interessa a uomini e donne: la scoperta di sé come corpo e come anima”.
Aggiunge: “ogni stagione della vita è un po’ come la nascita: in ogni stagione veniamo un po’ alla luce e ci facciamo un pianto. Ma mentre il primo pianto, quello della nascita, passa con l’abbraccio della madre, quando si diventa adolescenti si viene alla luce con un dolore ancor più vivo a lenire e confortare il quale non bastano più la mamma e il babbo”.
E dunque?
“Allora sei costretto a toccare con mano la tua solitudine, quindi scopri la bruciante necessità dell’altro, dell’amicizia, dell’amore”.
Anche nella ricerca del corpo dell’altro, che è una scoperta che incanta, si cerca quell’abbraccio che fa sentire “a casa”, che fa ritrovare se stessi.
Ma paradossalmente si trova in realtà un altro “io” che anche lui, brancolando nel buio, cerca di lenire il suo dolore e cerca la sua anima e così è una miscela esplosiva, perché può essere una grande avventura di verità, ma pure un’esperienza che provoca nuove ferite.
O spesso tutte e due le cose insieme.
D’Avenia però sottolinea il positivo: che in questa stagione della vita c’è la verità di noi, siamo allo stato creaturale, nudi, col nostro splendore e la nostra povertà.
“Mi ha colpito” dice “un pensiero di Benedetto XVI che ha detto: la giovinezza è l’età in cui capire cosa mantenere quando la giovinezza finisce. E’ così, perché poi l’abitudine dissecca l’anima e si perde quell’antica freschezza”.
A D’Avenia – che pur essendo un professore e uno scrittore è molto giovane (ha solo 34 anni) e che ha partecipato a due “Giornate mondiali della gioventù” – domando perché i media fanno così fatica a raccontare un evento come quello che porta un milione di giovani a Madrid a ferragosto.
“Perché dall’esterno vedi solo un movimento di masse giovanili simile a quello dei concerti rock. Però dovrebbero almeno cogliere la diversità. Perché qui i ragazzi sono sorridenti e quieti?”
E’ vero, non hanno bisogno di urlare o sballarsi, non lasciano sporcizia e non spaccano, non cercano di lenire il dolore della vita affogandosi nel gruppo.
“Perché qui non si tratta di consumare un’emozione e stop. C’è qualcosa che sfugge al colpo d’occhio”.
Forse perché è una domanda che si agita nella singolarità, unica e irripetibile, di ogni cuore?
“Sì. Perché è un evento di massa, ma è tutto e solo personale. Pur fra un milione di coetanei ti sembra che Qualcuno ti stia dando del ‘tu’ e questo non accade con il cantante rock che urla sul palco. Qui, allo stesso tempo, siamo insieme, ma anche in un solitario faccia  a faccia col Mistero”.
La mia sensazione è che sia proprio questa sincerità, questa nudità personale di fronte alla vita, alla morte, all’amore e a Dio, il materiale altamente infiammabile che i media non sono capaci di trattare.
Li imbarazza. Non sono attrezzati. Fuggono spaventati.
Perciò, come scriveva Rilke: “Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ forse un po’ come si tace/ una speranza ineffabile”.
Dio e la propria infelicità personale sono l’unico argomento di fronte al quale l’intellettuale medio si ritrae scandalizzato come le signorine perbene facevano una volta se si parlava di sesso.
Forse è per questo che anche il successo del romanzo di D’Avenia  – che ha colpito tanti giovani – è stato accolto da un certo imbarazzo dei media e dei salotti letterari. Omaggi frettolosi alla qualità della scrittura, ma poi via a gambe levate a chiacchierare dei soliti romanzetti conformisti su questi nostri anni tristi.
 D’Avenia mi spiega: “alcune persone, addetti ai lavori, molto attenti, mi hanno detto: lei ha scritto un romanzo trasgressivo. Ah, bene, ho detto. E perché? Mi hanno risposto: il libro parla di un professore che ama il suo lavoro, di dolore e di Dio. E’ vero, ho pensato, la vita ordinaria è diventata la vera trasgressione”.
Io ho sentito parlare molto di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”. L’ho letto però quando mi è stato consigliato da mio figlio di 14 anni che mi ha detto: “leggilo. Mi ha cambiato la vita!”. E mi ha stupito che tutti i suoi amici lo avessero letto e ne fossero rimasti affascinati. Questi sono fenomeni importanti.
“Anche a me” dice D’Avenia “colpiscono molto le lettere che ricevo dai ragazzi ed è bellissimo incontrarli quando mi invitano a parlare del libro nelle scuole”.
Perché?
“Sono straordinari. Loro si sentono autorizzati ad andare subito al cuore del problema e non si vergognano di chiedermi durante queste assemblee: ‘che rapporti hai con Dio?’, ‘perché mia mamma si è ammalata di tumore?’, ‘perché mio fratello si droga?’. Loro hanno il coraggio di tirar fuori questo. E tantissimi ragazzi dicono di volere un amore grande come quello di Leo per Beatrice (i due protagonisti del romanzo, nda)”.
Malgrado la rappresentazione mediatica della realtà che invita i giovani a prendere, consumare e buttare l’amore come una lattina di Coca Cola?
“Malgrado questo quell’amore che è ‘per sempre’ lo desiderano tutti, è ciò che il cuore di tutti brama”.
E siccome si ha paura di guardare dentro il proprio cuore si evita di fare i conti con chi ti parla di te, fino al punto di protestare  – come fanno gli “indignados”  in Spagna – contro i giovani venuti dal Papa.
Con tutti i problemi che ha provocato Zapatero, vanno a protestare contro la giovinezza. L’ideologia è capace pure di scioperare contro la primavera.
  Antonio Socci
 da :www.antoniosocci.com Da “Libero”, 20 agosto 2011

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socci, davenia alessandro

domenica, 10 luglio 2011

SUDAN,
GLORIA DI UNA CHIESA CROCIFISSA
E MISERIE DELL’IDEOLOGIA
***

9 luglio 2011 / In News
Da oggi il sud del Sudan è finalmente uno stato libero e indipendente (se non verrà strozzato nella culla).
Lì è stato perpetrato l’ultimo genocidio del Novecento, ma un genocidio ignorato dai media e dal “partito umanitario” nostrano. Forse perché le vittime non erano “politically correct”, trattandosi di neri cristiani e animisti.
Autore di quell’orrore è stato il regime arabo- musulmano del nord che ospitò negli anni novanta anche Osama bin Laden  e che, da qualche anno, è in combutta con la Cina comunista interessata al petrolio sudanese.
I media si sono occupati del Sudan solo di recente, quando è scoppiata l’emergenza Darfur, che derivava da un conflitto non religioso (erano tutti musulmani).
Invece per la Jihad – la guerra santa islamica – che per decenni ha sterminato il Sud cristiano e animista non hanno avuto tempo.
Eppure le cifre sono terrificanti: due milioni di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel Nord islamico del Paese.  
Il regime di Karthoum ha fatto del Sudan – che sarebbe ricchissimo di petrolio e altre risorse – uno dei paesi più poveri della terra (è al 150° posto su 182), un paese dove si vive ancora in capanne di fango, seminudi e si muore come mosche per fame e malaria. Per questo molti fuggono, cercando di arrivare all’Italia e in Europa.
Siccome scrivo e parlo del genocidio sudanese da quindici anni, su giornali e in tv (prendendomi anche qualche insulto), permettetemi di togliermi un po’ di sassolini dalle scarpe.
Perché il “caso Sudan” è un’occasione preziosa per riflettere sulla famosa coscienza “umanitaria” a intermittenza che caratterizza questa sinistra che ci è toccata in sorte e i nostri media che in gran parte vengono culturalmente da lì.
Piazze urlanti
C’era una volta il Vietnam. Ricordate? E’ stato il mito fondativo della sinistra sessantottina la quale poi ha riempito giornali e tv continuando l’intossicazione ideologica con altre armi.
Quella del Vietnam è stata la madre di tutte le cause umanitarie della sinistra e conteneva tutte le sue contraddizioni e le sue ipocrisie.
Per anni manifestazioni, cortei, assemblee, articolesse, indignazione a senso unico.
Uno dei famosi inviati, Giorgio Bocca, anni dopo, confessò: “feci dei servizi che piacquero alla sinistra italiana: in parte perché raccontavo la verità sulla formidabile guerriglia vietnamita, in parte perché mi autocensuravo”.
Poi spiega: “la mitizzazione della rivolta vietnamita e la demonizzazione degli americani erano giunte a un tale livello che non era possibile raccontare una verità che avesse però il marchio di informazione Usa”.
Non c’era posto per la verità. E questa era la stampa libera e indipendente.
Finalmente i comunisti del Nord conquistarono il Sud Vietnam e iniziarono dittatura e massacri: di colpo nessuno degli indignati più si curò del Vietnam e di quello che stava capitando ai vietnamiti “liberati” dai comunisti di Ho Chi Min.
Migliaia di quei poveri vietnamiti – a cui avevamo imposto di subire la conquista comunista – fuggirono dal “paradiso marxista” su barche di fortuna. Molti annegarono, altri furono divorati dagli squali. Alcuni furono soccorsi. E cosa dicevano i compagni italiani di quei “boat people”?
Rossi di vergogna
Posso testimoniarlo in prima persona. A quel tempo frequentavo il liceo a Siena.
Collaboravo con la Caritas per organizzare l’ospitalità in Italia per quei profughi che riuscirono ad arrivare vivi e ricordo bene che distribuendo i volantini in piazza a Siena ci prendevamo gli insulti dei compagni che chiamavano quei profughi “fascisti e reazionari”.
Essendo in fuga dal comunismo, agli occhi loro quei profughi non erano da considerare come oggi consideriamo quelli che arrivano con i barconi a Lampedusa.
Questa era la coscienza umanitaria della sinistra. Che in questi mesi, peraltro, vede i profughi e ne reclama l’accoglienza, ma non vede le cause della loro fuga: per esempio quell’orrida guerra contro la Libia tanto voluta dal compagno-presidente Napolitano.
Anche in questo caso la coscienza umanitaria e pacifista dei compagni è andata in vacanza (bombardiamo pure Tripoli, il pacifismo pensa all’abbronzatura).
Errori e orrori
Torno al Vietnam. L’altro mito gemello del ‘68 fu la Cambogia. Anche quella doveva essere “liberata” dall’okkupazione americana. “I Khmer rossi ci sembravano l’unica via d’uscita dall’incubo della guerra”, scriverà anni dopo Tiziano Terzani in un famoso articolo su “Repubblica” intitolato “Pol Pot, tu non mi piaci più”.
Questo articolo di revisione uscì nel 1985 e ormai già si sapeva tutto del genocidio di due milioni di cambogiani innocenti perpetrato dai Khmer rossi.
Quello che il “grande inviato” avrebbe dovuto fare e non fece era raccontare prima, quando era sul posto, mentre accadevano i fatti, la mostruosità sanguinaria dei guerriglieri comunisti.
Ma sebbene abbia visto, non credette a quei “massacri comunisti”. Sospettò che fossero manipolazioni della Cia. E oggi viene celebrato dal pensiero conformista come un grande giornalista testimone delle atrocità del Novecento.
Chi invece, come il missionario padre Gheddo, denunciò le stragi comuniste in Indocina mentre accadevano, negli anni Settanta, si prese del “reazionario” e “finanziato dalla Cia”. “Nessuno mi credette”, ricorda. E nessuno poi gli ha riconosciuto il coraggio della verità, né ha chiesto scusa.
Nei decenni successivi la “sinistra umanitaria” ha continuato ad alimentare le sue mitologie, sebbene più in sordina. Ma sempre con un’accurata selezione ideologica.
Contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan dei primi anni Ottanta – per esempio – non fiatarono (a quel tempo scendevano in piazza per protestare contro gli euromissili americani, risposta a quelli sovietici).
Ma contro la guerra di Bush all’Afghanistan dei talebani e di Bin Laden hanno scatenato il finimondo (ovviamente senza mai chiedere il parere delle donne afghane).
Contro la Cina che massacrava gli studenti  in piazza Tien an men nessuna manifestazione, né indignazione di massa. Così pure sull’oppressione del Tibet. Silenzio anche sui lager cinesi tuttora funzionanti.

Invece è divampata la polemica su Guantanamo e, da anni, la protesta contro Israele che sarebbe reo di opprimere i palestinesi.
Gli “umanitari” indignati infine hanno protestato per anni contro gli Stati Uniti rei di aver posto l’embargo a Cuba (ovviamente senza denunciare la schifosa dittatura comunista di Fidel Castro).
Perciò, con tutte queste “cause umanitarie” che permettevano loro di sentirsi buoni e puri, denunciando come oppressori Stati Uniti e Israele, gli umanitari progressisti di casa nostra non ebbero tempo di accorgersi del genocidio sudanese, cioè della “più lunga guerra del ‘900” (dal 1956 al 2005) nel paese più grande dell’Africa.
Erano tutti distratti e così in Italia nessuno sa qualcosa di quel genocidio che è stato definito dall’africanista Giampaolo Calchi Novati “la più dura operazione di islamizzazione forzata del ‘900”.
Solo la voce della Chiesa
L’unica voce, inerme e martire, come al solito, è stata quella della Chiesa, una “Chiesa crocifissa”, come l’ha definita Giovanni Paolo II.
Una Chiesa che ha il volto del grande vescovo missionario monsignor Mazzolari, che “comprende in sé una capacità di denuncia del male unita a un’indomita fantasia di bene che ha costruito scuole, ospedali, missioni, chiese, dispensari, vite future di ragazzi un tempo schiavi e poi laureatisi a Oxford”, come scrive Lorenzo Fazzini nel bel libro “Un Vangelo per l’Africa”, dedicato a Mazzolari e al Sudan.
Il cristianesimo è arrivato nei regni nubiani addirittura nel VI secolo. Poi ha portato libertà e dignità umana in Sudan, nell’Ottocento, con un grande santo, padre Comboni.  
Oggi la Chiesa accompagna questo popolo alla libertà e all’indipendenza. Il cristianesimo si conferma come culla di umanità e come l’unica vera forza liberazione dei popoli. Mentre i nostri intellettuali gli riservano (oggi come ieri) parole sprezzanti…
Antonio Socci
Da “Libero”, 10 luglio 2011

Postato da: giacabi a 19:14 | link | commenti (1)
socci

domenica, 19 giugno 2011

BISOGNA USCIRE DALLA SACRESTIE.
MA COME?

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19 giugno 2011 / In News
Qui lo spiego partendo da un pensiero di Dostoevskij e da uno di S. Agostino. Per arrivare al grande cardinale Newman che afferma: “La Chiesa E’ necessariamente un partito”. Se non capiamo questo …
 
“I cattolici sono stati determinanti” nell’esito dei referendum, come dice orgogliosamente l’Azione cattolica?
O così hanno tradito la dottrina sociale della Chiesa e vanno verso il suicidio come argomenta Luigi Amicone (con il suicidio aggiuntivo dell’ethos pubblico come aggiunge Pietro De Marco)?
Alcune realtà del mondo cattolico sottolineano festosamente il “risveglio” dell’ impegno per il bene comune.
Ma un volantino di Comunione e liberazione invita saggiamente “ad essere meno ingenui sul potere salvifico della politica”.
Al tempo stesso bisogna rispondere all’appello del Papa e dei vescovi che chiamano i cattolici all’impegno politico.
Come si vede una situazione in cui è difficilissimo orientarsi e capire, tanto per i semplici cristiani che per gli addetti ai lavori.
Cosa sta succedendo nel mondo cattolico? E cosa accadrà con i nuovi scenari politici?
CHE FARE?
Si può parlare ancora di unità dei cattolici? E su cosa, come e dove? O si torna alla diaspora? C’è il rischio della subalternità culturale degli anni Settanta? C’è in vista una Dc di ricambio? O forse è meglio puntare su più partiti?
O addirittura su un movimento cattolico che lavori nella società, dove sono nati tutti i movimenti che oggi condizionano i partiti?
Negli ambienti della Cei si valorizza molto la relazione di Lorenzo Ornaghi, rettore della Cattolica, al X Forum del “Progetto culturale” dedicato ai 150 anni del’Unità d’Italia.
Ornaghi invita i cattolici a “tornare ad essere con decisione ‘guelfi’ ”, spiegando: “abbiamo sempre più bisogno di una visione politica dalle radici e dalle qualità genuinamente e coerentemente ‘cattoliche’ ”.
Quel tornare decisamente “guelfi” per Ornaghi significa che i cattolici devono rivendicare la radice cattolica dell’italianità e devono affermare che “rispetto ad altre ‘identità’ culturali che sono state protagoniste della storia unitaria (…) disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati”.
Affermazioni importanti, ma che dovrebbero essere spiegate nel dettaglio, sostanziate e anche discusse. In ogni caso affermazioni di cui ancora non si vede la conseguenza pratica, fattuale. Così le domande aumentano.
Solo che rispondere direttamente ad esse è impossibile perché – quando si parla della Chiesa – bisogna partire da altro, da una questione che sembra esterna ed è di natura teologica. Tutti la danno per scontata, ma non lo è.
Riguarda la natura stessa del fatto cristiano e la concezione della Chiesa. E’ su questo che non c’è chiarezza dentro lo stesso mondo cattolico. E da qui deriva poi la confusione sulle scelte storiche.
IL CUORE DI TUTTO
Provo a riassumere con due citazioni quella che a me pare la strada giusta. La prima è di Dostoevskij:
“Molti pensano che sia sufficiente credere nella morale di Cristo per essere cristiano. Non la morale di Cristo, né l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in ciò, che il Verbo si è fatto carne”.
Il grande scrittore russo qui coglie il punto: i cristiani non portano nel mondo anzitutto un “supplemento d’anima”, un richiamo etico, una concezione della politica o del Paese o una cultura. Queste sono conseguenze.
Portano anzitutto un fatto, un corpo misterioso, umano e divino, un popolo che è anche – di per sé – un soggetto politico che ha cambiato e cambia la storia.
A conferma vorrei richiamare una pagina memorabile di sant’Agostino rivolto ai “pelagiani”, cioè coloro che degradavano il cristianesimo a una costruzione umana, a un proprio sforzo morale:
Questo è l’orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel suo esempio, e non nel dono della sua Persona”.
Leggendo questi due grandi autori cristiani si capisce ciò che insegna la tradizione cristiana: il gesto più potente di cambiamento del mondo – per i cristiani – è la Messa.
Più potente di eserciti, poteri finanziari, stati e rivoluzioni, perché è l’irrompere di Dio fatto uomo nella storia, l’atto con cui Dio prende su di sé tutto il Male e lo sconfigge, liberando gli uomini.
Ma non capirebbe nulla di cristianesimo chi credesse che la messa sia solo quel famoso rito domenicale. No.
Per il popolo cristiano la messa, da quel 7 aprile dell’anno 30 in cui il Salvatore fu crocifisso, non è mai finita: è una sinfonia la cui ultima nota coinciderà con la trasfigurazione dell’intero universo.
Quell’evento abbraccia tutta la giornata e tutta la vita, tutta la realtà, tutta la storia e tutto il cosmo. E li cambia.
“LA CHIESA E’ UN PARTITO”
Non a caso uno dei più grandi pensatori cattolici moderni, il cardinal Newman afferma che la Chiesa stessa “è” un partito:
“Strettamente parlando, la Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito.
Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve sempre avere le caratteristiche di un partito che ha priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza ed influenza fino alla fine dei tempi.
Fin dall’inizio fu concessa stabilità non solo alla mera dottrina del Vangelo, ma alla società stessa fondata su tale dottrina; fu predetta non solo l’indistruttibilità del cristianesimo, ma anche quella dell’organismo tramite cui esso doveva essere manifestato al mondo.
Così il Corpo Ecclesiale è un mezzo divinamente stabilito per realizzare le grandi benedizioni evangeliche”.
E’ tanto vero ciò che dice Newman che la Chiesa è stata la più grande forza di cambiamento della storia: ha letteralmente costruito civiltà (tutte le “istituzioni” del mondo moderno, dagli ospedali alle università, dalla democrazia al diritto internazionale, fino al progresso scientifico-tecnologico-commerciale, sono nate nell’alveo cattolico).
Perfino quel sacro Romano Impero che ha generato l’Europa e poi partiti, dal partito guelfo del medioevo alle Democrazie cristiane del novecento (il nostro stesso Paese è stato letteralmente salvato dalla Dc che gli ha garantito libertà, unità e prosperità nell’Europa dei totalitarismi).
C’è chi ha cercato e cerca di impedire in ogni modo ai cristiani di esprimersi e costruire. Lo hanno fatto i totalitarismi moderni e le ideologie degli anni Settanta che pure in Italia pretendevano di zittire violentemente i cattolici.
Ma anche una certa cultura laica occidentale oggi prova a delegittimare la presenza dei cattolici.
Ancora Newman scriveva:
Dal momento che è diffusa l’errata opinione che i cristiani, e specialmente il clero, in quanto tale, non abbiano nessuna relazione con gli affari temporali, è opportuno cogliere ogni occasione per negare formalmente tale posizione e per domandarne prove.
E’ vero invece che la Chiesa è stata strutturata al fine specifico di occuparsi o (come direbbero i non credenti) di immischiarsi del mondo.
 I membri di essa non fanno altro che il proprio dovere quando si associano tra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, nelle corti dei re o tra le varie moltitudini.
E se essi non possono ottenere di più, possono, almeno, soffrire per la Verità e tenerne desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di perseguitarli”.
IL PROBLEMA 
La cosa peggiore però è quando il sale diventa scipito, cioè quando sono i cattolici stessi a escludersi, a rinchiudersi nelle sacrestie o ad andare a ruota delle ideologie mondane più forti.  
Dunque la Chiesa deve avere una sola preoccupazione: che (anche nei seminari e nelle facoltà teologiche) si annunci davvero il fatto cristiano nella sua verità e integralità, che nelle parrocchie, nelle associazioni, nei movimenti  lo si viva in tutte le sue dimensioni (la cultura, la carità e la missione) alla sequela del Papa.
Che non si lasci solo Radio Maria a fornire ai semplici cristiani l’aiuto per un giudizio cristiano sulla realtà. Che il popolo cristiano si veda e illumini la vita pubblica.
Antonio Socci
Da “Libero”, 19 giugno 2011

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sabato, 21 maggio 2011

Il cielo in una stanza (con sbarre)
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19 maggio 2011 / In News
Un albero che cade – com’è noto – fa più rumore di una foresta che cresce. I telegiornali sono pieni di alberi che cadono: lotte di potere, una serie infinita di omicidi, gli scandali sessuali, le guerre.
Ne viene fuori ogni giorno una rappresentazione mostruosa della realtà.
Una desertificazione umana dove sembra non ci sia più speranza. I media sono una fabbrica gigante di angoscia.
Eppure c’è anche altro. C’è molto altro. C’è l’eroismo quotidiano della gente semplice, di tantissimi padri e di madri, c’è la grandezza di persone che portano amore e speranza, ci sono vite che cambiano e che – magari dall’abisso – ritrovano significato e verità, uomini che rinascono, il Male che batte in ritirata.
E’ la storia di Bledar, un albanese di 37 anni, detenuto nel carcere “Due Palazzi” di Padova dove sta scontando addirittura l’ergastolo.
Con una tale gravame sulle spalle – “fine pena mai” – questo giovane uomo deve avere un passato molto cupo, segnato da tragici errori e – secondo il giudizio umano – dovrebbe essere disperato e incattivito.
Invece ha incontrato la salvezza in carcere ed è rinato. Un uomo nuovo che da sabato scorso si chiama Giovanni, come il discepolo a cui Gesù voleva più bene.
Infatti Bledar-Giovanni, che viene dal Paese dove il comunista Hoxa aveva imposto l’ateismo di stato obbligatorio, cancellando Dio con la tirannia più cupa e sanguinaria d’Europa, ha scoperto Gesù e il cristianesimo, ha chiesto il battesimo e – dopo un percorso di catecumenato – sabato scorso, 14 maggio, nella commozione generale, ha ricevuto dal vescovo di Padova il battesimo e i sacramenti della Comunione e della Cresima.
Ora Giovanni è un altro uomo, destinato a un futuro (e già anche un presente) divinoinfatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” (S. Atanasio).
Entrare a far parte della Chiesa non è una questione associativa come prendere la tessera di un club o di un partito, ma è un cambiamento ontologico, cambia cioè la natura stessa dell’uomo che viene liberato dalla signoria di satana e diventa “figlio di Dio”, parte del Corpo vivo di Cristo. Ogni battezzato in quanto “figlio” acquista i titoli di “re, sacerdote e profeta”.
I sacramenti agiscono in profondità (come mostrano i bellissimi romanzi di Graham Greene) e sono la più grande potenza attiva nella storia, perché sono il segno fisico della potenza invincibile di Cristo.
Cambiando il cuore umano cambiano la storia. Infatti la vicenda di Bledar-Giovanni non è affatto isolata. I casi simili sono ormai tantissimi.
Ieri “Avvenire”, dandone notizia, riferiva che il giovane albanese aveva come padrino di battesimo un italiano, Franco, che anch’esso sta scontando in carcere l’ergastolo.
Inoltre quella cronaca dell’evento ci dice che altri due detenuti, Umberto e Ludovico, hanno ricevuto i sacramenti della Cresima e della Prima Comunione.
“Avvenire” accenna anche alla storia del ventottenne cinese Wu, che ha scontato sempre al carcere di Padova una pena per omicidio e ora – tornato in libertà – ha chiesto il battesimo, l’ha ricevuto nella notte di Pasqua prendendo il nome di Andrea e – durante la recente visita del Papa a Venezia – con immensa emozione ha ricevuto la Comunione dalle sue mani.
“Non si può descrivere la gioia di questo momento” ha detto Bledar-Giovanni. “Per me Gesù è amore, è tutto. E grazie a quanti mi hanno accompagnato, una grande famiglia”.
E’ straordinario vedere che l’amicizia di Gesù può portare la felicità perfino nella vita di un giovane che è chiuso in una galera e che – presumibilmente – dovrà consumare il meglio della sua esistenza fra quelle quattro mura, dietro le sbarre.
E’ questo il cielo in una stanza.
La madre di Giovanni, venuta dall’Albania per il battesimo del figlio, con i lucciconi agli occhi, ha ringraziato per la festa e ha detto: “sono felice che mio figlio, dopo tante brutte avventure, abbia potuto incontrare Dio”.
Infatti sono vite che erano perdute e che il Buon Pastore è andato a cercare  e che si è caricato sulle spalle, sono esistenze che il mondo giudicava maledette e che Dio ha benedetto e fatto rifiorire.
Dietrich Bonhoeffer, un grande cristiano ucciso in un lager nazista, scriveva:
Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro, sceglie una creatura umana come suo strumento e compie meraviglie lì dove uno meno se le aspetta.
Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono ‘perduto’, lì Egli dice ‘salvato’; dove gli uomini dicono ‘no!’, lì Egli dice ‘sì’! Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì Egli posa il Suo sguardo pieno di un amore ardente e incomparabile. (…).
Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, lì Egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il Suo approssimarsi, affinché comprendiamo il  miracolo del Suo amore, della Sua vicinanza e della Sua Grazia”.
Nulla è di ostacolo per lui: non certo i peccati e nemmeno i crimini.
Solo l’orgoglio dell’intellettuale, la strafottenza del peccatore impenitente e la presunzione ipocrita del moralista gli legano le mani.
Al contrario i peccati, le cadute umilianti, la vergogna rendono più appassionata la sua Misericordia. Così accade che le ferite della vita siano spesso le feritoie attraverso le quali lui raggiunge il cuore e resuscita una creatura.
La tradizione cristiana ha sempre saputo che “dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia”. Perché così Dio mostra che nulla a lui è impossibile.
E mostra che gli uomini si salvano per la sua misericordia paterna e non per la loro presunzione. Si salvano attraverso la propria debolezza e non per la loro forza. Anzi, sono le loro presunte capacità a fregarli.
E’ la loro presunta giustizia. Un altro grande convertito, Charles Péguy, diceva che nulla rende impermeabili alla grazia come “la morale”, o meglio la pretesa moralità di coloro che si sentono “perbene” e che – come gli scribi e i farisei – giudicano e condannano gli altri.
A costoro Gesù diceva: “i peccatori e le prostitute vi stanno passando avanti nel Regno dei Cieli”.
Quelli che si ritengono giusti o quelli che si rotolano soddisfatti nel loro peccato, pretendono di autoassolversi e di non aver bisogno della misericordia di Dio, si perdono.
Non hanno ferite della vita e non hanno peccati (o meglio li hanno, ma ben nascosti o non confessati, non brucianti) e così Dio non può raggiungerli nel loro intimo pianto, nel grido del loro cuore.
Vedendo la storia di questi carcerati si resta impressionati dalla facilità con cui Dio salva i cuori umili (perché umiliati).
E così un ergastolano albanese può dire di aver trovato quel Dio e quella felicità che tanti intellettuali pieni di sé e intristiti dicono di cercare e non trovare.
Perché non lui ha trovato la Verità, ma è stato trovato dalla Verità fatta carne. E ben volentieri lui si è lasciato trovare, confortare e abbracciare. Iniziando una vita nuova.
Antonio Socci
Da “Libero”,  19 maggio 2011

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socci

lunedì, 25 aprile 2011

La forza di Gesù (la vita, la morte, quei 7 mila ragazzi e Caterina)

23 aprile 2011 / In News
***
Tutti nel mondo, in questi mesi, vedono tumulti, catastrofi e caos. Analisti e media brancolano nel buio. Tutto dà segno di disfacimento. Un invisibile tsunami ci sta travolgendo.
Eppure io conosco i segni di una primavera nascosta. Ma bisogna volgere lo sguardo altrove. Bisogna accorgersi di qualcosa che sta accadendo nel silenzio, lontano dai riflettori.
Come quando stava crollando l’impero romano e sembrava vi fossero solo le rovine e le orde barbariche e i lupi che infestavano ogni luogo: invece qualcuno silenziosamente stava piantando il seme di una nuova civiltà e della città di Dio.
Dunque non guardate dove guardano tutti i media, cioè verso le rovine, perché la novità e la speranza non vengono dalla politica, dall’economia, dagli stati, dagli intellettuali, dagli eserciti o dalle sedicenti rivoluzioni.
La novità vera sembra fragile e silenziosa come le gemme che spuntano a rinnovare la vita di un bosco.
Dice Péguy che quando vedi una gemma ti sembra una cosa tanto piccola e fragile che sembra insignificante confrontata alla grande foresta.
Eppure senza quella gemma tutta quella foresta secca non sarebbe che legna da ardere, non sarebbe che un cimitero. Non avrebbe alcuna speranza.  
E dunque oggi voglio raccontarvi come spunta una gemma nella foresta morta. Una gemma che sfida lo tsunami del tempo, del dolore e della morte.
Un fatto strano
Immaginate 7 mila giovani fra i 19 e i 15 anni. E pensateli a Rimini, sulla riva del mare. Di sicuro vi viene in mente un gran baccano.
Invece questa immensa folla di giovani sulla sponda dell’infinito era in un silenzio assoluto e commosso, che lasciava sentire la brezza e il rumore delle onde.
E’ accaduto venerdì scorso, venerdì santo, dalle ore 13 alle 18. Settemila giovani dietro a una croce. Anzi dietro al “più bello fra i figli dell’uomo”, dietro all’Inimmaginabile, dietro all’unico uomo veramente affascinante della storia.
L’unico re, umile e veramente potente. L’unico amico fedele, l’unico che ha pietà di noi uomini.
Non crediate che si tratti di extraterrestri. Sono i nostri figli. Frequentano licei e istituti tecnici. Sono normalissimi ragazzi italiani dell’anno di grazia 2011.
Volti normali, abbigliamento tipico della loro generazione, chi col piercing, chi con la coda di cavallo, chi col bordo delle mutande che spunta sotto i jeans.
Non sono ragazzi che non fanno peccati, anzi sono qui proprio perché – come tutti gli altri – li fanno: sono venuti per questo, perché sentono il bisogno dell’abbraccio di un Padre buono, che perdona, di un Amico grande, che non tradisce mai e che medica le loro ferite.
Non sono qui perché non s’innamorano: ma, al contrario, sono qui proprio perché s’innamorano e vogliono capire chi e cosa mai potrà colmare questa loro sete d’amore che è più grande del mare, più immensa, più misteriosa e profonda dei suoi fondali.
Il loro raduno – organizzato da Gioventù studentesca (CL) – era cominciato il giovedì santo, alla fiera di Rimini, proprio con le immagini dello tsunami in Giappone avvolte da una musica che struggeva il cuore.
Don Eugenio Nembrini ha suggellato quelle immagini con una domanda che mette ognuno con le spalle al muro: “che cosa sta in piedi nella vita?”.
Tutto infatti è spazzato via dal tempo e dalla morte. Tutto. Anche il potere più formidabile è ridotto in polvere e non resta nulla.
E così sembra che non valga la pena vivere o pare che si possa vivere solo cinicamente.
Ma invece don Julian Carron ha esortato questi settemila giovani a non rassegnarsi: “sentire urgere dentro di sé le esigenze di felicità, di bellezza, di giustizia, di amore, di verità, sentirle vibrare, ribollire in ogni fibra del nostro essere” e “prenderle sul serio è ‘la’ decisione più grande della vita”.
E’ l’avventura degli audaci: “per gente viva, libera, capace di volersi veramente bene. Per gente che vuol vivere all’altezza dell’ideale a cui il cuore spinge senza sosta”.
Ma cosa può restare in piedi e resistere alla distruzione del tempo, del dolore, del male e della morte?
Il motto degli antichi monaci certosini diceva: “Stat Crux dum volvitur orbis”. Che vuol dire: solo l’uomo della Croce rimane invincibile, mentre tutto nel mondo passa e tutto crolla.
Resta solo il potere dell’Amore, di “Colui che ha preso sulle sue spalle la croce di ognuno di noi, Colui che ha portato tutte le croci del mondo”, come ha detto don Eugenio.
“Lascieretelo voi?”
L’immensa via crucis dei giovani sfilava in silenzio dietro la croce fra gli alberi del parco Marecchia a Rimini, verso il ponte di Tiberio, fra le note sublimi dello “Stabat mater” di Pergolesi, poi dell’antico canto polifonico “O cor soave/ cor del mio Signore…”.
Un passante, in bicicletta, si è fermato sbalordito e ha chiesto: “ma chi siete? Cosa state facendo?”.
Un ragazzo del “servizio d’ordine” gli ha risposto: “siamo studenti, è venerdì santo: stiamo facendo la Via crucis”. Quell’uomo, commosso, si è messo in ginocchio e ha mormorato: “Dio sia benedetto!”.
Intanto quella fiumana di giovinezza si era fermata a una nuova stazione. Per il lungo cammino qualcuno in fondo si distrae e parlotta.
Ma quando viene letto il vangelo della crocifissione e alla fine don Eugenio dice: “Cristo ha dato la vita per noi e muore per noi”, tutti tacciono di colpo e come un’onda silenziosa si inginocchiano commossi.
Proprio tutti i settemila giovani: sono stati cinque minuti infiniti di silenzio che hanno abbracciato il loro cuore e il mondo, tutti i destini e tutto il tempo, da Adamo al Giudizio universale.
Poi il coro, un meraviglioso coro di ragazzi, ha intonato una laude cinquecentesca a quattro voci che lacera l’anima: “Cristo al morir tendea”.
L’intreccio fantastico delle voci ripete le parole che secondo l’autore Maria ha rivolto agli amici di Gesù: “Or, se per trarvi al ciel dà l’alma e ‘l core,/ Lascieretelo voi per altro amore?”.
Prosegue così: “ben sa, ben sa che fuggirete/ di gran timore e al fin vi nascondrete/ Ed ei pur come Agnel che tace e muore/ svenerassi per voi d’immenso amore”.
Quel canto si conclude con questa strofa: “Dunque diletti miei/ se a dura croce, in man d’iniqui e rei/ dà per salvarvi ‘l sangue e l’alma e ‘l core/ Lascieretelo voi per altro amore?”.
E’ un canto a cui sono personalmente affezionato anche perché è uno dei prediletti della mia Caterina.
Caterina è cresciuta in questa stupenda compagnia che fa ardere i cuori dei giovani per la Bellezza e la Verità. E’ stata educata da gesti così.
Una mano potente
E quando uno tsunami violentissimo ha investito la sua giovane vita e tutti pensavano e dicevano che ormai non c’era più niente da fare, che Caterina non c’era più, una mano potente l’ha afferrata, quella del Re umile che tante volte lei aveva cantato, e la sua mano benedetta e invincibile l’ha fatta riemergere dall’oceano oscuro del coma. Anzitutto attraverso la voce e i volti di chi l’ama perdutamente.
Ora Caterina sta nuotando verso riva: è una traversata defatigante e durissima, ma una grande catena umana la sostiene: quella compagnia che è il volto e la carezza del Nazareno nel mondo.
Dalla sua faticosa croce Caterina partecipa alla salvezza del mondo. “La Bellezza salverà il mondo”, annunciava Dostoevskij, e lei è parte di questa Bellezza.
Diversi di quei ragazzi presenti a Rimini nei mesi scorsi mi avevano scritto, colpiti e commossi dalla storia di Caterina e dal suo sorriso, dal suo canto, dai suoi amici e dall’amore del suo ragazzo che è più forte della morte e dello tsunami.
Per molti di loro Caterina è diventata una sorta di eroina, ben più ammirabile dei miti e dei mitomani imposti dai media, dalla politica, dai giornali.
Ma la forza di Caterina è la stessa che ha portato loro lì a Rimini, che fa fiorire la primavera, che dà senso alla vita, che ha ispirato a Michelangelo la Pietà, che commuove i cuori e muove le galassie. La forza di Colui che ha vinto il mondo e ha vinto la morte.
Antonio Socci
Da “Libero”, 24 aprile 2011

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socci

lunedì, 11 aprile 2011

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Lei, la Chiesa di Cristo, la Santa Chiesa, che ha subito fin dalla sua nascita le più feroci persecuzioni e che nel XX secolo ha dovuto sopportare il più oceanico macello della sua storia (45 milioni di credenti che hanno perduto la vita, in modo diretto o indiretto a causa della loro fede: dati provenienti da Oxford non dal Vaticano)
Antonio Socci

Che spettacolo. Ogni giorno valanghe di fango, da quei cannoni che sono i mass media e i potenti di questo mondo, contro la Chiesa. Ogni giorno oltraggi, calunnie, dileggi. E lei, bella, dolce, inerme, indifesa che subisce cercando - come una madre premurosa - di proteggere i suoi figli più piccoli dallo scandalo continuo. Come si fa a non amare questa Chiesa, così vulnerabile, indifesa, così umanamente povera da rendere evidentissimo che è sorretta dalla presenza formidabile di un Altro. Altrimenti mai avrebbe potuto arrivare al XX secolo e abbracciare il mondo intero e continuare a far innamorare tanti cuori di quel volto. Del Salvatore.

Lei, la Chiesa di Cristo, la Santa Chiesa, che ha subito fin dalla sua nascita le più feroci persecuzioni e che nel XX secolo ha dovuto sopportare il più oceanico macello della sua storia (45 milioni di credenti che hanno perduto la vita, in modo diretto o indiretto a causa della loro fede: dati provenienti da Oxford non dal Vaticano), lei che è stata perseguitata a tutte le latitudini, sotto tutti i regimi (da quello della Cina dei Boxers di inizio secolo, a quello massonico messicano, da quelli comunisti a quelli nazisti e fascisti fino a quelli pagani e a quelli islamici), lei che ha subìto il primo genocidio del Novecento, quello degli armeni. Ma non interessano a nessuno i morti cristiani, le suore rapite, i missionari uccisi i cristiani cacciati da tanti Paesi. E' forse interessato a qualcuno il lungo genocidio consumatosi a Timor Est o quello ventennale del Sudan ad opera del regime jihadista contro i cristiani del Sud, con due milioni di morti, quattro milioni di profughi e centinaia di migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi al Nord? A nessuno. Se ne accorse il New York Times nel 1998.
Ma Gesù lo aveva detto: "Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi", "hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi", "diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia", vi trascineranno davanti ai loro tribunali, vi tortureranno, vi metteranno a morte. Infatti non ci si è accontentati di macellare i cristiani: li si vuole anche infangati, disonorati. Anche quando loro - vittime di tutte le ideologie totalitarie - si sono presi cura, pressoché da soli, di altre vittime come i loro fratelli ebrei, anche quando il Papa Pio XII con migliaia di preti e suore, a rischio della loro stessa vita (vedi padre Kolbe), minacciati loro stessi di morte, hanno salvato centinaia di migliaia di poveri ebrei braccati da quell'ideologia pagana che già faceva strage di cattolici polacchi, anche dopo questa immensa e commovente impresa - che dopo la guerra fece sgorgare i più sinceri ringraziamenti dei maggiori esponenti del mondo ebraico e dei tanti salvati (anche esponenti politici avversi alla Chiesa) - anche dopo un evento del genere in cui la Chiesa pressoché da sola (come scrisse Albert Einstein) si oppose al Satana pagano hitleriano, anche dopo ciò alla Chiesa tocca l'onta dell'accusa di razzismo, ideologia biologista che è l'esatto opposto del cattolicesimo e che è nata proprio in odio al cristianesimo...
Ma questa sembra essere la sua sorte: la stessa di Gesù. L'odio del mondo. La mano assassina non è arrivata a colpire perfino il Papa stesso in piazza San Pietro? E già sul suo predecessore, Pio XII, non gravava un progetto di deportazione da parte dei nazisti? E un altro predecessore non era stato già deportato, 150 anni prima, da Napoleone?
Del resto perfino nella democrazie - se proprio non vogliamo ricordare il bagno di sangue cristiano che fu la Rivoluzione francese o le feroci persecuzioni della conquista piemontese (più di 60 vescovi italiani arrestati o esiliati, migliaia di frati e suore cacciati dai loro conventi e la Chiesa espropriata di tutto) - perfino nelle democrazie, dicevo, la Chiesa è odiata, perseguitata.
C'è qualcuno che ricordi come nella Inghilterra madre della democrazia (quella che proprio dalla Chiesa aveva imparato da democrazia con la Magna Charta) oggi, a 500 anni dalla svolta anglicana (imposta da un re tiranno) è ancora proibito a un cattolico diventare cancelliere? Blair ha dovuto aspettare, a dare la notizia della sua conversione, di aver perduto la carica. Pensate se vigesse un'analoga proibizione - che so - per gli atei o gli ebrei, o gli islamici...
E perfino negli Usa si è dovuto aspettare duecento anni perché un cattolico, nel 1960, diventasse presidente americano. E quante rassicurazioni dovette dare Kennedy, attaccato proprio in quanto cattolico che - come tale - non doveva andare alla Casa Bianca (in ogni caso fece subito una brutta fine e nessun cattolico più ci è tornato).
Ma, si sa, è proibito guardare la storia per quello che è. Sempre e solo sul banco degli accusati devono stare i cattolici. Ciononostante la Chiesa non fa mai vittimismo, non polemizza, non si perde in discussioni e controversie. Addirittura per volere di quel grandissimo Papa che è stato Giovanni Paolo II, che pure aveva provato sulla sua pelle sia la persecuzione nazista, che quella comunista e infine le pallottole di Ali Agca, arrivò quel gesto inaudito, stupendo che fu il grande "mea culpa" dell'Anno Santo: dalla Chiesa di Roma, che avrebbe avuto tutti i titoli, alla fine del Novecento, per puntare il dito su tutti i poteri e le ideologie del mondo che l'avevano straziata, venne questo struggente atto di umiltà, perché il mondo sapesse, capisse, che ai cristiani non interessa rivendicare meriti, né interessa aver ragione, ma - riconoscendosi peccatori, ultimi fra gli uomini e veramente indegni del dono che hanno avuto da Dio - a loro interessa solo indicare quel volto bellissimo che ci salva, in cui Dio si è fatto carne ed è venuto a salvarci.
Con il cui amore (cantato attraverso duemila anni di bellezza dagli artisti cristiani) hanno insegnato all'umanità a prendersi cura dei sofferenti, dei derelitti, coprendo il mondo di opere di carità e di ospedali. E ancora oggi, come sempre, la Chiesa quasi da sola, sentendo tutti gli uomini come suoi figli (anche coloro che la odiano), premurosamente fa sentire la sua voce contro l'immane massacro delle vite più indifese e innocenti (un miliardo in 40 anni), contro le risorgenti ideologie della morte, contro l'orrore della fame, dell'industria della guerra, contro l'odio che dilania i cuori e il mondo, contro tutte le violenze.
Ma ancora una volta la Chiesa è per questo vilipesa, oltraggiata, infangata, derisa (ora accusata falsamente di tacere, ora accusata dagli stessi di parlare: sempre in ogni caso odiata). Che spettacolo! Come si fa a non accorgersi che è veramente una cosa dell'altro mondo in questo mondo. E' divina. Così la considerò uno dei suoi persecutori, arrivato alla fine della vita, nell'esilio di Sant'Elena, Napoleone Bonaparte: "Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c'è la distanza dell'infinito. Conosco gli uomini e vi dico che Gesù non è (solo) un uomo...".
I pensieri del Bonaparte, riportati in "Conversazioni religiose" (Editori riuniti), sono di questo tenore: "Tutto di Gesù mi sorprende. Il suo spirito mi supera e la sua volontà mi confonde. Tra lui e qualsiasi altra persona al mondo non c'è possibilità di paragone. E' veramente un essere a parte... E' un mistero insondabile... Cerco invano nella storia qualcuno simile a Gesù Cristo o qualcuno che comunque si avvicini al Vangelo... Nel suo caso tutto è straordinario.... Anche gli empi non hanno mai osato negare la sublimità del Vangelo che ispira loro una specie di venerazione obbligata! Che gioia procura questo libro!". "Dal primo giorno fino all'ultimo, egli è lo stesso, sempre lo stesso, maestoso e semplice, infinitamente severo e infinitamente dolce... Che parli o che agisca, Gesù è luminoso, immutabile, impassibile...". "Gesù è il solo che abbia osato tanto. E' il solo che abbia detto chiaramente e affermato senza esitazione egli stesso di sé: io sono Dio...".
Napoleone constata il suo potere divino nei fatti storici: "Voi parlate di Cesare e di Alessandro, delle loro conquiste e dell'entusiasmo che seppero suscitare nel cuore dei soldati" osservava Napoleone "ma quanti anni è durato l'impero di Cesare? Per quanto tempo si è mantenuto l'entusiasmo dei soldati di Alessandro?".
Invece per Cristo "è stata una guerra, un lungo combattimento durato trecento anni, cominciato dagli apostoli e proseguito dai loro successori e dall'onda delle generazioni cristiane. Dopo san Pietro i trentadue vescovi di Roma di Roma che gli sono succeduti sulla cattedra hanno, come lui, subito il martirio. Durante i tre secoli successivi, la cattedra romana fu un patibolo che procurava sicuramente la morte a chi vi veniva chiamato... In questa guerra tutti i re e tutte le forze della terra si trovano da una parte, mentre dall'altra non vedo nessun esercito, ma una misteriosa energia, alcuni uomini sparpagliati qua e là nelle varie parti del globo e che non avevano altro segno di fratellanza che una fede comune nel mistero della Croce... Potete concepire un morto che fa delle conquiste con un esercito fedele e del tutto devoto alla sua memoria? Potete concepire un fantasma che ha soldati senza paga, senza speranza per questo mondo e che ispira loro la perseveranza e la sopportazione di ogni genere di privazione?... Questa è la storia dell'invasione e della conquista del mondo da parte del cristianesimo... I popoli passano, i troni crollano e la chiesa rimane! Quale è, dunque, la forza che mantiene in piedi questa chiesa, assalita dall'oceano furioso della collera e dell'odio del mondo? Qual è il braccio, dopo diciotto secoli, che l'ha difesa dalle tante tempeste che hanno minacciato di inghiottirla?"

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venerdì, 08 aprile 2011

I cattolici sono indignati con Rai 3. Si sentono bersagliati ingiustamente e si sono stancati di subire in silenzio.
Prendo a simbolo un giovane prete, che chiamerò don Gianni, un bravissimo sacerdote che – fra le altre cose, insieme ad altri – si fa in quattro e dà letteralmente la vita, per aiutare immigrati, emarginati, “barboni” e tossicodipendenti.
L’ultimo episodio che ha fatto indignare lui e molti altri come lui, è stata l’incredibile invettiva contro la Chiesa fatta da Luciana Littizzetto a “Che tempo che fa”, domenica sera (che sta pure su Youtube).
E’ considerato un caso emblematico della tendenza di Rai 3, la rete simbolo dell’Italia ideologica. Il programma è quello di Fabio Fazio, programma cult della sinistra salottiera.
E’ noto che ogni domenica sera la Littizzetto fa le sue concioni  avendo come spalla lo stesso Fazio.
Ebbene domenica, parlando di Lampedusa, a un certo punto – senza che c’entrasse nulla – la Luciana si è lanciata in un attacco congestionato contro la Chiesa, a proposito dell’arrivo dei clandestini tunisini, e ha urlato ai vescovi “dicano qualcosa su questa questione”.
I vescovi, a suo parere, stanno sempre a rompere “e adesso stanno zitti… fate qualcosa! Cosa fanno?”.
A me pare che non esista affatto l’obbligo per la Chiesa di farsi carico di tutti i clandestini che vengono dall’Africa.
In ogni caso il quotidiano dei vescovi, Avvenire, ieri ha sommessamente obiettato alla Littizzetto che la Chiesa non ha taciuto affatto e che proprio la scorsa settimana il segretario generale della Cei, monsignor Crociata ha convocato una conferenza stampa per informare che 93 diocesi hanno messo a disposizione strutture capaci di ospitare 2500 immigrati, caricando sulla Chiesa tutte le spese.
Ma questa risposta di Avvenire è uscita in ultima pagina, sussurrata e con un tono benevolo, sotto il titolo: “Chissà se Lucianina chiede scusa”.
Fatto sta che attacchi come quelli della Littizzetto sono stati visti e ascoltati da milioni di telespettatori e ben pochi avranno letto la documentata risposta di “Avvenire”.
Forse si può e si deve rispondere anche più energicamente. C’è chi vorrebbe pretendere le scuse del direttore di Rai 3 e soprattutto il diritto di replica.
In nome dei tantissimi sacerdoti, suore e cattolici laici che in questo Paese da sempre, 24 ore al giorno, sputano sangue per servire i più poveri ed emarginati e che poi si vedono le Littizzetto e tutta la congrega di intellettualini e giornalisti dei salotti progressisti che, dagli schermi tv, impartiscono loro lezioni di solidarietà.
Sì, perché la Littizzetto non si è limitata a questo assurdo attacco (condito di battute sul cardinal Ruini).
Poi, fra il dileggio e il rimprovero morale, si è addirittura impancata a seria maestra di teologia e ha preteso persino di evocare il “discorso della montagna” – citato del tutto a sproposito – per strillare ai vescovi e alla Chiesa:  “ero nudo e mi avete vestito, ero malato e mi avete visitato, avevo sete e mi avete dato da bere… Il discorso della montagna lì non vale perché sono al mare?”.
E poi, sempre urlando, ha tuonato: “c’è la crisi delle vocazioni, ci sono seminari e conventi vuoti: fate posto e metteteli lì, che secondo me poi sono tutti contenti”.  
Non sarebbe neanche il caso di segnalare che l’ignoranza della Littizzetto è pari alla sua arroganza, perché il “discorso della montagna” sta al capitolo 5 del Vangelo di Matteo, mentre i versetti citati da lei – che non c’entrano niente – stanno addirittura al capitolo 25 (quelli sul giudizio finale che non piacerebbero proprio alla comica di Rai 3).
Non sarebbe il caso di sottolineare la gaffe se la brutta sinistra che ci ritroviamo in Italia non avesse elevato comici come lei al rango di intellettuali e addirittura di maestri di etica e di civiltà.
Apprendo addirittura (da Internet) che “il 22 novembre 2007 Luciana Littizzetto ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il prestigioso premio De Sica, riservato alle personalità più in luce del momento nel mondo dello spettacolo e della cultura”.
Se queste sono le “personalità della cultura” che vengono premiate addirittura da Napolitano è davvero il caso di dire “povera Italia!”.
viene in mente Oscar Wilde: “Chi sa, fa. Chi non sa insegna”.
Chi conosce il Vangelo e lo vive, come il mio amico don Gianni, si fa in quattro per dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati.
Chi invece non lo conosce, pretende di insegnarlo, lautamente pagato per le sue scenette comiche su Rai 3, e si lancia all’attacco dei “preti”.
Visto che sia la Littizzetto che Fazio – il quale ha assistito a questa filippica sugli immigrati senza obiettare, facendo ancora la spalla – mi risulta siano ben retribuiti e non vivano affatto nell’indigenza, vorrei sapere, da loro due, di quanti immigrati si fanno personalmente carico. Quanti ne ospitano a casa loro? Quanto danno o sono disposti a dare, dei loro redditi, per accogliere e spesare tunisini, libici e altri clandestini?
Considerata l’invettiva della Littizzetto e il suo pretendere che altri (la Chiesa) ospitino gli immigrati a casa loro, non posso credere che lei per prima non faccia altrettanto.
Sarebbe veramente una spudoratezza inaccettabile.
Vorrebbe allora – gentile signora Luciana – mostrarci la sua bella casa piena di tunisini che lei avrà sicuramente ospitato?
La Chiesa non ha certo bisogno delle lezioni di “Che tempo che fa” per spalancare le sue braccia a chi non ha niente. Lo fa da duemila anni.
E dà pure per scontato che il mondo non se ne accorga e neanche la ringrazi. Ma che addirittura debba essere bersagliata dalle lezioncine è inaccettabile, soprattutto poi se a farle fossero persone che non muovono dito per i più poveri.
Intellettuali, comici e giornalisti dei salotti progressisti che spesso schifano l’italiano medio (e anzitutto i cattolici), che stanno sempre sul pulpito, col ditino alzato, a impartire lezioni di morale, di solito non vivono nell’indigenza.
Molti di loro trascorrono le giornate fra gli agi, in belle case e al riparo di cospicui conti in banca. Qualcuno – come si è saputo di recente – si avventura pure in investimenti sbagliati. Temerari.
Io non so come vivano loro la solidarietà. Ma a me personalmente non è mai capitato di trovarne uno che fosse disposto a coinvolgersi in iniziative di solidarietà e di carità verso i più infelici quando le ho proposte loro.
Ce ne saranno, ma io non ne ho mai trovati. Prima di impancarsi a maestri e censori degli altri, non sarebbe il caso che anzitutto testimoniassero ciò che fanno loro personalmente?
Noi cattolici educhiamo i nostri figli alla carità come dimensione vera della vita.
Mio figlio di 14 anni trascorre il sabato mattina con altri coetanei, insieme a don Andrea, a portare generi alimentari a barboni e famiglie indigenti. E a far loro compagnia.
Don Andrea educa i suoi ragazzi portandoli anche con le suore di Madre Teresa che vanno a cercare i clochard, se ne prendono cura, li lavano, li medicano, mi rifocillano.
Io non ho mai visto un solo intellettuale di sinistra lavare un barbone. Invece i preti, le suore e i cattolici che lo fanno sono tantissimi.
Sono persone che fin da giovani hanno deciso di donare totalmente la loro vita, per amore di Gesù Cristo.
rinunciato a una propria famiglia, vivono nella povertà (i preti, titolati con studi ben superiori alla media, vivono con 800 euro al mese) e servono l’umanità per portare a tutti la carezza del Nazareno.
La Chiesa sono questi uomini e queste donne. E’ di questi che straparlano spesso certi intellettuali da salotto.
Non so quanto se ne rendano conto, soddisfatti e compiaciuti come sono di se stessi. Non so se sono ancora in grado di provare un po’ di vergogna.
Ma so che questa sinistra intellettuale (quella – per capirci – che se la prende con i crocifissi e che sta sempre contro la Chiesa) fa davvero pena, fa tristezza.
Certamente è quanto ci sia di più lontano dai cristiani.  

Antonio Socci

Da “Libero”, 7 aprile 2011

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mercoledì, 16 marzo 2011
La Chiesa e la questione risorgimentale italiana di Antonio Socci

La «rivoluzione italiana» del «risorgimento» fu un’«impresa coloniale» sabauda condotta da una élite liberale avversa alla Chiesa e al Papa. Antonio Socci fa l’elenco degli orrori e dei danni le cui conseguenze ancor oggi patiamo.

[Da AA.VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 409-434]

    La leggenda nera che vuole la Chiesa Cattolica come una potenza oscurantista, reazionaria e nemica della libertà degli uomini e dei popoli ha un capitolo tutto italiano: si tratta del cosiddetto Risorgimento e della posizione della Santa Sede nelle vicende dell’unificazione italiana del secolo scorso.
    L’argomento ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro: noi — in queste pagine — ci limiteremo solo ad enunciare alcuni dei fatti storici trascurati.

In principio fu il federalismo

    Nel secolo scorso, il più lucido fra i pensatori degli anni Trenta e Quaranta e senz’altro Carlo Cattaneo, storico, economista, politico. Cattaneo, che è la mente del Politecnico, non immaginava davvero, né avrebbe mai voluto, Milano come prefettura di Torino. Scrive Antonio Gramsci: «Il federalismo di Ferrari-Cattaneo fu l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le Cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte […]. Perché» si chiede dunque Gramsci «accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario?» (1).
    Non solo Cattaneo fu il più lucido e affascinante sostenitore della via federalista per l’Italia, ma, nel 1848, giunse addirittura a delineare gli Stati Uniti d’Europa con un anticipo sui tempi della storia che avrebbe evitato, di per sé, due guerre mondiali nel vecchio continente e varie tragedie connesse.
    Se la confederazione europea poteva essere, allora, un sogno, per l’Italia invece il federalismo sembrava la via più naturale e incruenta dell’unificazione. Un’Italia divisa fino ad allora in diversi stati. Si erano già fatti i primi passi: nel novembre 1847 era stato stipulato un accordo doganale fra Piemonte, Toscana e Stato Pontificio che faceva concretamente intravedere ai diversi popoli della penisola una prospettiva federale. Qualcosa di analogo allo Zollverein delle regioni germaniche, ma, se vogliamo, anche al mercato comune europeo attuale. Come oggi sarebbe impensabile una Europa politicamente unita attraverso una guerra di conquista di uno dei suoi stati a danno degli altri, conquistati ed annessi con la forza, così — fino al 1848 — nessuno avrebbe mai potuto gabellare una conquista piemontese della penisola come l’unità d’Italia. Ma è quello che avvenne.
    «La lega doganale» osserva Gramsci «promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli stati italiani, i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata» (2).
    Ma come la Chiesa, il papa e lo Stato pontificio si trovarono a vivere gli avvenimenti di quegli anni?
    Il 16 giugno 1846 il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti viene eletto papa e prende il nome di Pio IX. Ha fama di liberale e sostenitore della causa nazionale italiana. Appena eletto concede un’amnistia che scatena gli entusiasmi di tutti. Fra l’altro riconosce anche la libertà di stampa, precedendo Leopoldo II di Toscana e Carlo Alberto di Savoia.
    Massimo D’Azeglio e Marco Minghetti, nella loro cosiddetta Epistula ad Romanos proclamano: «Un tale uomo ha fatto più per l’Italia in due mesi, che non hanno fatto in venti anni tutti gli Italiani insieme». Pio IX chiama inoltre al governo dello Stato Pontificio un tecnico di fama europea, un politico liberale, Pellegrino Rossi (in passato perfino coinvolto in cospirazioni democratiche).
    Papa Mastai, come sovrano temporale, lavora assiduamente attorno al progetto di unità federale. Suo delegato alle trattative è Corboli-Bussi, ma egli conta soprattutto sul delegato piemontese, Antonio Rosmini, che aveva in animo di creare cardinale e — nel caso fosse stata realizzata la federazione — di chiamare ad alte cariche presso la Santa Sede. Intanto però a Torino cade il ministero Casati-Gioia-Ricci ed il nuovo governo non rinnova le credenziali a Rosmini. Già nel 1845 fra Carlo Alberto e Massimo D’Azeglio aveva cominciato a prender forma un progetto espansionistico che, in via preliminare, esigeva il naufragio dell’unica realistica via per l’unificazione d’Italia, quella federalista. A Roma gli eventi precipitano. Pellegrino Rossi viene assassinato da radicali estremisti, scoppia la rivoluzione, il papa deve fuggire.
    In pochi mesi si passa dalle acclamazioni per il papa «liberale» e sostenitore della causa italiana alla fuga dello stesso Pio IX da Roma. Com’è possibile? «La situazione precipita e si svolge in quattro tappe fatali: 10 febbraio Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”; 29 aprile Allocuzione Non semel contro la guerra all’Austria; 15 novembre uccisione di Pellegrino Rossi; 24 novembre fuga a Gaeta» (3).
    Già prima, i gruppi repubblicani e settari si erano inseriti nell’euforia popolare per il papa e avevano preso ad esaltarlo ipocritamente cercando di usarne l’immagine per i loro scopi e soprattutto cercando di trascinare la Santa Sede in una guerra contro l’Austria (4) che mai il papa avrebbe potuto fare (peraltro l’Austria aveva già minacciato uno scisma se si fosse trovata in guerra contro un esercito mandato dal papa). Il papa manifestava a Carlo Alberto la sua netta volontà di sottrarsi a questa strumentalizzazione politica: «Qui dagli esaltati si vuole assolutamente che io pronunci la parola — guerra — cosa che non debbo fare. […] Dico che il papa non fa la guerra a nessuno, ma nel tempo stesso non può impedire che il desiderio ardente della nazionalità italiana non spinga oltre i confini le truppe comandate dal general Durando. Dico infine che rinuncio francamente ai progetti seduttori dei repubblicani che vorrebbero fare dell’Italia una Repubblica sola con il papa alla testa. Dico di rinunciarvi perché dannosi immensamente all’Italia e perché la S. Sede non ha intenzione e non l’ebbe mai di dilatare i suoi temporali domini, ma quelli bensì del Regno di Gesù Cristo» (5).
    In questo documento Pio IX si spinge fino al limite estremo in cui era possibile spingersi ad un Successore di Pietro: la disponibilità a chiudere un occhio su ciò che le truppe dello Stato pontificio avessero eventualmente deciso autonomamente. Eppure si accusò Pio IX di tradimento, accollando a Roma il peso della sconfitta. Secondo Gramsci la responsabilità fu piuttosto del governo piemontese: «Essi furono di un’astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana» (6).
    Da questo momento in poi nasce la leggenda nera su Pio IX. Non solo la leggenda nera della storiografia liberale...
    «Più strano ancora, per me» osserva padre Guido Sommavilla sj «è che interpretino ormai in questo quadro l’Ottocento anche storici cattolici, monsignori e gesuiti oltre che laici (Jemolo, Jedin, Martina, Aubert), occupandosi di papi [...] e soprattutto di Pio IX (ritenuto) “papa santo, ma pessimo politico”».
    Il papa, dunque, avrebbe sbagliato a non cedere subito e su tutto «ai liberali che si comportavano a quel modo, pronti ad uccidere i migliori politici suoi amici (Pellegrino Rossi, Moreno, Leu) e saltargli addosso se non si arrendeva a discrezione (Repubblica romana) e a porre sotto sequestro i beni e le proprietà della Chiesa ovunque arrivavano al potere, ignominiosamente poi mercanteggiandoli?».
    E perché avrebbe dovuto cedere? «Proprio perché Pio IX era intelligente, capiva bene che in tutti quei sequestri (o regali eventualmente) erano i poveri a perderci: i poveri contadini... e i poveri semplicemente, ai quali, allora, soltanto la Chiesa pensava, anche con i redditi di quei benefici. Magari intuiva pure che quelle terre incamerate e vendute ci avrebbero rimesso in senso perfino ecologico, con l’insensato sfruttamento che Stato e borghesi ne avrebbero fatto, a cominciare dal patrimonio boschivo» (7). Nel marzo 1929 La Civiltà cattolica così rievoca le posizioni: «Cominciando da Pio IX, fino al più semplice prete di contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori da ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non s’oppose all’unità, ma la voleva in modo diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia, dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese (Solaro della Margherita, nda)».

Guerra di conquista

    Accade infatti che in Piemonte il potere passa dal gruppo del Solaro ai liberali di D’Azeglio, Cavour e Rattazzi. I Savoia chiamando al governo questa nuova classe dirigente intendono sfruttare l’aspirazione nazionale all’unità come foglia di fico di un progetto semplicemente espansionistico della corona. Poco importa se — come ha osservato Denis Mack Smith — «l’elastica maggioranza di Cavour includeva... diverse posizioni politiche», se Ricasoli e Spaventa erano «centralizzatori» e «decentralizzatori» erano invece Farini e Minghetti, se si opponevano «liberal conservatori, come D’Azeglio e Minghetti» e radicali di sinistra come Rattazzi. Nei fatti ciascuno collabora suo modo, al progetto della conquista. Anche se certo fu il Cavour la sua più coerente espressione politica.
    Ma chi è Camillo Benso conte di Cavour, che di lì a poco si rivelerà il grande architetto di tale «conquista piemontese»? Un talento politico senz’altro. Ma c’è chi aggiunge: «un radicale che nel suo nichilismo si arrestava soltanto alla proprietà terriera borghese» (8). Per Disraeli, Lord Cowley e Lord Acton — e si sa quanto l’Inghilterra abbia contato nella vita e nella politica del conte Camillo che non scese mai sotto Bologna — era «un politico totalmente privo di scrupoli». Antonio Gramsci dà un giudizio semplicemente politico: «I liberali di Cavour concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia» (9).
    Fra le tante cose che sono normalmente passate sotto silenzio, nella manualistica scolastica sul Risorgimento, vi sono le fasi preliminari che rendono possibile questa strategia di conquista regia. Che lasciano interdetti. Per esempio: «Nessun cattolico, fedele alla Chiesa» scrive Ambrogio Eszer «riuscirà a capacitarsi perché il Regno di Sardegna abbia voluto iniziare la sua opera di unificazione nazionale con la soppressione dei monasteri contemplativi» (10).
    E nei confronti della Chiesa non si contentarono di queste prime soppressioni, né della sua spoliazione, della rapina di monasteri e abbazie, ne della conquista dei territori dello Stato Pontificio. È la stessa presenza del Santo Padre a Roma ad essere ideologicamente e militarmente attaccata da una dinastia che parlava francese e che a Roma mai aveva messo piede.
    Così il Regno sabaudo, poi Regno d’Italia, rifiutò pervicacemente ogni possibile accordo, ogni garanzia giuridica sulla libertà del papa. Un riconoscimento minimo di salvaguardia della sua libertà sarebbe bastato probabilmente al Santo Padre per acconsentire anche a rinunciare allo Stato Pontificio (11).
È pur vero che la storia non si fa con i «se». Tuttavia Pio IX aveva ampiamente dimostrato di esser disposto quasi a tutto per l’Italia. Ebbe a dire il segretario di Stato cardinal Antonelli all’ambasciatore austriaco Bach: «Se a Torino non avessero perseguito la Chiesa così appassionatamente, se non avessero ferito Pio IX nella sua coscienza di capo della Chiesa, Dio sa quanto non avrebbe concesso e dove oggi non ci troveremmo» (12). C’è un altro aneddoto che illustra bene l’amore all’Italia di questo pontefice. Un conte tedesco viene ricevuto in udienza dal papa ed esprime a Sua Santità il suo dispiacere per i movimenti politici che stavano attaccando lo Stato Pontificio e la Chiesa. Finita l’udienza, Pio IX sbotta a mezza voce, con i suoi collaboratori: «Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana» (13).
    Il 19 giugno 1871, quando già tutto è perduto, così Pio IX ricorda i primi gesti del suo pontificato: «Ma io benedissi allora l’Italia, come di nuovo la benedico adesso, la benedissi, e la benedirò» (14).
    Forse però una qualche risposta all’inquietante interrogativo di Eszer sul perché di questa persecuzione esiste. Per procedere all’impresa politico-militare che è stata immaginata a Torino, non basta concentrare gran parte del bilancio statale sulle spese militari, sarebbe necessario poter disporre di entrate equivalenti quasi a quelle di un altro Stato. Si comincia così a pensare di mettere le mani sull’immenso patrimonio (fondiario, immobiliare, finanziario) della Chiesa: un’operazione drammatica che oggi la storiografia ha completamente rimosso e che, secondo i cattolici, ha i caratteri di una vera e propria rapina di Stato assai simile a quanto realizzeranno, nel nostro secolo, i regimi totalitari.
    Lo Statuto, agli articoli 24 e 68, già crea le condizioni per una legislazione di attacco alla Chiesa in materia giudiziaria, civile ed economica. L’8 aprile 1850 si varano le leggi Siccardi che tolgono alla Chiesa unilateralmente diritti e prerogative. Per le sue proteste e la sua opposizione il vescovo di Torino, monsignor Giovanni Fransoni, viene arrestato. Poi vengono sequestrati i suoi beni e infine viene bandito dallo Stato (morirà in esilio a Lione). Egualmente arrestato e deportato, nel 1850, l’arcivescovo di Cagliari, monsignor Marangiu-Nurra. Il direttore del giornale cattolico L’Armonia per aver anch’egli criticato le nuove leggi subisce l’arresto e la condanna a quindici giorni di carcere. Ma tutto questo, come aveva immaginato Pio IX, era solo il preannuncio della tempesta. Sul finire del ‘52 al D’Azeglio succede il Cavour. Si vara il grande attacco alla Chiesa: la legge per la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni (dalla cui vendita si mira a lucrare cinque milioni l’anno).
    «Si ebbero confische massicce di beni ecclesiastici, giacche Cavour era convinto che la “lebbra del monacismo” fosse un importante fattore di arretratezza economica» (15). Ovvero un limite alla proprietà borghese. Per il vecchio Solaro «questa legge sanziona un sacrilego latrocinio». Per il Cavour è l’autentica applicazione del motto «libera Chiesa in libero Stato». Il «latrocinio» era giustificato dal conte con le difficoltà economiche dello Stato che però, contemporaneamente, spendeva capitali (e vite di contadini) in una guerra — quella di Crimea — in cui gli italiani non c’entravano nulla. Il 29 maggio 1855, dunque, il re firma il decreto che sopprime agostiniani, certosini, benedettini cassinesi, cistercensi, olivetani, minimi, minori conventuali, osservanti, riformati cappuccini, oblati di Santa Maria, passionisti, domenicani, mercedarii, servi di Maria, padri dell’Oratorio, filippini, clarisse, cappuccine, canonichesse lateranensi, crocifisse benedettine, carmelitane, domenicane, francescane, battistine, celestine e turchine. Soppresse 331. case (4.540 religiosi cacciati fuori dalle loro case) e incamerate rendite per oltre due milioni dell’epoca. Un po’ meno del bottino sperato. Ma per quel che si era salvato era solo questione di tempo. Roma decretò la «scomunica maggiore» per tutti «gli autori, i fautori, gli esecutori della legge».
    C’è ovviamente un nesso fra «colpire i beni ecclesiastici e la necessità di far fronte a spese crescenti e ad eserciti più perfezionati» (16). E ciononostante al 1857 lo Stato sabaudo è gravato da debiti per 800 milioni. Il problema delle spese militari nei bilanci dello Stato sabaudo è un capitolo della storia del Risorgimento che, per quanto sottovalutato, risulta determinante e rivelatore: lo è nel determinare la decisione di uno scontro frontale contro la Chiesa, lo è nella scelta di trasformare il Regno delle Due Sicilie in una colonia da conquistare e saccheggiare, lo è per le condizioni sociali che sono costrette a subire le plebi contadine e operaie. Nelle discussioni al Senato sulle condizioni sanitarie del Paese (era la prima volta che ci si occupava del problema!), il 12 marzo 1873 il medico Carlo Maggiorani delineava questo quadro: «La tisi, la scrofola, la rachitide, tengono il campo più di prima; la pellagra va estendendo i suoi confini; la malaria co’ soi tristi effetti ammorba gran parte della penisola […]. La sifilide serpeggia indisciplinata fra i cittadini ed in ispecie fra le milizie». Per le malattie epidemiche «i contagi esotici (colera) han facile adito e attecchiscono facilmente: il vaiuolo rialza il capo; a difterite si allarga ogni giorno di più».
    Mentre le élites risorgimentali nel Palazzo mettono a punto i loro piani di conquista regia, dilapidando le pubbliche finanze nelle loro imprese militari, l’Italia perlopiù contadina e cattolica vive in condizioni subumane. Nel periodo 1861-1870 muoiono nel primo anno di vita 227 bambini per mille nati vivi. Il 45 per cento delle morti totali è di bambini inferiori a cinque anni, dovute spesso a infezioni prodotte dalle condizioni di vita e di lavoro delle madri. Lo Stato liberale che dilapida la metà delle finanze pubbliche nelle sue guerre (dette «d’indipendenza»), non si è mai occupato delle condizioni tragiche del popolo, che nelle campagne ha una speranza di vita media che si aggira sui quarant’anni.

    Il raffronto fra il bilancio della Difesa e quello per le spese sociali (sanità, occupazione, igiene e cultura) è spaventoso. «Dal 1830 al 1845 la quota delle spese militari non fu mai inferiore al 40 per cento della spesa statale complessiva. Con la prima guerra d’indipendenza l’incidenza delle spese militari su quelle totali raggiunse nel 1848 e nel 1849 rispettivamente il 59,4 per cento e il 50,8 per cento. Nei cinque anni successivi tale voce di spesa non superò mai il 27 per cento e solo in relazione alla spedizione d’Oriente nel 1855 e 1856 raggiunse rispettivamente il 36 per cento e il 38,6 per cento. Con la guerra del 1850 e 1860 l’incidenza delle spese militari raggiunse rispettivamente il 55,5 per cento e il 61,6 per cento. A fronte di spese militari di tale rilevanza (finanziate soprattutto con gli espropri ecclesiastici, nda) le spese per gli affari economici e le opere pubbliche ebbero la massima incidenza nel 1847 col 30,9 per cento e la minima nel 1831 col 2,9 per cento, mentre per l’assistenza sociale, l’igiene e la sanità, la pubblica istruzione e le belle arti, raramente nell’insieme si destinò annualmente più del 2 per cento della spesa totale» (17).
    Ma torniamo dunque al 1857. È anno di elezioni. Vota un’infima minoranza della popolazione, attorno all’1 per cento. Eppure i deputati cattolici raddoppiano di numero (da 30 a 60): quelli che avevano sostenuto le leggi contro la Chiesa in molti casi vengono sonoramente sconfitti. Così il Governo, con una curiosa concezione della democrazia, annulla molte elezioni con il pretesto che il clero si era immischiato nel voto. Nel 1860 lo Stato sabaudo cede alla Francia Nizza e la Savoia (una decisione mostruosa: Nizza era la città di Garibaldi). Un mercimonio di terre e popoli per convincere Napoleone III a dare il suo placet all’annessione che di lì a poco il Piemonte avrebbe fatto delle terre dello Stato Pontificio dove nessuno lo aveva chiamato. La guerra di conquista del Piemonte si allarga poi al Regno del Sud, un regno più antico, più prospero e più italiano di quello savoiardo: prima con la spedizione dei Mille, finanziata da potenze straniere e riuscita più che per eroismo come si è creduto a lungo, grazie a una torbida trama di corruzioni, imbrogli e violenze in cui inglesi e piemontesi fecero a gara. Quindi con l’instaurazione di un regime dittatoriale al Sud.
    Vale la pena soffermarsi su un aspetto non secondario. Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, dichiarava a un importante convegno storico: «Garibaldi ebbe sempre un nume tutelare: la Gran Bretagna. Più esattamente, la Massoneria inglese» (18).
    Quel feeling si sostanziò anche, come ha rivelato di recente Giulio Di Vita, grazie a sue ricerche in archivi di Edimburgo, in un «versamento» a Garibaldi di una cifra enorme per la conquista del Regno delle Due Sicilie: «tre milioni di franchi francesi, in piastre d’oro turche» che equivale a «molti milioni di dollari di oggi». L’esistenza di una cassa segreta della Spedizione è dunque confermata. In quali tasche finirono questi miliardi è cosa rimasta misteriosa in quanto i libri contabili e il contabile della spedizione finirono in fondo al Tirreno con il piroscafo Ercole, affondato, a quanto pare, secondo le più recenti ricerche, a causa di un misterioso sabotaggio.
    
Una parte dei soldi, tuttavia, finì senz’altro nelle tasche dei traditori di Francesco. «È incontrovertibile che la marcia davvero trionfale delle legioni garibaldine, dalla Conca di Palermo al Vesuvio, venne immensamente agevolata dalla conversione subitanea di potenti dignitari borbonici dal Sanfedismo alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa vera illuminazione pentecostale sia stata, almeno in parte, catalizzata dall’oro» (19). Scopriamo così che l’Italia (risorgimentale) nacque e fu fatta sulla «mazzetta». Per la verità i più obbiettivi fra gli storici avevano già da tempo avanzato dubbi su quel migliaio di uomini, male armati e spesso un po’ goliardici, di fronte ai quali era crollato un regno di centomila chilometri quadrati con un esercito di centomila uomini. È stato osservato che mille volontari non bastano nemmeno per presidiare una provincia, come potevano tenere sotto controllo tutto quel Regno? Adesso Di Vita, fonte indiscutibile, ci tiene a confermare: che la presunta marcia trionfale di Garibaldi aveva dietro i maneggi della prima potenza imperiale del mondo, con il suo enorme peso finanziario, militare e spionistico.
    È davvero curioso osservare che l’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che aveva potuto rivendicare i caratteri di epopea popolare, risulta, alla prova dei fatti storici, poco più che un paravento per un atto di arbitrio e di violenza del tutto contrario ai principi basilari del diritto internazionale: un colpo di stato sabaudo-inglese al sud Italia che abbatte re Francesco, il re legittimo, e insedia una monarchia straniera. Le motivazioni che spinsero l’Inghilterra in questa avventura sono ben sintetizzate da Di Vita: «La prima, colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato laico. La seconda, creare, con un nuovo Stato unitario dalle Alpi alla Sicilia, una forte Opposizione alla Francia, che non avrebbe così potuto impedire l’aprirsi dei piani imperiali britannici sul’Africa e sul Medio Oriente, il Mediterraneo e la via alle Indie» (20). In buona sostanza è la conferma dell’acuta osservazione del filosofo Augusto Del Noce per il quale «il Risorgimento italiano non è stato in realtà che un capitolo della sto
ria dell’imperialismo britannico» (21).
    Questo spiega perché, fin dall’inizio, il popolo meridionale non acclamò affatto i «liberatori». Quella non fu solo una conquista coloniale, si risolse anche in un genocidio. Mentre la borghesia e l’aristocrazia del Gattopardo stava velocemente salendo su carro del vincitore, il sud contadino si ribellò ai conquistatori e proseguì la sua lotta malamente armato anche dopo la capitolazione del suo re nel 1860.
    L’esercito piemontese che si riteneva l’esercito «liberatore» dovette schierare nel Meridione centoventimila uomini. È una storia sanguinaria troppo velocemente rimossa. Il genocidio del sud, da solo, fece più vittime di tutte le cosiddette «guerre d’indipendenza» assommate, ed era tutto sangue di ita1iani: «Vi furono battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, senza null’altro che un sospetto vago, uomini, donne, vecchi, bambini persino» (22).
    In tutto 5.212 partigiani dell’indipendenza, quelli che gli invasori — sui loro libri di storia — chiamarono «briganti», furono fucilati o ammazzati in combattimento, altri cinquemila furono arrestati. In totale si contarono ventimila vittime di quella «liberazione», o secondo altri, di quel genocidio che umiliò e calpesto la dignità e l’identità di quel popolo. E lo affamò: da allora comincia il triste dissanguamento dell’emigrazione (centoventitremila persone l’anno, quattordici milioni di esuli dal 1876 al 191) che produce sottosviluppo nelle terre abbandonate.

    Scrisse lo storico filoborbonico Giacinto De Sivo: «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese. Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?» (23). Fu una guerra civile feroce i cui effetti si fanno sentire ancora ai giorni nostri, se è vero com’è vero che il Meridione non si è più risollevato dalla sua condizione di arretratezza e subordinazione e da piaghe come la mafia. E se è vero che il fenomeno politico di questo scorcio di secolo, in Italia, si è coagulato proprio attorno alla critica allo Stato centralista e ad un progetto di stato federale che si richiama esplicitamente a Cattaneo (24). Si trattô insomma di una forzatura. Come scrisse Gramsci «un’Italia come quella che si è formata nel 1870 non era mai esistita e non poteva esistere».
    Il pugno di ferro imposto al Sud inoltre vide spesso esecutori con qualche tendenza criminale che mai furono messi sotto accusa o sotto inchiesta. Solo il grido della Chiesa si alzò a denunciare quelle violenze. Già nel 1861, il 30 settembre, Pio IX nell’allocuzione al Concistoro segreto afferma: «Inorridisce davvero e rifugge l’animo per il dolore, né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del Regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, e religiosi, e cittadini d’ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppur dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi, uccisi. Queste cose si fanno da coloro che non arrossiscono di asserire con estrema impudenza... voler essi restituire il senso morale all’Italia».
    Ma non andò forse, il nuovo Regno, a portare la buona amministrazione subalpina in plaghe desolate e pessimamente amministrate, come vuole la manualistica corrente?

Paese illegale e Paese reale

    Mentre il Regno dei Savoia, come abbiamo visto, concentra la sua politica perlopiù nelle spese per armamenti, in modo da essere la Prussia della penisola, il Regno di Napoli, prima col re Ferdinando, poi col giovane Francesco — malgrado le infamie interessate diffuse in tutta Europa dagli agenti inglesi — appare molto meglio amministrato. Troviamo qui le tasse più lievi d’Europa, le bellissime scogliere meridionali sono protette dalla prima flotta italiana. Il Regno ha un debito pubblico che è un quarto di quello piemontese: appena cinquecento milioni per nove milioni di abitanti contro i mille milioni del Piemonte per quattro milioni di abitanti.
    Lo Stato piemontese, che rischia di passare per il vero stato «borbonico» (25), specialmente per la sua elefantiaca burocrazia ereditata dal sistema francese, secondo gli storici di parte meridionale — ben poco letti — saccheggerà le casse e le ricchezze del meridione per far pagare a questa sua colonia i suoi propri debiti. Ne faranno le spese soprattutto le plebi contadine: «La condizione dei contadini meridionali era stata, nel periodo precedente l’unità» osserva lo studioso marxista Nicola Zitara «migliore e non peggiore che dopo» (26).
    Napoli del resto era un’autentica capitale europea. Per uomini d’ingegno come Leopardi e per i «viaggiatori intellettuali» dell’Ottocento Napoli è una tappa obbligata Mentre nessuno si sarebbe mai sognato di «pellegrinare» a Torino (con l’eccezione di Nietzsche che con la sua latente follia se ne innamorò). Ma di colpo questa «capitale europea» diventa una prefettura di Torino: comincia la sua decadenza. In pratica un parlamento — quello sabaudo — eletto da una ristretta minoranza di ottimati, poco più di centomila persone (e con gravi vizi di regolarità come si è visto nel 1857) decretava l’annessione di una penisola di ventiquattro milioni di abitanti, perlopiù contadini e cattolici, senza voce e senza diritti (i plebisciti che furono organizzati per salvare la faccia non furono precisamente un esempio di legalità).
    Il giovane re Francesco, assediato a Gaeta, scriveva un amaro addio al suo popolo: «In luogo delle libere istituzioni che vi avevo date e che desideravo sviluppare, avete avuto la dittatura più sfrenata e la legge marziale sostituisce ora la costituzione. Sotto i colpi dei vostri dominatori sparisce l’antica monarchia di Ruggero e di Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate province d’un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Tonino» (27). Proprio durante gli ultimi combattimenti con l’esercito di Francesco II i generali sabaudi si macchiarono di crimini vergognosi. Don Giuseppe Buttà, storico borbonico, per esempio, riconosce a Garibaldi una dignità morale che altri non ebbero. Solo Garibaldi volle andarsene da Capua per non assistere ed esser complice dell’indegno bombardamento del Cialdini mirante non a danneggiare l’esercito nemico, che infatti non ne risentì, ma a fare strage fra la popolazione civile: «Bisogna pur dirlo, Garibaldi non scese mai a simili triviali ricordi» (28).
    Mentre il Cavour — come c’informa uno storico di parte sabauda — «approvò ed elogiò l’opera del Cialdini» (29), Il mirabile esempio di eroismo del Cialdini consisteva nel massacro di vecchi, donne e bambini perpetrato in risposta alla richiesta di Francesco II di intavolare trattative («il cannone non guasta mai gli affari» aveva risposto questo «liberatore»).
    Il 27 gennaio 1861 furono programmate in tutto il neonato Regno d’Italia le elezioni che avrebbero dovuto sanzionare il fatto compiuto. Elezioni riservate a pochissimi e con una pesante interferenza dello Stato a favore dei governativi. La democrazia era ancora di là da venire. Del resto i cattolici erano già rimasti scottati da ciò che era avvenuto nel ‘57: decisero di essere «né eletti, né elettori». Obiezione di coscienza. Gli aventi diritto al voto erano appena 418.850 (una infima minoranza) eppure anche fra costoro la campagna astensionistica dei cattolici ebbe gran successo: votò solo i 57,2 per cento, in tutto 239.853 elettori. L’illegalità sostanziale del sistema liberale sta tutto in una cifra: gli aventi diritto: al voto al tempo dell’Unità, erano appena l’1,29 per cento della popolazione. Nel 1874 erano «cresciuti» fino al 2,1 per cento. Ogni commento è superfluo.
    Nel febbraio ‘61 furono assunte dal governo una serie di decisioni contro la Chiesa. Fra l’altro fu estesa a tutto il territorio italiano la legge sarda del 29 maggio 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Ventimila fra monaci e monache furono colpiti dalla legge, al Sud furono confiscati i beni di 1.100 conventi. L’economia locale ne fu duramente provata, anche per questo si scatenò una reazione popolare imprevista. Puntualmente repressa nel sangue.
    L’amministrazione piemontese, sull’orlo della bancarotta (nel ‘61 il 40 per cento del debito pubblico è dovuto ancora agli armamenti) si abbatte sul Meridione come un flagello. Tasse da strozzinaggio, ruberie, espropri dei terreni civici ed ecclesiastici, salveranno il Piemonte, ma condanneranno per sempre il Sud. Secondo il Nitti una cifra assai superiore a 600 milioni del tempo venne alienata per riacquistare le terre del demanio ecclesiastico e statale espropriate. Un dissanguamento finanziario che — con l’unificazione del mercato — lascerà il Sud totalmente a secco di capitali. Una rapina colossale. Che porta alla violenta proletarizzazione dei contadini (30).
    Basterà un solo esempio della vergognosa ripartizione della spesa per opere pubbliche per dimostrare lo statuto «coloniale» che fu imposto al meridione: dal 1862 al 1897 lo Stato spenderà 458 milioni per bonifiche idrauliche. Al Nord e al Centro andranno 455 milioni, 3 al Sud.
    Il sistema produttivo meridionale è demolito. Per esempio, subito dopo la conquista, dalle casse del Regno delle Due Sicilie 80 milioni prendono il volo per Torino: ne torneranno solo 39. «Prima del 1860» scriveva il Nitti «era (al Sud) la più grande ricchezza che in quasi tutte le regioni del Nord» (31).
Intanto, dall’autunno del ‘60 proseguono gli arresti e le deportazioni di vescovi e cardinali macchiatisi semplicemente di reati di opinione. Dal ‘60 al ‘64 nove cardinali sono arrestati e processati: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, il cardinal Baluffi, il cardinale De Angelis di Fermo, Carafa di Benevento, Riario-Sforza di Napoli, Vannicelli, Antonucci, Luigi Monichini di Jesi e Gioacchino Pecci di Perugia (il futuro Leone XIII).
    Nella primavera del 1861 sono quarantanove le diocesi rimaste senza vescovo. Seminari e monasteri chiusi, beni espropriati: la Chiesa è allo stremo. In questa situazione, il potere ieri e oggi gli storici rimproverano a Pio IX di non aver voluto cedere sua sponte Roma ai piemontesi quasi aggrappandosi con tutte le forze al potere temporale. In sostanza si sarebbe dovuto fidare della parola del governo sabaudo che s’impegnava a garantire la libertà e l’indipendenza della sua persona e del suo magistero. Ma l’obiezione che arriva dai documenti vaticani è grave. Un governo che non aveva esitato a stracciare patti, ad aggredire, violentare, rapinare in ogni modo, chiudere conventi, seminari, arrestare e deportare cardinali e vescovi, poteva pretendere la fiducia cieca del papa?
    Non era forse gravissimo che uno stato incarcerasse decine di vescovi e cardinali? E poi per motivi che hanno dell’incredibile. Bastava che un vescovo si rifiutasse di cantare il Te Deum in Chiesa per il governo (è il caso del cardinal Corsi).
    Qual è la risposta di parte governativa? «Quello» ha commentato anni fa il laico Vittorio Gorresio «fu l’esempio più notevole che si trovi nella nostra storia del tentativo di far prevalere la concezione della sovranità dello Stato laico contro la ben radicata tradizione confessionale» (32). Dunque la pura e dura ragion di stato, la forza per la forza.
    Le sedi episcopali, inoltre, rimasero a lungo vacanti perché il governo pretendeva di aver parte nella scelta dei vescovi. Sarebbe questa l’illustrazione del tanto declamato principio «libera Chiesa in libero Stato»? Certo, i cattolici erano ancora la stragrande maggioranza della popolazione. Lo Stato temeva il suo stesso popolo, su cui regnava e che non rappresentava in nessun modo. I cattolici organizzarono forme di difesa dei loro diritti civili. Ci provarono. Nel 1865, per esempio, fondarono l’Associazione per la libertà della Chiesa, ma verrà chiusa di forza appena un anno dopo: «La legge dei sospetti» riferisce Spadolini «la colpiva alle radici, disperdendo capi e seguaci, distruggendo sezioni e affiliazioni, obbligandola a dissimularsi e a scomparire» (33). Innumerevoli sono, in questi anni, le violenze, i soprusi, le censure, le persecuzioni. I rapporti giuridici che il nuovo Stato italiano volle stabilire con la Chiesa furono definiti (e lo rimasero fino al 1929) dal Codice di diritto civile (2 aprile 1865), dalla legge Ferraris, «per la soppressione di enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico» del 15 agosto 1867 e dalla legge delle Guarentigie del 1871.

Il sacco di Roma

    La legge Ferraris toglieva personalità giuridica agli ordini religiosi sopravvissuti e incamerava un terzo dell’asse ecclesiastico immobiliare (attorno ai seicento milioni del tempo). La legge andò a colpire e sopprimere circa venticinquemila enti ecclesiastici. Migliaia di religiosi si trovarono da un giorno all’altro strappati ala loro vita e ai loro conventi. Questo nuovo «esproprio» era destinato a finanziare la guerra intrapresa nel 1866 contro l’Austria. Nel triennio 1866-1868, grazie anche alle avventure belliche, il disavanzo dello Stato tocca i seicentotrenta milioni. Il Governo lo affronta appunto con la tassa straordinaria sull’asse ecclesiastico e con la famigerata tassa sul macinato.
    Le masse popolari insorgono nelle piazze contro questi provvedimenti al grido di «Viva il Papa» e «Viva la Repubblica» (34). Ma la drammatica protesta delle plebi, indice di condizioni sociali tremende, è accolta dal Governo con le forze armate: più di 250 morti e un migliaio di feriti dicono l’assoluta insensibilità dei «liberatori» d’Italia di fronte alle tremende condizioni di vita del popolo.
    Proprio dal ‘69 — la tassa sul macinato entrava in vigore il 10 gennaio 1869 — la Destra storica prende saldamente in mano il Governo con l’obiettivo prioritario del pareggio di bilancio e dell’organizzazione amministrativa dello Stato unitario. Tanto è stato decantato il rigore finanziario di questi Grandi Borghesi, non dicendo tuttavia di che lacrime grondi e di che sangue... È curioso, peraltro, che si sia voluto caricare di tanti significati il conseguimento del pareggio di bilancio da parte della Destra storica quando lo Stato Pontificio — su cui tante infamie sono state propalate — raggiunse il pareggio nel 1859 (vent’anni prima dei Grandi Borghesi) e senza affamare così il popolo, né lasciare sulle strade centinaia di morti ammazzati o espropriare chicchessia dei suoi beni (gli storici più seri, fra l’altro, oggi stanno riscoprendo il buongoverno che caratterizzò lo Stato pontificio fino alla sua violenta soppressione. Eccone qualche elemento contemporaneo al raggiunto pareggio di bilancio: la costruzione di linee telegrafiche, della ferrovia Roma-Frascati nel ‘56, il basso numero di detenuti, il traffico fluviale sul Tevere, la laicizzazione dell’amministrazione, una città fra le più «verdi» d’Europa di cui sarà fatto scempio poi con l’arrivo dei piemontesi. Pio IX volle che fosse proclamata perfino la libertà dell’associazionismo operaio).
    Ma torniamo al nuovo stato italiano. Proprio mentre venivano varati i due provvedimenti suddetti, nell’estate del 1868, il governo decretò pure la privatizzazione nel settore della fabbricazione dei tabacchi: un affare colossale, che «rafforzô i legami fra lo Stato italiano e i capitalismo bancario e affaristico proprio nel momento in cui si faceva più pesante la pressione fiscale dello Stato sulle masse popolari». Che giudizio dare dunque di questa classe dirigente? Eugenio Scalfari l’ha definita «il partito degli onesti e dei lungimiranti». Una formula che fa a pugni con la congerie di scandali, traffici e rapine in cui subito la nuova classe dirigente si trovò impantanata. «La Destra storica italiana» aggiunge Scalfari «quella dei Minghetti, degli Spaventa e dei Ricasoli, creò lo Stato unitario con uno sforzo politico e morale che durô vent’anni». Più realistico il giudizio di Gramsci: «quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che, dopo aver fatto l’Italia, l’hanno divorata» (36) Ma il 1870 è soprattutto l’anno della questione romana. La situazione internazionale favorevole scattò nell’estate del 1870. Il 20 settembre i piemontesi entravano in Roma dalla celebre breccia di Porta Pia. Il Papa ordinando di non resistere volle evitare inutili spargimenti di sangue. Ai primi di ottobre l’ennesimo plebiscito doveva sancire l’approvazione del fatto compiuto da parte dei romani. Invece vi fu un altissimo astensionismo, ad esprimere ben altro stato d’animo dei romani. Ma, naturalmente, nei giornali del tempo e nei libri di storia di oggi non se ne fece e non se ne fa menzione.
    La conquista di Roma, nei mesi successivi si risolse in una continua violenta cagnara di squadracce. Più o meno con la connivenza o la passività del governo. Minacce, aggressioni per strada a preti e frati (vi furono degli uccisi), spettacoli propagandistici blasfemi, profanazioni, saccheggi. E poi intimidazioni e pugno di ferro contro le associazioni e i sodalizi cattolici. «La violenza, l’ingiustizia, la forza» ebbe a dichiarare Pio IX il 16 febbraio 1871 ai parroci, dal suo domicilio coatto «rotte le mura, penetrarono nel Luogo Santo, e si fecero precedere da una nube fosca, nera ed orrenda di sicarii, di assassini, d’uomini irreligiosi, spudorati e sozzi. Tutto fu qui da pochi mesi cambiato!». Una volta presa Roma, il governo vara la cosiddetta legge «delle Guarentigie» (13 maggio 1871, n. 214). Formalmente con ciò si diceva di voler dare alcune garanzie di libertà al papa.
    In realtà la legge intendeva costringere il Santo Padre a riconoscere il fatto compiuto e soprattutto imponeva l’exequatur per la destinazione dei beni della Chiesa e dei benefici. Cosa significava? «Lo Stato conserva il diritto di nomina degli ordinari delle numerose sedi vescovili» (quelle sotto il patrocinio dei sovrani) e «ha facoltà di impedire a tutti i vescovi di prendere possesso delle provviste beneficiarie delle loro sedi fino all’approvazione regia della loro nomina». (37). Il Papa reagisce con una dura opposizione: «Rifiuta la dotazione assegnatagli e si affida all’obolo di san Pietro, costituito dalle offerte volontarie dei cattolici di tutto il mondo» (38).
    D’altronde, a svelare quali sono le autentiche intenzioni del Governo basta il provvedimento del gennaio 1873 che sopprime le facoltà di teologia di tutte le università e pone i seminari sotto il controllo dello Stato. Non si tratta di provvedimenti episodici dettati da mero anticlericalismo.
    Pasquale Stanislao Mancini, una delle menti giuridiche del nuovo regime, formula esplicitamente la filosofia del nuovo potere: «Nello Stato non può esistere che un unico potere, quello della nazionale sovranità, e quindi una sola legge ed una sola universale illimitata giurisdizione» (39).
Nel Sillabo — il documento di Pio IX, allegato all’enciclica Quanta cura, molto diffamato e assai poco conosciuto — la proposizione 39 condanna proprio «lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, che gode di un diritto non circoscritto da alcun limite». Pio IX denuncia questa aberrazione giuridica non solo contro la dottrina dello «Stato etico» elaborata dagli ideologi dello stato risorgimentale, ma probabilmente vedendo profilarsi all’orizzonte anche i micidiali mostri totalitari del Novecento, quando lo Stato eserciterà questo totale diritto di arbitrio sulle persone (e non a caso Giovanni Gentile teorizzerà il fascismo come il perfetto compimento della filosofia dello Stato etico elaborato da Bertrando e Silvio Spaventa e da tutta la filosofia politica del Risorgimento).
    Monsignor Luigi Giussani scrive ai giorni nostri: «Al nostro fianco vivono generazioni mute, che non possono dire se stesse: è questo l’esito del’azione omologante e pianificante del Potere, di un Potere che si concepisce senza confini. “Lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode del privilegio di un diritto senza confini”. Questa proposizione (XXXIX) condannata dal Sillabo — il “famigerato” documento della Chiesa, famigerato per la cultura dominante — è la definizione dello Stato moderno: di tutti gli stati moderni, di qualunque specie. È questo l’esito dell’illuminismo, cioè dell’uomo che diviene “misura delle cose”. La condanna del Sillabo non è formulata per demonizzare lo stato in sé — il potere in sé non è una cosa cattiva — ma per smascherare e accusare la pretesa dello Stato moderno. Perché se “lo Stato gode di un diritto senza confini” avrà anche il diritto di determinare quanti figli devo avere e come debbano essere; e potrà anche stabilire fino a quando io posso vivere e che cosa significa essere felici» (40).
    Insomma, di fronte alle ombre tremende del XX secolo quel pronunciamento di Pio IX appare profetico. Così «Pio IX» nota propriamente Emile Poulat «che era in ritardo sul suo tempo, diventa un profeta per i nostro» (41). Tornando a quel doloroso frangente della vita della Chiesa, attorno al 1864 circa 43 erano i vescovi esiliati, 16 gli espulsi, una ventina processati e incarcerati mentre — secondo i cattolici — circa 16 pare siano morti per le conseguenze delle persecuzioni. Centinaia sono i preti che hanno avuto problemi con la giustizia, 64 sono i sacerdoti fucilati e 22 i frati (perlopiù al Meridione).
    Dodicimila i religiosi dispersi per le note leggi. Dopo la presa di Roma, 89 sono le sedi episcopali vacanti. I pastori nominati dal papa non hanno possibilità di prender possesso delle loro chiese perché lo stato non ho permette: esige la più umiliante sottomissione della Chiesa.
    Molte delle speranze di Pio IX sono riposte nel genio politico di un grande santo di questi anni: don Giovanni Bosco. È lui che tenta, a costo di immense fatiche, di umilianti trattative e di tradimenti, di raggiungere un ragionevole compromesso con il Governo. In questo frangente, in cui la Chiesa sembra dividersi fra i traditori, corsi sul carro del vincitore a dare man forte al Governo, e gli intransigenti che oppongono ala dura realtà una sterile e dottrinaria intangibilità dei principi, mettendosi così nelle condizioni di far perdere tutto alla Chiesa, don Bosco rappresenta il meglio del realismo cattolico. Don Bosco si rifiuta di vendere l’anima al nemico, ma anche di rassegnarsi a capitolare senz’altro poter fare che lamentarsi. Don Giovanni Bosco di fronte alle difficoltà della presenza pubblica dei cattolici al tempo dei governi liberal-massonici postunitari, stanco dei troppi piagnistei cattolici, dice nel 1877: «Nessuno è che non veda le cattive condizioni in cui versa la Chiesa e la religione in questi tempi. Io credo che da san Pietro sino a noi non ci siano mai stati tempi così difficili. L’arte è raffinata e i mezzi sono immensi. Nemmeno le persecuzioni di Giuliano l’Apostata erano così ipocrite e dannose. E con questo? E con questo noi cercheremo in tutte le cose la legalità. Se ci vengono imposte taglie, le pagheremo; se non si ammettono più le proprietà collettive, noi le terremo individuali; se richiedono esami, questi si subiscano; se patenti o diplomi, si farà il possibile per ottenerli; e così s’andrà avanti . Bisogna avere pazienza, saper sopportare e invece di riempirci l’aria di lamenti piagnucolosi, lavorare perché le cose procedano avanti bene».
    Nel 1873 la politica di appropriazione dei beni della Chiesa è estesa anche a Roma. Ancora una volta il governo straccia tranquillamente gli impegni precedentemente assunti. Appena il 12 settembre 1870, una settimana prima dell’invasione di Roma, il ministro della Giustizia Reali, con una circolare inviata all’episcopato italiano, a nome dello Stato si impegnava a non toccare gli ordini religiosi presenti a Roma. Identici impegni erano stati assunti con gli stati cattolici. Ma quello Stato e quel governo «degli onesti e dei lungimiranti» avevano già ampiamente dimostrato in che considerazione tenessero la parola data, gli accordi ufficiali sottoscritti, le più elementari norme del diritto.
Il provvedimento legislativo, accompagnato da violente manifestazioni anticattoliche e da una pesante campagna di stampa non comporta solo l’estensione a Roma, da parte del governo Lanza, della legge per la soppressione degli ordini religiosi. A Roma infatti ha un effetto ancor più dirompente perché in questa città si trovano le case generalizie di tutti gli Ordini religiosi presenti sulla terra.
    Per il solito Mancini gli ordini religiosi sono «inconciliabili con gli ordini liberi, coi bisogni civili ed economici del paese, con ho spirito della società moderna». Vengono dunque confiscati i beni delle corporazioni religiose. Quella borghesia, che era la base sociale del «partito degli onesti e dei lungimiranti», può adesso scatenare una speculazione di dimensioni eccezionali. In barba alla Chiesa che commina la scomunica a chiunque speculasse sui beni ad essa rapinati, vi è una vera corsa all’accaparramento di questo tesoro. Centinaia di poveri preti, frati e suore, nonostante le loro flebili proteste, nel giro di un mese vengono cacciati dalle loro case e dalle loro proprietà. E queste vengono date in pasto agli speculatori.
     «È meglio per noi il morire che vedere lo sterminio delle cose sante» scriverà il Santo Padre il 21 novembre 1873. Ma nemmeno la morte, nel 1878, placô l’odio forsennato contro Pio IX dal momento che i suoi funerali, quel 12 luglio, nonostante il dolore e la preghiera di centomila fedeli, furono funestati dall’aggressione, dalle urla, dalle sassate, dalle bastonature e gli insulti di squadracce che volevano impossessarsi della salma per gettarla nel Tevere e non facevano mistero delle loro intenzioni, gridando: «Le carogne nella chiavica!».
     Ma torniamo agli espropri romani. Lo scandalo — anche internazionale — per questi provvedimenti che minano lo stesso diritto all’esistenza della Chiesa cattolica è tale che il 12 novembre 1873 il ministro Sella informa la Santa Sede che, in base alla legge delle Guarentigie, sarebbero stati accreditati ala stessa tre milioni e duecentoventicinquemila lire. Pio IX perô non accetta mai questo (peraltro assai esiguo) indennizzo, ritenendolo il prezzo di un vergognoso e ben più cospicuo ladrocinio.

Un bilancio

    Dunque una Chiesa impaurita dalla modernità, reazionaria, refrattaria alla democrazia è quella che ci si presenta davanti in questi decenni? Sfogliare La Civiltà Cattolica di quegli anni può riservare tante sorprese. Nel 1879 (X, 385) l’autorevole rivista, ad esempio, esce con una sorprendente difesa del Manifesto lanciato da Garibaldi per una democrazia effettiva. Insomma i cattolici si trovano accanto proprio ai radical socialisti nel rivendicare il diritto al suffragio universale, la più rivoluzionaria delle frontiere politiche di quel tempo.
     Si fa un’analisi della situazione al 1876: su circa 30 di abitanti hanno diritto al voto solo 605.007 italiani. «Questi privilegiati« scrive La Civiltà Cattolica «erano 2,18 per cento italiani dei due sessi.
     Può darsi prova più evidente che gli elettori inscritti la rappresentano fra noi una minoranza al tutto minima?» Considerando poi i votanti effettivi (368.750) si arriva a fatica allo 0,94 per cento. Se si pensa che circa centomila di costoro «sono pagati dal governo e da lui in qualche modo dipendenti» (la classe politica del tempo esercitava un controllo ferreo su di loro) è venuto il momento, per la casta al potere di fare i conti «di buon grado o di malavoglia» osserva la rivista cattolica «cola potenza della democrazia».
     Nel 1881 dunque i cattolici, in prima linea nella battaglia per il suffragio universale e il riconoscimento dei diritti civili per «milioni di italiani poveri o analfabeti». Sidney Sonnino, davanti al Parlamento, il 30 marzo 1882, ammise. «La grandissima maggioranza della popolazione, più del 90 per cento di essa, si sente estranea affatto alle nostre istituzioni; si vede soggetta silo Stato e costretta a servirlo col sangue e coi denari, ma non sente di costituirne una parte viva ed e non prende interesse alcuno alla sua esistenza ed al suo svolgimento».
     A consuntivo di quella impresa chiamata «risorgimento» si può ricordare quanto Ferdinando Martini confessava in una lettera al Carducci il 16 ottobre 1894: «Abbiam voluto distruggere, e non abbiamo saputo nulla edificare» (42). Che non è davvero un gran bilancio per chi ostentava virtù muratorie» (43).


(1) Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1954, p. 108.
(2) Gramsci, op. cit., pp. 108-109.
(3) Alberto Polverari, Vita di Pio IX, «Studi piani» (4), Roma 1986, p. 185.
(4) Lo stesso Mazzini, ad esempio, coglie l’occasione «per eccitare gli animi contro l’Austria e per alienarli dal potere temporale», in Giacomo Martina, Pio IX (1845-1850), Miscellanea historiae pontificiae, vol. 38, Roma 1974, p. 108.
(5) Cit. in Polverari, op. cit., pp. 195-196.
(6) Gramsci, op. cit., p. 90.
(7) Guido Sommavilla, La Compagnia di Gesù, Rizzoli, Milano 1984, p. 191.
(8) Francesco Cognasso, I Savoia, Dall’Oglio, Varese 1981, pp. 627-628.
(9) Gramsci, op. cit., pp. 45-46.
(10) Ambrogio Eszer, Pio IX dal 1851 al 1866, in «Studi cattolici», (marzo 1986) p. 208.
(11) Scrive Rober Aubert: «Infatti bisogna constatare che ai liberali di allora, persino ai moderati tra essi, l’incondizionata rinunzia a qualsiasi forma di potere temporale appariva come dogma assolutamente intangibile, ed una soluzione del tipo dei Patti Lateranensi del 1929, per loro, non sarebbe stata accettabile» (in Eszer, op. cit., p. 212).
(12) Vedi Giacomo Martina, Pio IX (1851-1866), Miscellanea historiae pontificiae, vol. 51, Roma 1986, p. 146 e n. 93.
(13) Vedi Eszer, op. cit., 208.
(14) Vedi Polverari, op. cit., p. 188.
(15) Denis Mack Smith, Cavour, Bompiani, Milano 1988, p. 273.
(16) Alberto Caracciolo, Stato e società civile (Problemi dell’unificazione italiana), Einaudi, Torino 1960, p. 19.
(17) In Anteo D’Angiò, La situazione finanziaria dal 1796 al 1870, in Storia d’Italia, De Agostini, Torino 1973, vol. VI, p. 241.
(18) A.A.VV., La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria (Atti del convegno di Torino 24-25 settembre 1988, a cura di Aldo A. Mola), Bastogi, Foggia 1990, p. 307. Cfr. anche Rosario Romeo, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Einaudi, Torino 1964, pp. 225-247.
(19) AA.Vv., La liberazione..., pp. 379-381.
(20) Ibid, p. 380.
(21) «Il Sabato», 19.6.1993.
(22) Carlo Alianello, La Conquista del Sud, Rusconi, Milano 1972, p. 133.
(23) Giacinto de Sivio, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, ed. Forni, Bologna 1965.
(24) Questi i due capisaldi positivi della Lega. Che, però, spesso si traducono in una deteriore ostilità verso il Meridione (e gli stranieri in genere).
(25) Cfr. Gramsci, op. cit., p. 171.
(26) L’unità d’Italia, Nascita di una colonia, Jaca Book, Milano 1976, p. 21.
(27) Cit. in Alianello, op. cit., pp. 98-101.
(28) Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani, Milano 1985.
(29) Cit. in Alianello, op. cit., p. 103.
(30) C’è chi lega proprio a questo fenomeno la nascita del fenomeno mafioso, che si impone come controstato nel momento in cui lo stato si presenta con un volto particolarmente odioso: il piombo della conquista coloniale. Cfr. G.C. Marina, Il Meridionalismo della Destra Storica e l’inchiesta parlamentare del 1867 su Palermo, Palermo 1971.
(31) Francesco S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, p. 7.
(32) Vittorio Gorresio, Risorgimento scomunicato, Bompiani, Milano 1977, p. 110.
(33) Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica (Da Porta Pia al ‘98), Vallecchi, Firenze 1961, p. 56.
(34) Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna (1860-1871), Feltrinelli, Milano 1978, vol. V, p. 351.
(35) Cfr. Candeloro, op. cit., p. 355.
(36) Gramsci, op. cit., p. 158.
(37) Lorenzo Frigiuele, La Sinistra e i cattolici (Pasquale Stanislao Mancini giurisdizionalista anticlericale), ed. Vita e Pensiero, Milano 1985, p. 11.
(38) Frigiuele, op. cit., pp. 111-112.
(39) Frigiuele, op. cit., p. 98.
(40) Luigi Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, ed. Il Sabato 1993, pp. 425 -426.
(41) Emile Poulat, Chiesa contro borghesia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 76.
(42) Ferdinando Martini, Lettere, Roma 1934, p. 291.
(43) Per uno sguardo d’insieme sui cattolici e il risorgimento vedi anche Antonio Socci, La società dell’allegria. Il partito piemontese contro la Chiesa di don Bosco, Sugarco, Milano 1989.

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domenica, 13 febbraio 2011

Quando la Madonna indossò il Tricolore…
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13 febbraio 2011 / In News
Gli italiani sono “gli azzurri”. Nessuno sa che con i 150 anni dell’Italia unita, si festeggiano anche i 100 anni dell’ “azzurro” come colore nazionale. Viene dall’iconografia mariana e la dinastia sabauda ne fece un suo simbolo.
Scrive Luigi Cibrario, storico della monarchia: “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro color nazionale”
Tutto cominciò il 21 giugno 1366. Amedeo VI di Savoia salpa da Venezia per la Terra Santa, per la crociata voluta da papa Urbano V e sulla sua nave ammiraglia – accanto al vessillo dei Savoia – fa sventolare uno stendardo azzurro con una corona di stelle attorno all’ immagine della Madonna, per invocare “Maria Santissima, aiuto dei cristiani”.
L’azzurro di quel vessillo mariano fu ripreso da alcuni cavalieri sabaudi che, in onore alla Santa Vergine, cinsero delle sciarpe azzurre sull’uniforme.
Ne nacque una tradizione, fra gli ufficiali savoiardi. L’azzurro entrò a far parte dei simboli dinastici e il 10 gennaio 1572, con Emanuele Filiberto, la sciarpa azzurra diventò ufficialmente parte dell’uniforme. E poi dell’araldica del Regno d’Italia.
Pare che sia diventato il nostro colore ufficiale nelle competizioni sportive, per la prima volta, a Milano, il 6 gennaio 1911, per la partita di calcio Italia-Ungheria: quindi cento anni fa.
La piccola storia di questo simbolo fa capire che la tradizione cattolica impregna totalmente la storia italiana. D’altra parte il Regno dei Savoia è sempre stato cattolicissimo.
Con la restaurazione fu l’unico regno italiano, insieme allo Stato pontificio, ad abolire il Codice napoleonico: “la dinastia sabauda” scrive De Leonardis “aveva dato alla Chiesa cinque beati e vantava titoli di fedeltà al Cattolicesimo che fino al 1848  erano forse superiori a quelli dei Borbone e degli Asburgo; a differenza di questi ultimi i sovrani sabaudi non si erano compromessi con le idee illuministe e massoniche”.
Sarà l’ultimo re d’Italia infine a donare alla Chiesa la più preziosa delle reliquie: la Sindone.
Che l’unificazione d’Italia sotto il re sabaudo – con Cavour – abbia preso la forma di un conflitto contro la Chiesa è una di quelle tragedie storiche che probabilmente nessuno volle in maniera deliberata.
Basti pensare che il Regno sabaudo nel suo Statuto proclamava il Cattolicesimo come sua religione ufficiale. E poi c’è anche il cattolicesimo di molti patrioti (come il Pellico) e infine il fatto che lo stesso Pio IX era un entusiastico sostenitore dell’unificazione nazionale (per via federale).
Non solo quando fu eletto, con il Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”, quando il nome del Pontefice veniva invocato dai patrioti (ed erroneamente costoro pretesero di trascinare il Papa a far la guerra all’Austria: da qui il no e la rottura).
Pio IX restò legato all’ideale dell’Italia sempre, anche nel pieno del conflitto risorgimentale. E questo è un aspetto quasi sconosciuto.
Come i cattolicissimi Savoia, anche il Papa visse un drammatico conflitto interiore fra il dovere di difendere la Chiesa – che veniva aggredita e spogliata dal nuovo Stato – e la sua personale simpatia per la causa nazionale.
Un giorno un conte germanico in visita al Santo Padre gli manifestò il suo sdegno per l’aggressione in corso ai danni dello Stato Pontificio e della Chiesa, e, dopo averlo ascoltato, Pio IX mormorò ai suoi: “Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana”.
Errori tragici ve ne furono da entrambe le parti. E certamente l’idea di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il Papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda.
Ben ventidue anni fa, nel 1988, quando ancora non era emersa la Lega Nord, scrissi un libro di denuncia contro il Risorgimento come “conquista piemontese” e – curiosamente – fu pubblicato dalla Sugarco di Massimo Pini, un editore molto vicino al garibaldino Bettino Craxi. Il libro – riedito sei anni fa col titolo “La dittatura anticattolica” uscì quando nessuno metteva in discussione il Risorgimento.
Oggi che – al contrario – è diventata una moda, vorrei sommessamente dire il mio “Viva l’Italia!” e penso che si debba festeggiare il 17 marzo.
Per noi cattolici c’è comunque qualcosa di provvidenziale nel Risorgimento italiano (anche nella fine del potere temporale dei papi, come ebbe a dire Paolo VI), perché Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini.
E infine ha fatto salvare l’indipendenza, l’unità e la libertà dell’Italia proprio ai cattolici e al Papa, il 18 aprile 1948, a cento anni esatti dalla preghiera per l’Italia di Pio IX.
Del resto il cattolicesimo era il solo cemento degli italiani. Infatti cosa li univa nell’Ottocento? La lingua no.
Nel 1861 gli italiofoni erano solo il 2,5 per cento della popolazione, perlopiù toscani (gli stessi Savoia a corte parlavano francese).
Nemmeno l’economia li univa: la Sicilia era più integrata economicamente all’Inghilterra che alla Lombardia e il Piemonte più alla Francia che alla Sicilia.
Ciò che univa il Paese erano Roma e le tradizioni cattoliche. Tanto è vero che il poema della risorgente nazione italiana fu il poema della Provvidenza, “I promessi sposi” del cattolicissimo Manzoni.
E fu deciso “a tavolino” che la lingua italiana fosse, da allora, quella della Divina Commedia dantesca, cioè il più grande poema mistico e addirittura liturgico della storia della Chiesa.
Perfino il tricolore adottato dai Savoia – nato apparentemente ghibellino – è intriso di tradizione cattolica.
Lo studente bolognese Luigi Zamboni, che col De Rolandis lo concepì nel settembre 1794, nell’entusiastica attesa dell’arrivo napoleonico che avrebbe liberato dal giogo dello Stato pontificio, partì dallo stemma di Bologna, quella croce rossa in campo bianco che viene dalle crociate e dalla Lega lombarda (a cui Bologna appartenne). Al bianco e rosso lui aggiunse “il verde”, che – disse – era “segno della speranza”.
In effetti simboleggiava la speranza nella tradizione cattolica, come virtù teologale, insieme alla fede, che aveva come simbolo il bianco, e alla carità (il rosso).
Non a caso il primo “bianco, rosso e verde” lo troviamo proprio nella Divina Commedia, sono i vestiti delle tre fanciulle che, nel Paradiso terrestre, accompagnano Beatrice e che simboleggiano appunto le virtù teologali (Purg. XXX, 30-33).
Lo stesso “mangiapreti” Carducci, che certo non era ignaro di Dante, né di dottrina cattolica, nel suo discorso ufficiale per il primo centenario della nascita del Tricolore, a Reggio Emilia, dà, a quei tre colori, proprio il significato della Divina Commedia (fede, speranza e amore, sia pure in senso laico).
E’ ovvio che la Chiesa sia intimamente legata a questa terra “onde Cristo è romano” e pare evidente la missione religiosa dell’Italia (sembra che la parola I-t-a-l-y-a in ebraico significhi “isola della rugiada divina”).
Nessuno però sa che è stata addirittura la Madonna in persona a “consacrare” il tricolore nell’importante apparizione del 12 aprile 1947 a Roma, alle Tre Fontane, a Bruno Cornacchiola (il mangiapreti che si convertì).
Era un fanciulla di sfolgorante bellezza e indossava un lungo abito bianco, con una fascia rossa in vita e un mantello verde.
Consegnò al Cornacchiola un importante messaggio per il Santo Padre. E poi alla mistica Maria Valtorta spiegò che apparve “vestita dei colori della tua Patria, che sono anche quelli delle tre virtù teologali, perché virtù e patria sono troppo disamate, trascurate, calpestate, ed io vengo a ricordare, con questa mia veste inusitata, per me, che occorre tornare all’amore, alle Virtù e alla Patria, al vero Amore”.
Aggiunse che era apparsa a Roma perché “sede del papato e il Papa avrà tanto e sempre più a soffrire, questo, e i futuri, per le forze d’Inferno scagliate sempre più contro la S. Chiesa”.
Aggiunse che apparve per la terribile minaccia del “Comunismo, la spada più pungente infissa nel mio Cuore, quella che mi fa cadere queste lacrime”.
Essa è “la piovra orrenda, veleno satanico” che “stringe e avvelena e si estende a far sempre nuove prede”, una minaccia “mondiale, che abbranca e trascina al naufragio totale: di corpi, anime, nazioni”.
Era in effetti il 1947. L’Armata Rossa stava marciando su mezza Europa, fino a Trieste. E l’Italia il 18 aprile 1948 si salvò solo per l’impegno del papa e della Chiesa, da cui venne alla patria uno statista come De Gasperi, che salvò la libertà e così compì davvero il Risorgimento.

Antonio Socci

Da “Libero”, 13 febbraio 2011

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domenica, 06 febbraio 2011

Quando ci irridevano per la castità…
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6 febbraio 2011 / In News
Fummo una generazione irriverente, trasgressiva. Negli anni Settanta chi non ha fatto scioperi e okkupazioni? Il “vietato vietare”, il sei politico, poi gli spinelli, gli amorazzi usa e getta, il fanatismo ideologico, la violenza politica, i capetti intolleranti circondati di “compagne” adoranti.
Una generazione obbedientissima – come la giudicò Pasolini – ai padroni del pensiero dominante che la volevano rivoluzionaria.
Poi alcuni di noi hanno incontrato dei padri e hanno disobbedito ai padroni. Abbiamo sperimentato la vera libertà. Ci siamo avventurati in terre sconosciute, abitate da una bellezza mai immaginata, abbiamo sperimentato l’amicizia, l’autenticità, il gusto di una vita diversa.
Senza neanche metterlo a tema, seguendo il fascino di Gesù Cristo, ci siamo trovati a vivere lo splendore della castità, fra ragazzi e ragazze, e perfino a intuire la poesia rivoluzionaria della verginità.  
Meravigliati da quanto era bello il volto della propria ragazza non ridotta a preda, a oggetto su cui sfogare la propria violenta solitudine.
E’ la sovrana e lieta libertà dei figli di Dio per cui Francesco d’Assisi poteva dire:dopo Dio e il firmamento: Chiara”. E nel Testamento di Chiara si legge: “Francesco, nostra unica consolazione e sostegno, dopo Dio”.
Avevamo incontrato uomini veri e per nulla al mondo volevamo perdere quella nuova vita e quel gusto dell’esistenza.
Così diventammo gli “odiati ciellini”. Odiati dal branco dei “compagni” che, al mercato libertario delle facili carni (limitrofo alla bancarella dell’eroina), sghignazzavano sui preti e il papa e – com’era facile per gli sciocchi – sulla castità dei ciellini. In tanti casi dal disprezzo si passò pure alle spranghe, ai pugni, agli insulti.
Eccoli là, oggi, i compagni di allora. Non hanno fatto la rivoluzione, però molti hanno fatto carriera e soldi. E l’arroganza è spesso rimasta identica. Sotto la canizie e la calvizie ruggisce ancora il giovanotto fanatico di allora.
L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi.
Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?
Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio: quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale.
In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni…
Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”.
Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.
Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato?
D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”?
E’ la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne” dunque parteciperà questo Scalfaro.
E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: ‘Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort’ ”.
Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?
E’ meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa?
Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pedofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.
Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità.
O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante.
C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.
Bene. Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.
E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.
Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.
Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico?
E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?
E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità.
Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”.
Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.
  
Antonio Socci
da “Libero”, 6 febbraio 2011

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socci, sfrancesco

sabato, 15 gennaio 2011

Un uomo
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15 gennaio 2011 / In Articoli
Per noi cristiani non sono gli ecclesiastici a fare i santi, ma è Dio (la Chiesa semplicemente li riconosce e invita a farsi loro amici). I santi sono anzitutto uomini veri, la cui persona è resa affascinante, autentica, meravigliosa dall’amicizia con Gesù.
La loro vita però è un messaggio accorato di Dio a una certa generazione, a un’epoca e poi – più ampiamente – anche a tutte le altre.
Allora la beatificazione di Karol Wojtyla impone anzitutto questa domanda: cosa ha voluto dire Dio all’umanità del XX e del XXI secolo mandando un uomo così?
Perché quest’uomo è stato addirittura prefigurato e accompagnato da tanti segni anche soprannaturali ed è stato posto davanti al mondo intero con la sua elezione come Vicario di Cristo e con uno dei pontificati più lunghi della storia?
Secondo me il Cielo ha voluto dirci anzitutto due cose decisive.
Primo messaggio
Per capire la prima bisogna tornare a quel 16 ottobre 1978. Il pontificato di Paolo VI – apertosi con le luminose speranze del Concilio – si era concluso, come lui stesso dichiarò amaramente, sotto neri nuvoloni.
La tempesta che aveva colpito la Chiesa era gravissima. Il post-concilio e il Sessantotto furono dirompenti.
Circa 70 mila sacerdoti lasciarono l’abito, la pratica religiosa crollò verticalmente, l’anarchia e la contestazione nel mondo ecclesiastico sostituirono l’obbedienza, i cattolici – come disse Ratzinger – si trovarono portati qua e là da ogni vento di ideologia.
La solitudine dell’anziano papa Montini fu resa ancor più drammatica dall’esplosione della violenza politica e del terrorismo in Italia, un paese dilaniato dai conflitti.
La sensazione generale era che la Chiesa e il papato fossero ormai allo stremo e che il cattolicesimo fosse diventato residuale, una cosa per vecchiette e per bambini.
La sera del 16 ottobre 1978 quando quell’uomo giovane e vigoroso si affacciò col suo sorriso alla terrazza di San Pietro, infrangendo subito tutti i cerimoniali, con la libertà e la serena forza di chi è stato destinato fin dalla nascita a una missione grandiosa, tutti, perfino i più lontani dalla Chiesa, capirono che era accaduto qualcosa di inaudito.
Tutti rimasero a bocca aperta davanti al Papa venuto dall’Est, intuendo che era l’alba sorprendente di un giorno nuovo e che sarebbero accadute cose inimmaginabili. Dio stava “parlando”.
E papa Karol ci ha incantati subito. Ha catturato i cuori soprattutto della mia generazione e di tutte le nuove generazioni che si sarebbero affacciate sulla scena da allora in avanti: finalmente un uomo vero!
Di tutti i personaggi costruiti dai media, o comunque dal potere, chi poteva reggere il confronto? Assolutamente nessuno. E infatti per ventisette anni si sono visti, sulle tv del mondo intero, tutti i potenti dei più diversi stati e regimi che davanti a lui apparivano impacciati e insicuri come scolaretti.
Tutti ne subivano il fascino, tutti (a cominciare da Gorbacev che pare abbia addirittura pianto) si sentivano in soggezione nonostante il calore umano e la cordialità di quell’uomo.
Milioni di giovani sono corsi a incontrarlo ai quattro angoli del pianeta, incantati da un uomo che sentivano finalmente come padre vero, che comprendeva il loro desiderio di felicità, che svelava loro il senso della vita e che lo testimoniava con eroismo, con umanità e con gioia. Incantati dalle sue parole e soprattutto dalla sua persona, dalla sua libertà.
Era totalmente diverso dal cliché clericale, secondo cui i cristiani sono ometti impauriti dalla vita.
Era il papa che a vent’anni era stato operaio, poeta, attore di teatro, “combattente” nella tragedia della sua terra invasa da nazisti e comunisti e devastata; il Papa che poi era stato seminarista clandestino, giovane prete che amava andare in montagna con i suoi studenti e amava sciare e nuotare, il papa che era stato un intrepido vescovo quarantenne che si era opposto agli abusi della tirannia comunista a Cracovia e che poi ha partecipato al Concilio e poi è stato il ciclone che ha abbattuto il moloch planetario del comunismo, con la forza inerme della sua testimonianza, il papa che ha sfiorato più volte il martirio.
Ebbene quest’uomo dalla vita leggendaria, che ha percorso tutti i continenti, era la prova vivente che l’amicizia di Gesù rende più uomini e non meno uomini. Rende più autentici, più liberi, più umani, più ragionevoli, più felici.
Secondo messaggio
La seconda cosa che il Cielo ci ha detto mi pare la seguente: quest’uomo è il santo della Chiesa del silenzio, della Chiesa dei martiri, del secolo in cui si è perpetrato il più grande macello di cristiani in duemila anni di storia.
Egli appare anzitutto come il sigillo di Dio sull’età del comunismo. Sul secolo che ha visto consumarsi l’esperimento criminal-politico più vasto, duraturo e sanguinario della storia per l’eliminazione di Dio e della Chiesa dal mondo.
Giovanni Paolo II che sale agli onori degli altari dimostra che si realizza la profezia della più grande profetessa di tutti i tempi, Maria di Nazaret, quando proclamò: “Dio abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili”.
Con la glorificazione di quest’uomo, che ha conosciuto sulla sua pelle il totalitarismo nazista e quello comunista e che ha rischiato il martirio per mano degli uni e degli altri, la Chiesa – in qualche modo – glorifica milioni e milioni di martiri del nostro secolo che sono stati massacrati nei Gulag, nei lager e in mille altri modi e il cui nome è scritto nei cieli, ma resta ignoto sulla terra.
Soprattutto quei martiri del comunismo che la Chiesa stessa – prima di Wojtyla – si vergognava di nominare, di celebrare e di indicare alla venerazione del popolo, per soggezione verso la prepotenza ideologica del comunismo mondiale.
La stessa soggezione che indusse qualche sventato ecclesiastico a evitare, al Concilio, con metodi scorretti, la condanna del comunismo, richiesta dai vescovi dell’Est europeo.
E’ evidente infatti che il comunismo per la Chiesa è stato una tragedia di natura teologica, come hanno dimostrato fior di pensatori, a cominciare da Augusto Del Noce. Del resto tutti i pontefici ne hanno denunciato la natura satanica e soprattutto lo ha fatto la Madonna a Fatima.
Il suo pontificato stesso, trascorso sotto il segno di Maria, è stato il capolavoro della Madonna che lo ha accompagnato da Medjugorije con le più lunghe apparizioni pubbliche di tutti i tempi.
Gratitudine
Giovanni Paolo II è stato infatti il Papa che ha re-insegnato alla cristianità la grandezza, la bellezza e la potenza della Madonna.
E questo è stato decisivo per la Polonia (che si riprese la sua libertà, ai cantieri di Danzica, inalberando l’icona della Madonna di Chestokowa) e grazie alla Polonia per tutto l’Est europeo e per il mondo.
Dunque bisogna prendere esempio da Giovanni Paolo il Grande, dal suo coraggio che gli faceva gridare a nome delle vittime davanti a tutti i tiranni.
E bisogna affermare a chiare note – senza timidezze – che oggi viene beatificato il Papa che – dopo aver denunciato la natura satanica del comunismo – con la forza della fede lo ha abbattuto.
Anche per questo è un santo a cui tutta l’umanità deve essere grata. Perché – come ho dimostrato, carte alla mano, nel mio libro (in queste poche righe sarebbe impossibile) – abbattendo il comunismo, per una via miracolosamente pacifica, egli ha probabilmente scongiurato una nuova (e stavolta fatale) guerra mondiale.
Attraverso di lui la Madonna ha salvato l’umanità da una autodistruzione che sarebbe stata definitiva.

Antonio Socci

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socci, giovanni paoloii

lunedì, 03 gennaio 2011

Cristiani, agnelli in mezzo ai lupi ….
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2 gennaio 2011 / In Articoli
Come iniziare meglio l’anno nuovo, se non con un nuovo macello di cristiani? Gli agnelli sacrificali sono sempre gli stessi, sono a portata di mano dei carnefici e nessuno li difende.
I ventuno morti per un’autobomba piazzata all’ingresso di una chiesa ad Alessandria d’Egitto, vanno a sommarsi alla cinquantina di vittime fatte in un’altra chiesa, a Bagdad, il 31 ottobre, a cui è seguito poco dopo il supplizio di altri sei cristiani (con 33 feriti).
Tragedie che vanno a sommarsi alla terribile condizione dei cristiani in Pakistan, alle ragazzine cristiane che lì sono ritenute schiave a disposizione di ricchi signori islamici, per non dire del caso di Arshed Masih che è stato bruciato vivo per la sua fede cristiana, mentre la moglie – andata a denunciare l’orrore dalla polizia – è stata violentata davanti agli occhi dei figli (sono cronache dell’anno appena trascorso).
Ma non importa niente a nessuno dei cristiani. Come ha scritto Bernard Henri Lévy un mese fa sul Corriere della sera: “oggi i cristiani formano, su scala planetaria, la comunità più costantemente, violentemente e impunemente perseguitata”.
Quando mi capitò, qualche anno fa, di scrivere questa stessa cosa, documentandola con un lungo elenco di massacri e vessazioni mi attirai addosso delle reazioni irate o sarcastiche.
Anche Lévy ha subito la stessa sorte, infatti aggiunge: “Questa frase ha sorpreso. Ha provocato anche una certa agitazione qui e là. Eppure… Guardate…”.
Ha proseguito elencando alcuni dei massacri in corso e l’indifferenza del mondo.
Ovviamente ci sono tante violenze e discriminazioni anche contro non cristiani e Lévy ne è sempre un accorato testimone che fa sentire la sua voce, ma – come dice l’intellettuale ebreo francese – mentre queste diverse forme di discriminazione e razzismo sono riconosciute oggi come tali e denunciate, mentre “l’antisemitismo ha finito col diventare, nelle nostre regioni, grazie al cielo, un crimine designato come tale, debitamente registrato, punito”, mentre “il pregiudizio anti-arabi, o anti-Rom, per fortuna è condannato da organizzazioni tipo Sos razzismo che sono fiero di aver contribuito a fondare”, mentre la discriminazione di ogni minoranza (per motivi etnici, sessuali o religiosi) è messa al bando, “affermo però che di fronte a queste persecuzioni di massa dei cristiani improvvisamente non c’è più nessuno ad alzare la voce”.
Per questo oggi un intellettuale come Lévy, che certo non è un intellettuale cattolico, grida che si deve riconoscere e denunciare “l’odio planetario, l’ondata omicida di cui i cristiani sono vittime”.
In quell’articolo arriva a chiedere provocatoriamente a media e opinione pubblica occidentali: Esiste un permesso di uccidere, opprimere, umiliare, martirizzare i cristiani? Ebbene no. Oggi bisogna difendere i cristiani”.
Tuttavia – a conferma di quanto Lévy denuncia – quello stesso suo articolo, memorabile per onestà intellettuale e coraggio, come pure per drammaticità, il 17 novembre scorso è stato impaginato dal Corriere in una remotissima pagina interna.
Bernard Henri Lévy che merita la prima pagina su tutti i quotidiani italiani quando denuncia la condanna a morte in Iran per Sakineh (per presunto omicidio e adulterio), il Lévy seguito da un corteo di premi Nobel che sottoscrivono il suo appello e migliaia e migliaia di firme di intellettuali – in testa il solito Saviano – e semplici cittadini, quello stesso Lévy diventa di colpo una voce nel deserto, inascoltata e snobbata, quando – nell’articolo appena citato – denuncia il caso della giovane madre cristiana Asia Bibi, condannata a morte in Pakistan per il semplice fatto che è cristiana.
No, Asia Bibi proprio non ce la fa ad arrivare alla prima pagina del Corriere della sera o della Repubblica o della Stampa.
Nemmeno la notizia che la povera donna, madre di cinque bimbi, tuttora detenuta perché condannata a morte, sarebbe stata addirittura stuprata è riuscita a far muovere un solo intellettuale, un solo giornale, un solo programma televisivo.
I cristiani macellati, vittime di genocidio (come in Sudan), perseguitati e umiliati in Cina e in tutti gli altri regimi comunisti (Corea del Nord, Cuba, Vietnam) non soltanto sono vittime di serie B, ma quasi non meritano lo statuto di vittime, giacché la Chiesa deve sempre stare sul banco degli imputati.
Massacrata e perseguitata in decine di regimi, viene poi umiliata e sputazzata qua in Occidente come ludibrio delle genti. Neanche la voce del Papa, che ormai da settimane e settimane continua ad appellarsi a tutte le autorità per fermare i massacri di cristiani in corso viene ascoltata.
Lui stesso ha recentemente ripetuto che i cristiani sono il gruppo umano più perseguitato del pianeta. Ma l’Unione europea lo snobba (in Europa semmai si cerca di sradicare ogni traccia di tradizione cristiana).
E il presidente americano Obama è addirittura andato, di recente, a osannare il regime indonesiano come un esempio di tolleranza e pluralismo, omettendo il piccolo particolare dei massacri di cristiani lì perpetrati in questi decenni, a cominciare dal genocidio di Timor est.
Infine la Cina, di cui il Papa, nei giorni scorsi, ha denunciato le persecuzioni, è omaggiata e adulata dappertutto per la sua potenza economica, che tiene in pugno perfino gli Stati Uniti, figuriamoci dunque se l’Onu – dove già la fanno da padroni i regimi islamici – può occuparsi dei cristiani.
D’altronde c’è una parte della stessa Chiesa che non vede il mondo con gli occhi del Papa. Basti dire che un settimanale che si dice cristiano, di quelli che si vendono in fondo alle chiese, volendo proclamare un “italiano dell’anno” che ha onorato la Chiesa non ha scelto monsignor Luigi Padovese, vicario episcopale dell’Anatolia che nel giugno scorso è stato martirizzato in Turchia in odio alla fede cattolica, ma ha scelto il cardinal Tettamanzi perché – invece di occuparsi dei cristiani perseguitati o della situazione della fede a Milano – ha ripetutamente preteso che vengano costruite moschee a per i musulmani nella capitale lombarda.
Facciano pure una moschea, ma che c’entra il vescovo? Un vescovo non dovrebbe occuparsi piuttosto del fatto che chiese e seminari sono sempre più deserti? E non dovrebbe semmai unirsi al Papa nel dire basta ai massacri di cristiani?
Chi ha tagliato la gola a monsignor Padovese ha gridato: “ho ammazzato il grande satana! Allah Akhbar!”. La strage di Alessandria d’Egitto viene dopo una serie interminabile di attacchi musulmani alla minoranza cristiana dell’Egitto.
Quella di Alessandria è una delle chiese più antiche del mondo. Basti pensare che fu la Chiesa del grande s. Atanasio e che è – con Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli – una delle sedi patriarcali, perché chiesa di origine apostolica.
Quella città è diventata cristiana seicento anni prima che nascesse Maometto (e tuttora ha una grande comunità cristiana), ma i fondamentalisti musulmani sono impegnati a “ripulire” il Medio oriente dai cristiani ritenendoli degli abusivi (sebbene siano i cristiani gli egiziani autentici, mentre i musulmani hanno invaso molto tempo dopo quella terra).
Il governo italiano ha il merito di aver fatto sua, nelle sedi internazionali, la causa dei cristiani perseguitati. Ma è anzitutto dentro la Chiesa che il loro grido deve essere ascoltato. Ci vuole almeno il coraggio di dichiarare martire monsignor Padovese e tutte queste vittime.
Basta con i vescovi don Abbondio che si vergognano di Cristo e che cercano l’applauso dei media di sinistra impegnandosi per la costruzione di moschee invece di difendere, con il Papa, i cristiani perseguitati e martirizzati.

Antonio Socci

Da “Libero”, 2 gennaio 2011

Postato da: giacabi a 08:55 | link | commenti
islam, socci

venerdì, 19 novembre 2010

Notizie su Saviano e Caterina…
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19 novembre 2010 / In Articoli
Caro Roberto,
vieni via con me e lascia i tristi a friggere nel loro odio. Questo è un invito pieno di stima: vieni a trovare mia figlia Caterina.
Ti accoglierò a braccia spalancate e se magari ne tirerai fuori l’idea per un articolo, potrai devolvere un po’ di diritti alle migliaia di bambini lebbrosi che sto aiutando tramite i miei amici missionari i quali li curano nel loro lebbrosario (in un Paese del terzo mondo).
Vieni senza telecamere, ma con il cuore e con la testa con cui hai scritto “Gomorra”, lasciandoti alle spalle i fetori dell’odiologia comunista (a cui tu non appartieni) che si respira in certi programmi tv.
Mi scrivesti – ti ricordi ? -  quando io ti difesi su queste colonne per il tuo bel libro.
Ora io, debole, scrivo a te forte e potente, io padre inerme in lotta con l’orrore (e in fuga dalla tv) scrivo a te, star televisiva osannata, io cristiano controcorrente da sempre, scrivo a te che stimo: vieni a guardare negli occhi mia figlia venticinquenne che sta coraggiosamente lottando contro un Nemico forse più tremendo di quei quattro squallidi buzzurri che sono i camorristi.
Lei non si arrende all’orrore, come non ci si arrende alla camorra. Vieni a vedere il suo eroismo e quello di tanti altri come lei, che – come dice Mario Melazzini, rappresentante di molti malati di Sla – sono silenziati dal regime mediatico del ‘politically correct’ nel quale tu, purtroppo, hai accettato di diventare una stella.
Vieni. Vedrai gli occhi di Caterina, ben diversi da quelli arroganti e pieni di disprezzo delle mezzecalzette o dei tromboni che civettano nei salotti intellettuali e giornalistici.
Magari potrai vedere addirittura la felicità dentro le lacrime e forse eviterai di straparlare sull’eutanasia, sulla malattia o sul fine vita (come hai fatto lunedì scorso) imponendo il tuo pensiero unico, perché i malati, i disabili che implorano di essere aiutati e sostenuti, nel salotto radical-chic tuo e di Michele Serra, non hanno avuto diritto di parola.
Come non ce l’hanno – in questa dittatura del pensiero unico – i bambini non nati o i cristiani macellati da ogni parte e disprezzati o condannati a morte per la loro fede: è il caso della giovane Asia Bibi.
Vedi, a me non frega niente della tua diatriba col ministro Maroni: siete due potenti e avete gli strumenti a vostra disposizione per battervi. Non c’è bisogno di galoppini che osannino l’uno o l’altro.
A me importa dei deboli, dei malati, dei piccoli, dei poveri che sono ignorati, silenziati e umiliati in televisione. A cominciare dal programma di Michele Serra dove recitate tu e Fazio. Dove si taglia a fette il disprezzo per la Chiesa.
Per la Chiesa che tu sai bene – caro Roberto – ha lottato contro la camorra e la mafia ben prima di te e con uomini inermi e poveri che ci hanno pure rimesso la pelle.
La Chiesa che conosce i sofferenti e i miseri, li ama e quasi da sola soccorre tutti i disperati della terra, un po’ più di Michele Serra di cui ho sentito parlare solo nei salotti giornalistici, non in lebbrosari del Terzo Mondo o nei bassifondi di Calcutta (di Fabio Fazio neanche merita occuparsi).
E’ un peccato che tu metta il tuo volto a far da simbolo di un establishment intellettuale che non ha mai letto il tuo e mio Salamov e non ha mai combattuto l’orrore rosso che lui denunciò e contro cui morì.
Quello sì che sarebbe anticonformismo: andare in tv a raccontare Kolyma che è con Auschwitz l’abisso del XX secolo, ma che – a differenza di Auschwitz – non è mai stata denunciata nella nostra cultura e nella nostra televisione!
Abbiamo visto nel tuo programma lo spettro del (post) comunismo che legittimava lo spettro del (post) fascismo. Dandoci a bere che loro hanno “i valori”. Anzi: solo loro. Visto che solo loro sono stati ritenuti degni di proclamarli.
Il rottame dell’odiologia del Novecento che ha afflitto l’umanità e in particolare l’Italia è davvero quello che oggi ha i titoli per sdottoreggiare di valori?
Mi par di sentire mio padre minatore cattolico – che lottò in  vita contro il comunismo e contro il fascismo – che, quando era ancora fra noi, si ribellava davanti a questa tv e gridava: “Andate al diavolo!”.
Quelli come lui – che hanno garantito a tutti noi la libertà e il benessere di cui godiamo – non ce li chiamate a proclamare i loro valori.
Perché sono state le persone comuni come lui a capire la grandezza di un De Gasperi e ad aiutarlo, ricostruendo l’Italia. Invece gli intellettuali italiani del Novecento sono andati dietro ai pifferi di Mussolini e di Togliatti (e di Stalin).
E dopo questo tragico abbaglio l’establishment intellettuale di oggi ancora pretende di indicare la via, gigioneggiando su tv e giornali.
Pretendono di fare la rivoluzione (etica naturalmente) con tanto di contratto o fattura (sacrosanta retribuzione per la prestazione professionale, si capisce).
Sono il regime e pretendono di spacciarsi per l’eresia, incarnano la pesantezza del conformismo e si atteggiano a dissidenti, sbandierano le regole per gli altri e se ne infischiano di quelle che dovrebbero osservare loro, predicano la tolleranza e non tollerano alcune diversità culturale e umana.
Come se non bastasse proclamano l’antiberlusconismo etico e antropologico e con l’altra mano (molti di loro) firmano contratti con le aziende di Berlusconi come Mondadori, Mediaset o Endemol (di o partecipate da Berlusconi).
Pensa un po’ Roberto, io pubblico con la Rizzoli e lavoro per la Rai. Ti assicuro che si può vivere dignitosamente anche senza lavorare con aziende che fanno capo al gruppo Berlusconi, visto che (a parole) viene così schifato da questa intellighentsia.
Caro Roberto, l’altra sera mia figlia Caterina stava ascoltando un cd con canti polifonici che lei conosce bene (perché li cantava anche lei). Era molto concentrata ad ascoltare una laude cinquecentesca a quattro voci che s’intitola: “Cristo al morir tendea”.
In essa Maria parla di Gesù ai suoi amici, agli apostoli. E quando le sue struggenti parole – cantate meravigliosamente – hanno sussurrato “svenerassi per voi” (si svenerà per voi), Caterina – che non può parlare – è scoppiata a piangere.
Questa commozione per Gesù – che nei salotti che oggi frequenti è disprezzato come nei salotti di duemila anni fa – ha cambiato il mondo e salva l’umanità.

E’ la stessa commozione di Asia Bibi, la giovane madre condannata a morte perché – a chi voleva convertirla all’Islam – ha risposto: “Gesù è morto per me, per salvarmi. Maometto cos’ha fatto per voi?”.
Ecco, caro Roberto, questa commozione per un Dio che ama così è il cristianesimo.
E tu hai conosciuto uomini che per l’amicizia di Gesù, per amare gli esseri umani come lui, hanno scommesso la vita, hanno dato se stessi. Quando si sono visti quei volti come si può sopportare di vivere in un mondo di maschere e di recitare nei loro teatrini?
Ti abbraccio,

Antonio Socci

Da “Libero” 19 novembre 2010

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socci

giovedì, 14 ottobre 2010

Nella fede di quei minatori rivedo mio padre

14 ottobre 2010 / In News
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Conosco gli uomini della miniera. Per una volta il mondo si è accorto di loro, laggiù in Cile, e subito la tv ne s’è impossessata: “ma io sono e voglio restare un minatore. Non trasformateci in star”, ha detto sanamente Mario Sepulveda, uno dei primi a riemergere dalle viscere della terra.
Mario ha anche urlato: “Questi incidenti non devono più succedere!”. Finalmente un uomo autentico.
Io li conosco perché sono nato in una famiglia di minatori, ho imparato dalla loro forza (anche nel dramma), dalla loro fede cristiana, dalla loro nobiltà. Conosco quell’allegria di naufraghi, di compagni che si dividono il pane, il sudore e il poco companatico.
Dentro la miniera cilena, fra i sepolti vivi, e sopra la miniera, fra i familiari, all’accampamento Esperança, si sono viste per settimane immagini della Madonna (con una statuetta di padre Pio) e bandiere del Cile, perché tutto quel Paese ha pregato e tutto quel Paese sente che gli uomini della miniera sono l’orgoglio della nazione, la sua dignità e la sua forza.
Sono cresciuto sulle ginocchia di uno di questi uomini, mio padre, ed è stato lui il mio orgoglio, la mia scuola di vita, la mia vera università, il mio “master a Oxford”.
Non mi ha insegnato l’inglese, ma mi ha insegnato la dignità, l’amore per la pittura del Trecento e per la musica, la fede cattolica e la passione per la libertà. Ho imparato da lui a non sopportare l’ingiustizia, l’ozio di chi ingrassa vizioso sul dolore di altri esseri umani.
E’ grazie a lui che non portai il cervello all’ammasso del conformismo rosso, negli anni del liceo, e non mi sono rincoglionito di chiacchiere o di droga. Neanche me lo potevo permettere: non avevo una lira in tasca e dovevo studiare (erano i figli di papà che potevano permettersi il lusso di fare i rivoluzionari, di non studiare o di sperperare soldi nella droga).
Grazie a mio padre non mi sono imborghesito nell’anima, perché so cosa vale nella vita (e non sono i soldi) e so che essere se stessi è il tesoro vero.
Qualcosa della rudezza “cafona” degli uomini della miniera, per fortuna, mi resta addosso e  – trovandomi a lavorare nel mondo finto degli intellettuali, delle televisioni, delle curie, dei salotti e dei moralisti farisei – c’è sempre un padre e un nonno minatore nel mio sangue che si ribella al conformismo, all’ingiustizia, all’ipocrisia e grida sbrigativamente: “ma andate a farvi fottere!”.
Quei volti sporchi di terra che vediamo nelle immagini dal Cile, quella loro nudità, sottoterra, dove si soffoca di caldo col 90 per cento di umidità, li conosco da quando ero piccolo. E anche la loro malinconia.
Mio padre me li raccontava con la sua faccia bella e scarna, con le sue poche parole, li rappresentava nei suoi quadri e li cantava come dei personaggi di Omero nella personale epica delle sue poesie che oggi mi tornano in mente – guarda un po’ – insieme ai versi di Neruda.
Mia madre per anni e anni è stata una delle ragazze che non sapevano se l’amore della sua vita, quel giorno, sarebbe stato inghiottito dalle profonde gallerie della miniera.
Mia madre è stata una delle donne che si trovava di colpo il cuore in gola quando per il paese correva la voce: “c’è stato un incidente alla miniera!”.
A mia madre è crollato il mondo addosso quella notte del febbraio 1953 in cui seppe che lui aveva avuto un incidente e che solo grazie al gelo della notte invernale non era morto dissanguato perché il sangue si era ghiacciato (ma il “mostro” aveva comunque mozzato una sua mano). Dovevano sposarsi di lì a poco.
Tutto il paese dove sono nato e cresciuto ricorda i giorni in cui la miniera inghiottì due compagni di mio padre. La stessa angoscia della povera gente del Cile. Perché la povera gente cristiana, a tutte le latitudini, si assomiglia.
Con quale tenerezza mia madre ricorda la gioia e l’orgoglio di mio padre, quando poté comprarsi una moto Iso e non dovette più andare, per cinque o sei chilometri, alla miniera a piedi o in bicicletta, di giorno e di notte, in tutte le stagioni.
Nella miniera di San José il più giovane dei 33 minatori è Jimmy Sanchez 19 anni. E’ uscito da quel tunnel sprizzando gioia. Guardando la sua faccia, bella di giovinezza, è impossibile non commuoversi. E’ ancora un ragazzo.
Ho pensato quanto avrei desiderato vedere mio padre quando, a 14 anni, ha cominciato a lavorare in miniera: lui era un bambino. Aveva l’età che adesso ha mio figlio (quanto vorrei fargli ereditare la sua dignità).
Mio nonno Adriano – quando arrivò mio padre a lavorare – era già in miniera da 10 anni. Ci sono rimasti tutti e due tanto tempo. Entrambi ne hanno avuto i polmoni compromessi.
Anche i minatori cileni, che oggi festeggiano – perché stavolta l’hanno scampata – con le loro mogli e i loro figli (ce n’è uno che ha due donne ad aspettarlo e sarà un problema dare spiegazioni) sanno che ogni salvataggio è sempre precario ed effimero.
Laggiù i corpi si impastano col carbone e il fango e la terra li considera ormai suoi. A volte se li riprende senza neanche aspettare che crepino, con un’esplosione di grisù. Ma altre volte li richiama a distanza di anni. Una chiamata che gronda ingiustizia.
I polmoni di mio padre a 80 anni erano pieni di quella polvere di carbone che aveva respirato per decenni: aveva ormai la miniera nelle carni, nel sangue, nelle ossa, nelle fibre. Il suo killer ce l’aveva addosso da una vita.
La miniera è una matrigna che non perdona: ti ha nutrito con qualche povero tozzo di pane, ma prima o poi reclama il suo diritto di ammazzarti. Anche a distanza di tempo.
Così mio padre se lo è portato via il 21 maggio del 2007. Non si può morire a maggio, mi dico sempre. Ma la miniera non conosce stagioni, non ha riguardi nemmeno per la primavera: laggiù sotto è sempre lo stesso bestiale inverno di fuoco.
Così la miniera ha ammazzato mio padre dopo anni. Ma forse anche gli ha risparmiato lo strazio di vivere il dramma di mia figlia Caterina.
Questo s’impara dagli uomini della miniera, che la vita è una lotta e non una vacanza alle Maldive, che è inevitabile sporcarsi di terra e di carbone (cosa che non capita alla settimana bianca, né all’Accademia), che la vita è fragile ed effimera, che un Altro ce l’ha data e lui ha pietà di noi perché è Padre.
Uno dei minatori ha detto: “sono stato fra il diavolo e Dio, ma alla fine è Dio che mi ha afferrato”. Conta questo: essere afferrati da Dio. E conta la dignità con cui si vive. Dagli uomini della miniera si capisce che è bello avere Dio e avere accanto dei fratelli con cui condividere il pane e l’avventura dell’esistenza.

Antonio Socci

Da “Libero”, 14 ottobre 2010

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lunedì, 04 ottobre 2010

40 ragazze, martiri sconosciute a Bologna
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3 ottobre 2010 / In Articoli
 
Questa è la storia di quaranta ragazze, fra i 25 e i 35 anni, che hanno consapevolmente accettato di morire – per di più con atroci sofferenze – per poter curare e (letteralmente) servire degli ammalati gravi che neanche conoscevano. Finora questo loro eroismo e il loro martirio, consapevolmente accettato, sono rimasti nell’ombra.
Siamo cresciuti in un’Italia capace di trasformare in divi personaggi senza arte né parte, un’Italia capace di esaltare come eroi dei tipi tremendi (che hanno pure dei morti sulla coscienza).
Ma nessuno, nell’Italia che conta, che parla e scrive, sembra si sia mai accorto di queste giovani donne straordinarie.
Eppure è accaduto tutto alla luce del sole, addirittura in una istituzione pubblica di in una città importante e attenta ai valori civili (e alla “questione femminile”) come Bologna, dove queste ragazze sono vissute e morte fra 1930 e 1960.
A Bologna esiste “Viale Lenin”, la strada dedicata a un tiranno che ha fondato il regime dei Gulag dove sono stati massacrati moltitudini di innocenti inermi, fra cui migliaia di religiosi.  
Ma non esiste alcun ricordo pubblico invece di quelle donne che hanno curato tanti sofferenti dando la loro stessa vita.
Erano religiose, cioè ragazze che avevano rinunciato a se stesse perché innamorate di Gesù Cristo e per suo amore erano diventate silenziosamente capaci di donare ogni loro giornata ai malati e anche di affrontare la morte.
Tutto accadde all’Ospedale Pizzardi di Bologna, oggi Bellaria, aperto nel 1930 per l’assistenza e la cura delle malattie polmonari, in particolari per tubercolotici.
La Tbc era una malattia mortale assai diffusa, soprattutto dopo la Grande guerra, ed era contagiosissima (si contraeva per via aerea, quindi era molto più contagiosa, per esempio, dell’Aids di oggi).
Fino agli anni Cinquanta, quando arrivarono dei farmaci capaci di debellare la malattia e abbatterne enormemente la mortalità.
Ebbene, aprendo l’Ospedale nel 1930  fu richiesta dall’amministrazione degli ospedali di Bologna la presenza delle “Piccole suore della Sacra Famiglia” per assistere come personale infermieristico i circa seicento malati.
Arrivarono subito 55 suore e poi, nel corso degli anni, il loro numero giunse fino a 95, con la qualifica di infermiere diplomate e infermiere generiche (in totale, dal 1930, hanno servito al Pizzardi 574 religiose).
Garantivano assistenza giorno e notte, a continuo contatto con i malati. A quel tempo le suore-infermiere provvedevano a tutto, pure a lavare i pavimenti dei lunghi corridoi, durante il turno della notte.
Erano tutte consapevoli di recarsi in un ambiente ad altissimo rischio. E infatti delle centinaia che hanno accettato  e hanno servito lì, circa 40 hanno contratto la Tbc morendone (32 di loro sono decedute in età compresa fra 25 e 35 anni).
Si trattava di una morte dolorosa e drammatica. Erano giovani suore e oblate.
Nella convenzione che fu stipulata l’amministrazione degli ospedali, considerata la pericolosità della missione, si impegnava, fra l’altro, a “concedere visite mediche” e, in caso di contagio, a “fornire loro i medicinali e in caso di morte un modesto funerale”.
Oltretutto il loro lavoro fu reso molto duro dal fatto che i degenti erano in gran parte giovani e il clima spesso turbolento. Le proteste per il cibo erano all’ordine del giorno, perfino per il fatto che il personale addetto all’igiene dei letti e della biancheria si proteggeva con una mascherina (a quel tempo non esistevano lavatrici ed elettrodomestici).
Negli anni Quaranta e Cinquanta il clima era surriscaldato anche per motivi politici (si formò pure una “Commissione degenti”). Le suore dovevano moltiplicare i loro sforzi per mantenere un clima sereno, mentre soccorrevano i malati in tutte le loro sofferenze.
Il dottor Gaetano Rossini che lì lavorò e le vide all’opera ha lasciato scritto in una memoria conservata negli archivi:
“non meno grave era la emottisi,  specie se soffocante, scioccante non solo per il malato, ma anche per chi doveva assistere e provvedere con gli scarsissimi mezzi disponibili. Terribile a vedersi e molto di più ‘intervenire’.
In quei momenti mi veniva di pensare: ‘oh sante suore, quale amore vi tiene inchiodate a quel letto di sofferenza inesprimibile pur di aiutare, salvare quel ‘prossimo’ che forse in altri momenti era stato poco riguardoso o indisciplinato!.
Le Suore non tenevano davvero conto del rischio personale o interesse umano alcuno; quante di loro riposano nel cimitero di Castelletto perché avevano contratto la malattia nell’adempimento del loro servizio”.
Quale amore, si chiede il dottor Rossini? Suor Arcangela Casarotti risponde: “Le suore inviate al ‘Pizzardi’ di Bologna avevano ben scolpito nella mente l’insegnamento dei Fondatori: ‘Se nei casi di epidemia… fosse necessario mettere in pericolo anche la vita, io mi immagino che anche al presente, com’è successo in altri tempi, le Suore del nostro istituto andrebbero a gara per offrirsi vittime della carità. Memori delle parole del Divino Maestro: Non v’è maggior carità che di dare la vita per i propri fratelli’ ”.
Le suore aiutavano centinaia di malati, perlopiù giovani, non solo nelle loro sofferenze fisiche, ma anche in quelle morali. Li aiutavano a non lasciarsi andare alla disperazione di una malattia gravissima e di una degenza molto lunga (talora vi furono suicidi).
Suor Arcangela sulla rivista dell’ordine ha pubblicato qualche memoria dei malati di allora. Liliana per esempio scrive:
“Ho passato tre anni molto belli al Pizzardi pur essendo lontano dalla famiglia perché ero ammalata. Le suore con noi malati avevano un rapporto molto familiare. Esse cercavano in ogni modo di aiutarci a mangiare e di alleviare le sofferenze. Quante volte le ho viste piangere di nascosto per le condizioni gravi dei malati! Io credo che la medicina fece molto per curarmi, ma molto contribuirono anche le parole di conforto e di incoraggiamento delle suore nei momenti più tristi”.
Fra i malati vi furono suore che testimoniarono l’ardore di quel loro Amore fino all’incredibile. Come suor Maria Rosa Pellesi, Francescana Missionaria di Cristo, che trascorse 27 anni in sanatorio di cui 24 proprio al Pizzardi, morta in fama di santità e oggi dichiarata “Serva di Dio”.
Dice il dottor Rossini: “fu, a mio modo di vedere, un miracolo vivente perché non aveva un organo sano, la tubercolosi aveva devastato il suo corpo. Svolse la sua missione in offerta a Dio per il bene di tutti gli uomini”.
La eroiche suore del Pizzardi appartengono all’ordine fondato da don Giuseppe Nascimbeni e da suor Maria Domenica Mantovani (entrambi beati), sono le Piccole Suore della Sacra Famiglia. che negli ospedali bolognesi hanno svolto un lavoro eccezionale e tuttora gestiscono la “Casa di Cura Madre Toniolo”.
Nessuno ha raccontato al mondo la storia delle suore martiri del Pizzardi e ne ha celebrato la grandezza. Di loro ho trovato qualche notizie solo in pubblicazioni dell’ordine e qualche rapido cenno in volumi celebrativi, a ristretta diffusione.  
Forse perché, essendo suore, appartenevano – secondo i nostri criteri mondani – a una categoria umana di serie B? O a una categoria che è tenuta a sacrificare la propria vita per noi?  
A volte, a considerare come il mondo tratta i cristiani, viene in mente la frase di san Paolo: “Siamo la spazzatura del mondo”.
Probabilmente anche in altre città e altri ospedali vi sono state simili storie di eroica carità cristiana che aspettano di essere conosciute.
Perché la presenza della suore e più ampiamente la presenza della Chiesa accanto ai sofferenti, per portare loro la carezza del Nazareno e per alleviare i loro dolori, è una storia immensa e tuttora misconosciuta.
Eppure parla, anzi grida più di tante parole. Annuncia al mondo quello che ogni essere umano cerca e aspetta: un amore incondizionato, gratuito e totale. Come dice una nota preghiera: “Tutta la terra desidera il Tuo volto”.

Antonio Socci

Da “Libero”, 3 ottobre 2010

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domenica, 26 settembre 2010

Che Cristo ci tenda la mano…

24 settembre 2010 / In Articoli
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Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, continua a essere una realtà illusoria da cui non riesco a liberarmi?”.
Questo è il grido lanciato da Antonius Block, il cavaliere medievale protagonista del celebre film di Ingmar Bergman, “Il settimo sigillo”. E’ il cavaliere la cui condizione esistenziale sta tutta in quella famosa partita a scacchi con la Morte, giocata in riva al mare, per protrarre la sua vita.
La sua disillusione e la sua angoscia, al ritorno dalle crociate, quindi con un passato cristiano alle spalle (Bergman era figlio di un pastore protestante), sono il perfetto ritratto della condizione dei moderni che hanno spazzato via Dio dal mondo e dalla loro vita, ma che non riescono a sradicarlo da se stessi perché il bisogno di Lui, il desiderio di infinito, di eternità, di significato, di amore – cioè il desiderio di Dio – grida nelle proprie stesse carni, nel profondo del cuore, nell’anima che si sente orfana.
Proprio queste parole vengono in mente di fronte a quanto è successo in Gran Bretagna durante la visita di Benedetto XVI. “Un evento storico”. Così ieri il Papa ha commentato con entusiasmo il suo recente viaggio.
Ratzinger non è tipo che usa le parole a vanvera. Non intendeva usare un’espressione enfatica per esaltare semplicemente il significato storico della visita del Pontefice romano nel Paese più laico d’Europa, il più storicamente “antipapista”.
Ha spiegato che è stato un evento storico anzitutto perché ha rovesciato tutte le previsioni. Tutti avevano annunciato che il Successore di Pietro sarebbe stato accolto da ostilità laica, contestazioni, gelo anglicano, formalismo delle autorità e indifferenza della gente comune.
Invece è accaduto l’opposto e perfino i giornali britannici, solitamente acidi con la Chiesa di Roma hanno riconosciuto di essersi sbagliati e hanno sottolineato la sorpresa che è stata la scoperta di questo Papa, umile, buono e sapiente. In fin dei conti hanno ammesso il grande fascino del cattolicesimo che parla loro dalle proprie stesse radici, dai secoli della loro grande storia cattolica.
Infatti ieri, il Papa, all’udienza del mercoledì, ha detto: “nelle quattro intense e bellissime giornate trascorse in quella nobile terra ho avuto la grande gioia di parlare al cuore degli abitanti del Regno Unito, ed essi hanno parlato al mio, specialmente con la loro presenza e con la testimonianza della loro fede. Ho potuto infatti constatare quanto l’eredità cristiana sia ancora forte e tuttora attiva in ogni strato della vita sociale. Il cuore dei britannici e la loro esistenza sono aperti alla realtà di Dio e vi sono numerose espressioni di religiosità che questa mia visita ha posto ancora più in evidenza”.
Poi è sceso nel dettaglio per sottolineare come tutti abbiano accolto con “grande calore ed entusiasmo” lui e ciò che rappresenta: dalle autorità agli esponenti delle altre confessioni, dai giovani a tanta gente comune.
Ha concluso: “Nel rivolgermi ai cittadini di quel Paese, crocevia della cultura e dell’economia mondiale, ho tenuto presente l’intero Occidente, dialogando con le ragioni di questa civiltà e comunicando l’intramontabile novità del Vangelo, di cui essa è impregnata. Questo viaggio apostolico ha confermato in me una profonda convinzione: le antiche nazioni dell’Europa hanno un’anima cristiana, che costituisce un tutt’uno col ‘genio’ e la storia dei rispettivi popoli, e la Chiesa non cessa di lavorare per mantenere continuamente desta questa tradizione spirituale e culturale”.
 Dunque non si tratta solo dell’inestirpabile e generico desiderio di Dio, che grida in tutti gli esseri umani anche nel secolo che ha preteso di uccidere Dio. Ma è proprio l’antica anima cristiana, un’attesa di Cristo vivo, quella che si agita nel cuore dei popoli europei, degli uomini e delle donne del nostro tempo (perfino in tanti intellettuali che si proclamano laici).
Perché quando si è conosciuto Gesù Cristo – e chiunque sia nato in Europa ne ha visto il volto per il fatto stesso di essere stato battezzato – quando si è vista la luce, in qualunque notte poi ci ritroviamo la nostalgia di quella Luce non si estirpa più. Prima o poi ti riprende perché col battesimo gli apparteniamo.
Come racconta un grande scrittore cattolico inglese, Graham Greene nel romanzo “La fine dell’avventura”, una storia d’amore ambientata nella Londra devastata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale (è stato ristampato ora col titolo “Fine di una storia”).
Una storia che fa vedere come Gesù Cristo non si lascia rapire nessuno che gli sia stato dato nelle mani.
Il Papa in Gran Bretagna ha parlato di questa nostalgia di un amore perduto, dell’Amore perduto. A questa nostalgia cristiana, a questo desiderio della grazia, del rivelarsi di Dio nella carne della vita quotidiana, Bergman di nuovo dava espressione in quel film con queste parole del cavaliere: “il mio cuore è vuoto. Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura”.
Questa esperienza di sé diventa domanda, grido, preghiera che il Salvatore gli si faccia tangibilmente incontro: “E’ così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e di miracoli che nessuno ha visto? (…). Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli” (Antonius Blok).
E’ precisamente questo Dio che si è fatto uomo e tende la mano a ciascuno di noi, è questa la notizia che Benedetto XVI è andato a far conoscere: “Il Verbo si è fatto carne ed abita in mezzo a noi” (Gv 1,14).
Con umiltà – come ha sottolineato il papa – risuona nel mondo questo annuncio: “ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…), noi lo annunziamo anche a voi” (1Gv 1-3).
Il risuonare di questa notizia, nella laica Londra, “la città preda del tempo”, ha commosso i cuori. E’ un segno di tempi nuovi?

Antonio Socci

da “Libero” 24 settembre 2010

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sabato, 11 settembre 2010

L'etimologia della parola amore
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Mi piace credere , come qualcuno ha scritto, che l'etimologia della parola amore dal latino amor, rimandi ad "a -mors" che significa "senza morte", immortale.
Antonio Socci dal libro Caterina ed.  Rizzoli

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socci, amore


NON TEMERE IO SONO CON TE
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"La stessa Sacra Scrittura contiene una cosa ancora più accorata e potente: la risposta di Dio stesso ai figli che soffrono e lo invocano. Mi dicono che nella Bibbia, per ben 366 volte ( si direbbe una volta al giorno, compresi i bisestili), Dio ripete all'uomo  che si affida a Lui :
dal libro di Antonio Socci: Caterina ed. Rizzoli

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venerdì, 10 settembre 2010

Salvata Sakineh, ma lapidato il Medioevo

9 settembre 2010 / In Articoli
C’è un diritto all’ignoranza, ma per la povera gente che non ha potuto studiare, non per i premi Nobel, né per i “maestri del pensiero” che pontificano dalle prime pagine dei giornali prendendo topiche imbarazzanti.
Non si può far la guerra al pregiudizio usando i pregiudizi (più sciocchi), non si può combattere l’oscurantismo esibendo la più crassa ignoranza.
Tanto meno per una causa nobile come la salvezza definitiva della povera Sakineh, la ragazza iraniana dallo sguardo dolce e triste, di cui ieri è stata sospesa la lapidazione.
A cosa mi riferisco? Alla prima pagina della Repubblica di ieri. Che, sotto il titolo “L’appello dei Nobel ‘Salvate Sakineh’ ” riportava, in caratteri grandi, questo testuale virgolettato: “Fermiamo l’orrore sul corpo di quella donna. La lapidazione è medievale, una punizione che non esiste nel Corano”.
Assurdità
Mi sono stropicciato gli occhi e ho riletto: “la lapidazione è medievale”. Sotto questa colossale baggianata, riprodotta fra virgolette e in caratteri grandi, la Repubblica ha riportato i nomi dei Premi Nobel Shirin Ebadi, Luc Montagnier, Rita Levi Montalcini, Harald Zur Hausen, Claude Cohen-Tannoudji e Gerhard Ertl.
Ma dall’articolo si evince che la frase è dell’avvocatessa iraniana, premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi che ha testualmente detto: “La lapidazione è una forma di punizione medievale che non esiste sul Corano”.
Lasciamo perdere la seconda parte della frase (“una punizione che non esiste nel Corano”), anche se sospetto che i mullah di Teheran conoscano ciò che dicono il Corano e gli altri testi normativi dell’Islam meglio di noi.
La cosa che mi ha fatto sobbalzare è quell’altra, perché è platealmente falsa: “la lapidazione è medievale”. Non so se la Ebadi intendeva parlare del “Medioevo islamico”, ne dubito perché altrimenti avrebbe dovuto dirlo.
In ogni caso, siccome la Repubblica non esce in Iran, ma in Italia, siccome ha scritto Medioevo tout-court (senza l’aggettivo islamico), siccome questa è la definizione dell’epoca cristiana data dall’Illuminismo e siccome è tipico della cultura europea post-illuminista attribuire al Medioevo cristiano ogni turpitudine, è naturale intendere il “proclama” che ieri stava sulla prima pagina di Repubblica come un anatema contro il Medioevo per antonomasia, il nostro Medioevo.
E allora qui c’è da trasecolare. Quando mai nel Medioevo si sono lapidate le presunte donne adultere? Per scrupolo professionale ho voluto consultare un medievista a 24 carati come Franco Cardini che, ovviamente, ha negato che nel Medioevo i cristiani lapidassero le donne ritenute adultere.
Anzi. La celeberrima pagina del Vangelo in cui Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, prevista dalla legge ebraica di quel tempo, ha segnato una svolta storica. La pietà e il perdono di Dio irrompono nel mondo e lo ricreano.
Gesù liberatore delle donne
Quella pagina è una pietra miliare perché rappresenta in modo drammatico tutta la novità portata da Gesù rispetto all’antica Legge. E’ una rivoluzione che lui dovrà pagare con la vita.
Gesù mostra al mondo la struggente tenerezza di Dio verso i peccatori, rivela il “Padre misericordioso” che corre incontro al figlio scialacquatore pentito e lo riempie di abbracci e onori.
Gesù pronuncia parole durissime proprio contro quelli che si ritengono “perbene”, contro chi pretende di non essere peccatore, di non aver bisogno di perdono e di aver diritto di lapidare gli altri.
Questi “maestri della legge” vengono da lui chiamati “ipocriti” e “sepolcri imbiancati”. Gesù tuona: “Serpenti, razza di vipere! Come potrete evitare i castighi dell’inferno?” (Matteo 23, 4 e sgg). Gesù dice loro provocatoriamente: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno dei cieli” (Mt 21, 31).
Dopo Gesù il mondo non è più lo stesso. Finisce anche l’orrore della schiavitù femminile. Non si uccide più una donna per un suo presunto peccato. Era un orrore che accomunava tutte le civiltà antiche: nella Roma imperiale, patria del diritto, una donna poteva essere ammazzata dal marito o anche dal suocero perfino per motivi futili, come aver bevuto del vino.
Eva Cantarella, nel suo libro “Passato prossimo”, spiega che su una figlia il padre ha diritto di vita o di morte (Ponzio Aufidiano per esempio uccise la figlia innocente quando scoprì che era stata violentata).
E ovviamente il marito può uccidere la moglie in caso di adulterio di lei. Ma non viceversa. Catone diceva: “se sorprendi tua moglie mentre commette adulterio, puoi ucciderla impunemente; se lei sorprende te invece non può toccarti nemmeno con un dito”.
Era pratica sociale accettata la soppressione o l’abbandono delle figlie femmine o anche il cedere la propria moglie come Catone che dette Marzia all’amico Ortensio (anche Ottaviano si fece cedere Livia dal marito).
Con il cristianesimo inizia l’unica, vera e duratura rivoluzione per le donne. E’ con Gesù, letteralmente con la sua venuta, che la donna acquista una dignità che non aveva mai avuto e che, anche giuridicamente, è pari all’uomo. E la più alta fra le creature sarà la Madonna.
Ricordo che perfino Roberto Benigni, nelle sue letture della Commedia dantesca, commentando il XXXIII del Paradiso, che inizia con la celebre preghiera alla Vergine, diceva: “la donna ha cominciato ad avere la possibilità di dire ‘sì’ o ‘no’ da quando Dio stesso ha chiesto a Maria di Nazaret il suo libero sì o no”.
Il medioevo è la prima, grande fioritura della civiltà cristiana ed è finalmente l’epoca della storia in cui non si è più potuto lapidare la donna adultera, né considerare la donna un oggetto su cui esercitare diritto di vita o di morte.
Qualcuno obietterà: ma come, stiamo dandoci da fare per salvare una povera donna dalla barbara lapidazione e tu pianti una grana in difesa del Medioevo. Sì. Perché in definitiva la salvezza delle tante Sakineh sta solo nella novità portata dal cristianesimo. Come è stato per l’Europa.
E’ vero quindi l’esatto contrario di quanto proclamato dalla prima pagina di Repubblica. Proprio il Medioevo segna, nella storia mondiale, la fine di quell’orrore. La Ebadi avrebbe dovuto dire: purtroppo non siamo al Medioevo cristiano.
Ovviamente non è che il Medioevo sia stato pieno solo di santi: gli uomini continuavano a essere peccatori e barbari. Ma si era invertito il corso della storia che andava verso la sopraffazione e la violenza sistematica sui deboli, i vecchi, i malati, i bambini e le donne. Il Medioevo avrà avuto i suoi difetti, ma non lapidava le donne.
Umberto Eco, che è una firma autorevole di Repubblica ed è un appassionato di quell’epoca potrebbe spiegarlo in un attimo alla redazione di quel giornale. Perché è incredibile che il quotidiano più diffuso, un giornale importante come Repubblica cada in questo colossale errore.
Pregiudizi
Come può accadere? Mi dice Cardini: “perché sui media ci sono cose di cui si può parlare male impunemente: il Medioevo è una di queste. E lo si fa per parlar male del cristianesimo su cui tutti si sentono in diritto di sputare”.
C’è un meraviglioso libro della medievista francese Régine Pernoud, pubblicato da Bompiani, “Medioevo. Un secolare pregiudizio”, che demolisce proprio i tanti luoghi comuni calunniosi che dal Settecento sono stati ingiustamente diffusi sul Medioevo. Basati su falsità e ignoranza.
L’ignoranza, il preconcetto nutrito di luoghi comuni, la scarsa conoscenza della storia sono tutti ingredienti di quel, più ampio, planetario pregiudizio anticristiano, anzi “pregiudizio anticattolico”, che il sociologo Philip Jenkins, in un suo libro, ha definito “l’unico pregiudizio ammesso”.
In effetti l’epoca del “politically correct”, che ha messo al bando tutti i pregiudizi basati sull’appartenenza etnica, religiosa, sessuale o sociale, ammette solo quello contro la Chiesa cattolica.
Sulla Chiesa e sui cattolici di oggi e di ieri si possono impunemente sparare sentenze di condanna morale e culturale, immotivate e ingiuste.

Antonio Socci
Da “Libero” 9 settembre 2010

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martedì, 07 settembre 2010

Mio padre minatore e Napolitano

6 settembre 2010 / In Articoli
Napolitano come autorità morale della nazione? Non mi piace l’idea che viene prospettata sempre più spesso da giornali e sondaggi e vagheggiata implicitamente pure dal cardinal Bagnasco, a proposito della vicenda di Melfi.    
Napolitano è un funzionario dello Stato, il primo in quanto presidente della Repubblica. Mi auguro che faccia quel rispettabile mestiere in modo super partes, come un notaio, non come lo sta facendo adesso, vistosamente impegnato a tessere delle sue politiche (per esempio verso la Lega) con modi ovattati e furbi che ricordano la sua precedente vita nel Pci di Togliatti.
Riconosco che certe volte si è mostrato super partes e non mi pare che sia, dal punto di vista caratteriale, livoroso e ampolloso come il pessimo predecessore Scalfaro. A differenza di costui, Napolitano, essendo ateo, non si ritiene il padreterno. E’ già qualcosa.
Ma quanto a “padri della patria” e autorità morali, se permettete, guardo altrove. A Napolitano personalmente preferisco il suo opposto speculare: mio padre, Silvano, che ha passato tutta la vita a “combattere i Napolitano”.
I due hanno fatto una vita antitetica. Sono nati entrambi nel 1925. Napolitano in una famiglia benestante che lo ha fatto studiare, mio padre in una famiglia di minatori, che a nove anni gli ha fatto lasciare le elementari e lo ha mandato a guadagnarsi il pane.
Nel 1938-39, a 14 anni, Napolitano fu iscritto al liceo classico Umberto I di Napoli e mio padre alle miniere di carbone di Castellina in Chianti.
Nel 1942 Napolitano entrava all’università, facoltà di Giurisprudenza, e mio padre, desideroso di studiare, usava il poco tempo fuori della miniera leggendo  i libri datigli dal parroco del paese.
In questi anni di guerra Napolitano si iscrive al Guf, il Gruppo universitario fascista, collaborando col settimanale “IX Maggio”. Mentre mio padre approfondisce la sua fede cattolica e comincia a detestare la barbarie della guerra, l’ingiustizia che vede attorno a sé e le dittature.
Nel 1945 Napolitano aderisce al Partito Comunista italiano e mio padre prende contatto con la Democrazia cristiana. Nel 1947 Napolitano si laurea e partecipa alle epiche elezioni del 1948, a Napoli, come dirigente del Pci di cui Togliatti è il “commissario” e Stalin il padrone indiscusso.
Mio padre vive quelle elezioni – decisive per il futuro e la libertà dell’Italia – facendo campagna elettorale per la Dc nella terra più rossa d’Italia, prendendosi insulti e minacce (che per fortuna rimangono tali dal momento che a vincere è la Dc).
Nel 1953 Napolitano viene eletto deputato del Pci e come tutti i dirigenti comunisti che non hanno mai lavorato un giorno in una fabbrica, in un campo o in una miniera pretende di rappresentare i lavoratori italiani e di parlare a nome loro.
Nello stesso anno mio padre, che lavoratore lo era, in un incidente di miniera subisce l’amputazione di una mano e rischia di morire dissanguato (salvato solo dal gelo della notte invernale che ghiacciò il sangue e lo fermò).
In quel 1953 morì Stalin. Il più sanguinario e longevo dei tiranni aveva soggiogato con i carri armati metà Europa e minacciava pure l’Italia, ma il Pci lo faceva venerare alle masse come il più grande benefattore dell’umanità.
Il giorno dopo la sua morte, infatti, il 6 marzo 1953, “l’Unità” uscì con questa monumentale prima pagina: “Stalin è morto. Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”.
Seguivano pagine e pagine di encomi adoranti. Mio padre che già nel 1950 era riuscito a procurarsi una copia di “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler, cercava di spiegare la verità su questo bestiale tiranno a tanti suoi compagni di lavoro, imbrogliati dalla propaganda del Pci, partito complice di Stalin e propalatore in Occidente dalle sue stomachevoli menzogne.
Fior di intellettuali e politici che in quei decenni avevano tutti i mezzi per riconoscere cos’era il comunismo e denunciarne gli abomini  (anche perché si recavano in Urss) si rifiutarono di farlo, continuando a prendersi gioco di milioni di lavoratori, a farsi beffe della loro povertà, dei loro sogni, nutrendoli di odio e di un’ideologia violenta che rubava loro perfino l’anima: la fede in Dio.
Nel 1956 i carri armati sovietici schiacciarono nel sangue il moto di libertà dell’Ungheria. Il Pci e l’Unità applaudirono i cingolati del tiranno e condannarono gli operai che chiedevano pane e libertà come “controrivoluzionari”, “teppisti” e “spregevoli provocatori”.
Napolitano – che era appena diventato membro del Comitato centrale del Pci per volere di Togliatti – mentre i cannoni sovietici sparavano fece questa solenne e memorabile dichiarazione: “L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Passano gli anni e Napolitano diventa uno dei leader più importanti del Pci, mentre l’Urss delle mummie di Breznev continua a soffocare la libertà dovunque, dalla Polonia alla Cecoslovacchia, dal Sud est asiatico all’Africa, all’Afghanistan.
Mio padre, che alla mia nascita era disoccupato per la chiusura delle miniere ed era passato a fare un altro lavoro operaio, dedicherà molte energie alla militanza politica (nella Dc contro il Pci), alla militanza sindacale e alle opere di solidarietà cattoliche, ma anche alla letteratura e alla pittura.
Da lui, negli anni Settanta, a 14 anni, ho imparato i fondamentali della politica. E quello che fa un uomo degno di questo nome. Scoppia il caso Solzenicyn e leggo un suo pamphlet “Vivere senza menzogna” e poi “Arcipelago Gulag”. Mio padre me lo indica come un uomo vero.
Al liceo che frequento, pieno di figli di papà di estrema sinistra, lo chiamano invece “fascista”. Per il Pci è un reazionario.  Napolitano sull’Unità definisce “aberranti” i giudizi politici del dissidente russo e spiega che esiliarlo era la “soluzione migliore”.
Di errore in errore il Pci di Napolitano continua a professarsi comunista fino a farsi crollare il Muro di Berlino in testa nel 1989. In un Paese normale quando quell’orrore  è sprofondato nella vergogna e il Pci ha dovuto frettolosamente cambiar nome e casacca, tutta la vecchia classe dirigente che aveva condiviso con Togliatti e Longo la complicità con Stalin e l’Urss, avrebbe dovuto scegliere la via dei giardinetti e della pensione. Anche per l’età ormai avanzata.
In Italia accade il contrario. Avendo sbagliato tutto, per tutta la sua vita politica, Napolitano diventa Presidente della Camera nel 1992, ministro dell’Interno con Prodi, senatore a vita nel 2005 grazie a Ciampi e nel 2006 addirittura Presidente della Repubblica italiana.
Mio padre muore nel 2007, in una casa modesta, a causa della miniera che gli ha riempito i polmoni di polvere di carbone che, a distanza di decenni, lo porta a non poter più respirare.
Mio padre fa parte di quegli uomini a cui si deve la nostra libertà e il nostro benessere, ma la loro morte – come scriveva Eliot – non viene segnalata dai giornali.
Gli onori invece vanno a coloro che vengono da quel comunismo che per anni ha minacciato la nostra libertà. Sono questo tipo di uomini a essere considerati autorità morali e padri della nazione.
L’Italia ha avuto il più forte e pericoloso Pc d’Occidente, che è stato una delle grandi sciagure della nostra storia. Ma ancora oggi sembra non si possa dire.
Napolitano è il primo Capo dello Stato proveniente dal Pci. E l’Italia è l’unico Paese dell’Occidente ad aver fatto una scelta simile. Del resto assai contrastata. Infatti fu eletto da metà parlamento, che rappresentava una minoranza degli italiani.
All’inizio sembrò tenerlo presente e guadagnò consenso tenendosi super partes. Oggi assai meno. Il protagonismo politico di Napolitano si fa sempre più evidente. E arrivano anche sermoni moraleggianti e richiami da padre della Patria.
Vorrei dirgli: no grazie, ce li risparmi. Abbiamo altri padri.

Antonio Socci

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lunedì, 28 giugno 2010

Attaccano il Papa perché segue Gesù

27 giugno 2010 / In Articoli
 
Uno dei più acuti osservatori, leader intellettuale dei cosiddetti ratzingeriani, Giuliano Ferrara, con doverosa autoironia, giorni fa, ha amabilmente rimproverato il pontefice di essere “fuori linea”, sulla storia dei preti pedofili, per (a suo avviso) eccessiva arrendevolezza.
Poi il direttore del Foglio è tornato a lanciare l’allarme.
Ha scritto infatti che “le autorità ecclesiastiche responsabili e i laici liberali, che dovrebbero avere a cuore la libertà della Chiesa (come pegno generale delle autonomie civili), non vogliono capire che la ‘trasparenza’, cioè la resa senza condizioni alla ossessiva campagna secolarista sulla pedofilia del clero, genera le condizioni per un vulnus simbolico drammatico nel corpo dell’istituzione”.
Ferrara ritiene che dal Belgio sia arrivata la conferma di questa sua tesi. Là infatti sono giunti fino a perquisire la casa del cardinale Daneels, primate emerito accusato “di non aver denunciato per tempo il vescovo di Bruges dimissionario a gennaio con l’accusa di abusi su minori”.
Nelle stesse ore addirittura “le tombe di uno dei padri teologici del Concilio Vaticano II, Léon-Joseph Suenens, e dell’arcivescovo Joseph- Ernest Van Roey, sono state sventrate con il martello pneumatico alla ricerca di chissà quali documenti inquisitori”.
Ferrara ha ragione quando denuncia questi eccessi inauditi, ma non sono d’accordo che essi trovino cittadinanza per l’atteggiamento (a suo avviso) rinunciatario del Pontefice.
Al contrario, è proprio la limpidissima scelta del papa per la trasparenza e per la pulizia nella Chiesa che fa apparire gli atti dell’inquisizione belga in tutta la loro ingiustificata assurdità.
Peraltro proprio l’accorato schierarsi di Pietro dalla parte delle vittime ha fatto ammutolire le campagne più anticlericali, inducendo anche giornali estremamente polemici come il New York Times a “togliersi il cappello” di fronte al coraggio del Santo Padre.
Il Papa è l’unico che non abbia parlato di complotti, ma anzi che abbia definito una “grazia” questa provvidenziale tempesta mediatica la quale impone una purificazione alla Chiesa.
Bisogna riconoscere che quello che sta dicendo e facendo è così alto e profetico che lo stesso mondo clericale non capisce e fa resistenza. Ratzinger ha spiazzato sia i ratzingeriani che gli avversari.
Ha capovolto il vecchio e sciocco stereotipo del “panzerkardinal”. E ha mostrato a tutti la grandezza e la forza dell’umiltà. Ha fatto vedere cos’è un padre che sa piangere con i suoi figli violati e sofferenti, abbracciandoli a nome del Nazareno.
Ha spiazzato anche l’idea che del suo pontificato si erano fatti Ferrara e tanti altri, secondo cui egli sarebbe il Nemico del relativismo che corrode e dissolve l’Occidente e capeggerebbe una Chiesa virilmente identitaria capace di far ritrovare all’Occidente solide radici ideologiche.
A mio avviso basta aver letto i libri del cardinal Ratzinger e tanto più i testi di papa Ratzinger per capire che era un’idea infondata. Ma il problema non è anzitutto culturale.
Il “fattore” che Ferrara elude (ovviamente ne ha tutto il diritto) e che per Benedetto XVI invece è determinante, totalmente decisivo, non è culturale: si chiama Gesù Cristo. La sua presenza viva.
E’ Lui che spiega tutto, che fa comprendere tutte le scelte di papa Ratzinger, tutto quello che dice e che fa. Senza considerare Lui si rischia di fraintendere completamente questo pontificato.
Perché, infatti, un simpatizzante come Ferrara può arrivare a vedere nella posizione del Papa addirittura una “resa senza condizioni alla ossessiva campagna secolarista sulla pedofilia del clero” ?
Esattamente per questo. Perché per Ferrara la battaglia si combatte al cospetto dell’opinione pubblica ed ha come oggetto la reputazione della Chiesa, mentre per papa Ratzinger si è al cospetto di Gesù Cristo, unico giudice, e il contenuto della discussione è la verità.
Se si toglie di mezzo Gesù Cristo – e mi pare l’idea di Ferrara – la Chiesa diventa una realtà umana antica e nobilissima, da millenni civilizzatrice, depositaria di valori e identità, e non può farsi processare – per un numero limitatissimo di colpe di suoi esponenti – da un mondo moderno che sprofonda nella depravazione e nell’amoralità.
Ma Benedetto XVI rifiuta radicalmente una simile riduzione. La Chiesa non è la somma dei suoi membri, né dei suoi meriti storici, non è un insieme di antichi e nobili valori umani, né è al mondo per rivendicare la sua reputazione.
La Chiesa è definita soltanto dalla misteriosa presenza di Gesù, presenza vera e operante, fra i suoi. Davanti a Lui, il santo, tutti noi cristiani siamo come panni luridi. E’ Lui e solo Lui che la Chiesa indica, Lui è la salvezza degli uomini, Lui la pace e la felicità. La Chiesa esiste solo per indicare al mondo il suo volto.
Cosicché la Chiesa è l’unica realtà che – diversamente da partiti, da stati, da qualunque altra associazione umana – non ha bisogno di esaltare la propria reputazione, perché, pur avendo al suo interno tanta santità, non predica se stessa, non vuol convincere di aver ragione.
E’ l’innamorata di Lui ed esalta solo Lui.
Infatti la Chiesa è entrata nel mondo con quattro Evangeli nei quali i pilastri della Chiesa stessa, gli apostoli, venivano rappresentati in tutta la loro miseria umana, meschinità e perfino nei loro peccati e crimini.
Com’è stato osservato pure da nemici della Chiesa, nessuno che abbia voluto fondare una religione o un partito o uno stato, ha mai fatto una cosa simile. Sarebbe stata un’autodelegittimazione assai prossima al suicidio.
Solo la Chiesa ha potuto farlo. Sebbene quegli apostoli, in realtà, siano diventati poi autentici eroi, morendo inermi come martiri.
Solo la Chiesa, sul finire del XX secolo che aveva visto i cristiani vittime (a milioni) di tutti i diversi regimi, a tutte le latitudini, con Giovanni Paolo II ha varcato il millennio non con un atto d’accusa, ma al contrario con un “mea culpa”.
Solo la Chiesa – che pure aveva tutti i diritti di puntare il dito su ideologie e partiti – ha saputo chiedere perdono. Mentre non lo hanno fatto i carnefici. E’ un segno di debolezza e cedevolezza o di (umanamente) inspiegabile forza?
Solo la Chiesa può porre la verità al di sopra dell’interesse di fazione e quindi non averne paura neanche quando è dolorosa e umiliante. Come nel caso dei preti pedofili. Neanche quando fa scandalo: “oportet ut scandala eveniant”, disse Gesù, Signore della storia.
La Chiesa non si difende con la menzogna. Così semmai la si distrugge. Immaginare che Dio abbia bisogno delle nostre menzogne per salvaguardare la sua opera è un sacrilegio.
La Santa Chiesa, spiega il Papa, non è una cosca mafiosa che vive sull’omertà. Le menzogne servono solo ai colpevoli che non vogliono emendarsi o a coloro che vogliono salvaguardare un potere terreno. La Chiesa invece vive della verità. E la verità non fa calcoli di convenienza.
La menzogna rende ricattabili. “La verità vi farà liberi”, ha detto Colui che è la verità fatta carne.
Il mondo dice invece “la verità vi farà deboli”. Ma quello che il mondo non capisce, per il Papa, è che  “la debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Duemila anni fa aspettavano un giustiziere, un sovrano forte che avrebbe assoggettato il mondo. Ed è nato un bambino inerme.
Poi, diventato grande, perfino gli apostoli pensavano che Gesù sarebbe diventato re. E lui ha scelto invece il trono della croce e la corona di spine. Perché – ha spiegato Benedetto XVI – ha voluto salvare il mondo non con la forza, ma con l’amore. L’amore è più forte di tutto.
E’ per lui, vittima salvatrice, che il papa ha fatto capire a tutti, anzitutto agli ecclesiastici, che le vittime di preti pedofili non sono avversari, ma sono il volto di Cristo crocifisso.
Sono la Chiesa perseguitata. Mentre i persecutori della Chiesa sono semmai i loro violentatori. Tutto questo è grandioso e commovente. E’ divino.

Antonio Socci

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benedettoxvi, socci

giovedì, 17 giugno 2010
Preghiamo per Caterina la figlia di Antonio Socci



Ojos de cielo
Si yo miro el fondo de tus ojos tiernos
se me borra el mundo con todo su infierno.
Se me borra el mundo y descubro el cielo
cuando me zambullo en tus ojos tiernos. 
Ojos de cielo, ojos de cielo,
no me abandones en pleno vuelo.
Ojos de cielo, ojos de cielo,
toda mi vida por este sueño.
Ojos de cielo, ojos de cielo…
Ojos de cielo, ojos de cielo… 
Si yo me olvidara de lo verdadero,
si yo me alejara de lo más sincero,
tus ojos de cielo me lo recordaran,
si yo me alejara de lo verdadero. 
Ojos de cielo, ojos de cielo,
no me abandones en pleno vuelo.
Ojos de cielo, ojos de cielo,
toda mi vida por este sueño.
Ojos de cielo, ojos de cielo…
Ojos de cielo, ojos de cielo… 
Si el sol que me alumbra se apagara un día
y una noche oscura ganara mi vida,
tus ojos de cielo me iluminarían,
tus ojos sinceros, mi camino y guía. 
Ojos de cielo, ojos de cielo,
no me abandones en pleno vuelo.
Ojos de cielo, ojos de cielo,
toda mi vida por este sueño.
Ojos de cielo, ojos de cielo…
Ojos de cielo, ojos de cielo…

Traduzione

Occhi di cielo

Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri
mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno.
Mi si cancella il mondo e scopro il cielo
quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri.
Occhi di cielo, occhi di cielo,
non abbandonarmi in pieno volo.
Occhi di cielo, occhi di cielo,
tutta la mia vita per questo sogno…
Se io mi dimenticassi di ciò che è vero
se io mi allontanassi da ciò  che è sincero
i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,
se io mi allontanassi dal vero.
Occhi di cielo..
Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse
e una notte buia vincesse sulla mia vita,
i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,
i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida.
Occhi di cielo…


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canti, socci

giovedì, 20 maggio 2010

E'Gesù Cristo che ha dato sacralità ai  bambini
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Nell’antichità, prima dell’arrivo del cristianesimo, era possibile qualsiasi perversione o abuso, fino a estremi criminali, anche sull’infanzia.
Svetonio – per dire – racconta che Nerone, “oltre al commercio con ragazzi liberi e al concubinato con donne maritate… dopo aver fatto tagliare i testicoli al ragazzo Sporo, cercò anche di mutarlo in donna, e se lo fece condurre in pompa magna, come nelle cerimonie nuziali solenni, e lo considerò come moglie legittima”.
Al di là del “caso Nerone”, è l’antichità in sé che è barbara e feroce. Pure l’antichità dei filosofi greci. Feroce con tutti i deboli, a cominciare dai bambini.
Poi arriva Gesù di Nazaret ed è un ciclone che rivoluziona tutto. Perfino la sottile violenza psicologica sull’anima pura dei bambini è per lui un crimine intollerabile: “chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse gettato negli abissi del mare” (Mt. 18,6).
Gesù va anche oltre: i bambini per lui costituiscono addirittura l’esempio da cui devono imparare i grandi e i sapienti. Sono i bambini i depositari della più vera e profonda sapienza. Sono loro – dice esplicitamente Gesù – i veri eredi del Suo Regno e chi segue Gesù deve “tornare come loro”.
Un giorno, in un villaggio, il Maestro si siede e chiede agli apostoli di cosa discutevano per la via. Loro sono imbarazzati perché – come certi ecclesiastici di oggi – si contendevano le poltrone pensando al “regno” da lui annunciato come a un regno mondano.
Allora Gesù li fissa negli occhi e ribalta i loro cuori, rivoluzionando il mondo: “se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Quindi, “preso un bambino, lo pose in mezzo” e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli. Perché chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt. 18, 2-5).
E’ proprio l’irrompere del cristianesimo infatti che dà per la prima volta alla vita nascente, ai bambini uno “status” umano, anzi divino. Il solo caso in cui Gesù pronuncia parole di condanna (e di condanna tremenda: la macina al collo) è quello che riguarda chi scandalizza i piccoli.
Perfino Mauro Pesce e Corrado Augias nel loro “Inchiesta su Gesù”, pur così acido con la Chiesa, riconoscono che “non si può apprezzare la forza di queste parole (di Gesù, nda) se non si considera che i bambini, in una società contadina primitiva, erano nulla, erano non persone, proprio come i miserabili. Un bambino non aveva nemmeno diritto alla vita. Se suo padre non lo accettava come membro della famiglia, poteva benissimo gettarlo per la strada e farlo morire, oppure cederlo a qualcuno come schiavo”.
E’ letteralmente Gesù ad aver inventato l’infanzia, ad aver affermato cioè, una volta per sempre, che i bambini sono esseri umani e che sono sacri e inviolabili.
Lo riconoscono anche i filosofi più laici. Richard Rorty – guru del neopragmatismo americano – in “Objectivity, relativism and Truth. Philosophical papers” osserva: “se si guarda a un bambino come a un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona umana”.
E’ con Gesù che si ribalta tutto e i piccoli o i malati o gli schiavi – che fino ad allora erano considerati oggetti da usare e abusare – diventano divini, quindi sacri e preziosi come il Figlio di Dio stesso che proprio in essi si è voluto identificare. Da qui l’atto d’accusa di Nietzsche: “Il cristianesimo ha preso le parti di tutto quanto è debole, abietto, malriuscito”.
E’ vero. Al contrario di quanto scrive Galli, se nel pensiero moderno ogni tanto fiorisce il seme dell’umanesimo è perché è la Chiesa che ce l’ha piantato. Dunque inconsapevolmente la stampa che attacca, contro la pedofilia, fa un’apologia del cristianesimo.
Per questo il papa, nelle scorse settimane, non ha gridato al complotto, ma ha denunciato il peccato più ancora della stampa, ha pianto con le vittime e ha giudicato “una grazia” provvidenziale perfino questa aggressiva campagna di stampa.
Perché pensa che Dio l’abbia permessa per purificare la sua Chiesa e farle ritrovare Gesù. Così l’umiltà del papa a Malta ha commosso le vittime e ha conquistato milioni di cuori. E’ la strana vittoria della debolezza. La “debolezza” della fede.

Antonio Socci

da “Libero”, 27 aprile 2010

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mercoledì, 10 marzo 2010


Se 500 cristiani macellati non fanno notizia

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cristianesimo, socci

giovedì, 25 febbraio 2010

La Madonna sconvolge gli intellettuali

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19 febbraio 2010 / In Articoli
Nella mentalità moderna, imbevuta di ideologia, quando i fatti disturbano le opinioni, tanto peggio per i fatti. Non a caso sta facendo discutere di più, oggi, sui giornali, il film su Lourdes di Jessica Hausner, nel quale la regista esprime le sue opinioni incerte sui miracoli, di quanto facciano discutere le effettive guarigioni miracolose che lì si verificano.
Una delle quali – non ancora riconosciuta perché la Chiesa esige lunghe verifiche medico-scientifiche – è stata resa nota l’agosto scorso.
La signora Antonietta Raco, 50 anni, di Francavilla in Sinni (Potenza), malata da quattro anni di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) – una malattia terribile – è andata in pellegrinaggio a Lourdes sulla carrozzella, dove era ormai immobilizzata, ed è tornata a casa camminando normalmente con le sue gambe.  
Cosa le è accaduto? A Lourdes si era immersa nella piscina dell’acqua di Bernadette e aveva sentito un forte dolore alle gambe e poi una voce di donna che le diceva: “Non avere paura”. Di colpo è guarita. Quella stessa voce è tornata per invitarla a far sapere a suo marito cosa le è successo.
Non è spiegabile con i mezzi di cui scientificamente dispongo”, così il neurologo Adriano Chiò delle Molinette di Torino, che aveva in cura la signora dal 2006, commentava il caso con i giornali. In effetti nella letteratura scientifica non esiste un caso simile.
Il medico ha spiegato:  “Non ho mai osservato una situazione del genere in malati di Sla. La diagnosi era inequivocabile: la signora aveva una forma di Sla a lenta evoluzione. Una malattia che può rallentare e al massimo fermarsi, ma che non crediamo possibile che migliori, perché intacca i neuroni irreversibilmente”.
Invece l’impossibile pare sia accaduto. Di fronte a un’altra guarigione analoga, riguardante Marie Bailly, una ventenne di Bordeaux – che lui  aveva conosciuto e analizzato come medico – nel 1903, il positivista e scettico Alexis Carrel (1873-1944), poi Premio Nobel per la medicina a soli 39 anni, andando a Lourdes rivide tutte le sue convinzioni e si convertì al cattolicesimo (racconta tutto nel suo memorabile “Viaggio a Lourdes”). Prima era certo che i miracoli non accadessero. Davanti al fatto si arrese. Carrel rispose lealmente a chi lo interrogava: “Bisogna constatare i fatti”.
Ma molti razionalisti preferiscono tapparsi gli occhi e ripararsi dietro i comodi pregiudizi. Emblematico è il caso di un altro importante intellettuale francese di quegli anni, il laico Emile Zola.
Nella Francia positivista di fine Ottocento si faceva un gran parlare di Lourdes e delle straordinarie guarigioni che lì avvenivano, perché mettevano in scacco la cultura dominante che nega il soprannaturale e quindi la possibilità stessa del miracolo.
Lo scrittore dunque decise di recarsi di persona sul posto per smascherare tutto. Era armato di tutti i suoi pregiudizi: “non sono credente, non credo ai miracoli. Ma credo al bisogno del miracolo per l’uomo”. Secondo lui gli uomini hanno “necessità di essere ingannati e consolati”.
Il “caso” vuole che lo scrittore si trovi a viaggiare nello stesso vagone dove sono due ammalate di tubercolosi all’ultimo stadio, Marie Lebranchu e Marie Lemarchand.
Quando dunque il convoglio arriva a Lourdes, nella mattina del 20 agosto 1892, il famoso scrittore conosce bene le loro situazioni di fronte alle quali la medicina ormai aveva alzato le braccia in segno di resa.
Ebbene accadde a lui precisamente ciò poi accadrà a Carrel: a Lourdes lui stesso dovette constatare la guarigione istantanea, definitiva e scientificamente inspiegabile, proprio di quelle due donne.
Alla sua “sfida” il Cielo aveva risposto con dei fatti. Fatti clamorosi e innegabili, impossibili da cancellare o ignorare.
Tanto che Zola, nel suo libro, fu “costretto” a riferirne, ma invece di riconoscere la sconfitta dei suoi pregiudizi, invece di accogliere il dono che aveva ricevuto, la rivelazione di una verità totalmente inattesa e così misericordiosa, nel suo romanzo parla della vicenda “inventando  la morte delle due ‘miracolate’, dopo una breve, illusoria guarigione.
E poiché” ha raccontato Vittorio Messori “una delle due donne risanate, e in modo definitivo, non si rassegnava al falso e protestava sui giornali, Zola andò a trovarla, offrendole denaro perché sparisse da Parigi…”.
E’ una storia emblematica. La cultura laica moderna lancia la “sfida”, ma poi non ha la lealtà di verificare la risposta, cioè i fatti. Naturalmente quel libro di Zola ebbe un gran successo ed è stato ristampato in Italia anche di recente.
“Zola (…) conoscerà un rinnovato successo presso il pubblico della Francia laica, rappresentando Lourdes come la capitale di una gigantesca intossicazione collettiva”, ha scritto domenica scorsa Sergio Luzzatto, sull’inserto culturale del Sole 24 ore.
Il suo articolo era addirittura la copertina. A tutta pagina campeggiava sotto il titolo “Miracoli di fede e scienza”. Questo lungo pezzo di Luzzatto si dilungava proprio a riferire il viaggio a Lourdes di Zola e il successo del suo libro.
Ma purtroppo non vi si accennava minimamente al retroscena suddetto, che poi è un clamoroso infortunio. Anzi, Luzzatto – evidentemente ignaro di questa storia – accredita il libro di Zola come un “meticoloso dossier” contro quell’ “industria del miracolo” che sarebbe Lourdes.
E’ significativo che sull’infortunio di Zola a Lourdes gravi ancora un simile tabù.  Si rilegge oggi il suo libro come se queste cose non fossero accadute. La pagina del Sole offre anche alcune delle sue pagine dove i cristiani vengono rappresentati come sciocchi creduloni. 
Zola, descrivendo le folle che accorrono a Lourdes, sente pure il bisogno di precisare (bontà sua) che “non sono solo dei cretini, degli illetterati, ma ci sono uomini come Lasserre”.
La cosa gli serve per dimostrare che questa “necessità di essere ingannati” dai presunti miracoli riguarda tutti. Ma chi ha veramente ingannato in questa vicenda?
Naturalmente il problema non è Zola, ma una mentalità – ancor oggi dominante – che in nome del realismo nega la realtà, in nome dello scientismo, nega la scienza e in nome del razionalismo nega la ragione.
Diversamente da quanto comunemente si crede, il razionalismo sta alla ragione come la polmonite sta al polmone. Ecco perché uno scrittore pieno di umorismo come Gilbert K. Chesterton, il grande convertito inglese, dirà a proposito delle diverse reazioni ai miracoli: “Chi crede ai miracoli lo fa perché ha delle prove a loro favore. Chi li nega è perché ha una teoria contraria ad essi”.
Bisogna però precisare che il confronto non è alla pari. La mentalità dominante è l’ideologia di un establishment che la fa da padrone nell’industria culturale. Non da oggi. Attenzione, non sono io a dirlo.
Luzzatto, che certamente è un laico alquanto lontano dalla Chiesa, nell’articolo sopra citato, a proposito della conversione di Alexis Carrel, seguita al verificarsi di quel miracolo, fa questa considerazione impressionante: “Immaginando che una testimonianza del genere sarebbe bastata a rovinargli la carriera universitaria, Carrel cercò di mantenere segrete sia la sua visita alla città dei miracoli, sia l’apposizione della sua firma nella cartella clinica della donna risanata. Ma le voci circolarono in fretta a Lione come a Parigi, e nel giro di pochi mesi egli si vide costretto a lasciare la Francia per l’America”.
Tale era il clima che Carrel, anche dopo aver preso il Nobel, non si decise a pubblicare il suo “Viaggio a Lourdes”, libro che uscì postumo: “tanto poteva allora, negli ambienti della ricerca internazionale” osserva Luzzatto “l’idea che una fede nella fede fosse incompatibile con la fede nella scienza”.
Non ha dunque ragione il papa, Benedetto XVI, quando parla di “dittatura del relativismo” ?
Antonio Socci
Da :Libero, 19 febbraio 2010

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socci

giovedì, 11 febbraio 2010

NON C’E’ PIU’ IRRELIGIONE
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di Antonio Socci – Libero
Dawkins: ho perso la battaglia per l’ateismo”. “Il sacerdote del’ateismo: ho fallito”. Questi due titoli del Corriere della sera (7/11) rilanciavano le dichiarazioni al Guardian del famoso ateo militante Richard Dawkins. Sebbene chi lo intervistava lo confortasse con notizie d’irreligione montante, il professore di Oxford, sconsolato, vede “una maggiore influenza della religione”. Aveva scritto un libro, “L’illusione di Dio”, che ha venduto un mare di copie, con “lo scopo dichiarato di ‘convertire’ i lettori all' ateismo”, e ora, a consuntivo, Dawkins “ammette di aver fallito”. Qualcuno ritiene addirittura che abbia finito per portare acqua al mulino dei “nemici”. FAMOLO STRANO La campagna ateistica lanciata sugli autobus di Londra per esempio è stata ideata da Ariane Sherine proprio con l’appoggio di Dawkins. Ecco lo slogan: “Probabilmente Dio non esiste, smettete quindi di preoccuparvi e godetevi la vita”. Probabilmente? E’ difficile immaginare un’idea più controproducente. Innanzitutto da atei militanti, che pretendono di convincere gli altri, si esige che proclamino con certezza che Dio non esiste. Se neanche loro ne sono sicuri, chi pretendono di convincere? Chiunque ricordi la celebre “scommessa” di Pascal (un genio della matematica e del calcolo, oltreché grande pensatore cristiano) sa che quel “probabilmente” basta ed avanza per scommettere sull’esistenza di Dio. E’ assai più conveniente. In pratica lo slogan è un clamoroso autogol. Anzi due. Perché, in qualche modo, dà ragione a chi – con Dostoevskij – afferma “se Dio non c’è tutto è permesso”. Tesi aborrita proprio dal pensiero laico che rivendica un suo codice morale. Fanatismo Stando a quello slogan, chi è certo che Dio non esiste e ne è ben felice, se la dovrebbe spassare. Non dovrebbe certo consumare i suoi anni in una faticosa propaganda dell’ateismo. Anche perché ritiene ovvio che Dio è una favola. Nessuno spreca i suoi giorni per convincere gli altri che i draghi non esistono. Dawkins dovrebbe essere il primo ad applicare lo slogan che stava scritto sui bus di Londra: “Godetevi la vita”. Invece ha dedicato l’esistenza a quella missione, si è fatto in quattro, con uno zelo che rasenta il fanatismo. Russel Stannard, un fisico che si è occupato di rapporti fra scienza e Dio, intervistandolo, anni fa, nel libro “La scienza e i miracoli”, si diceva incuriosito dalla strenua lotta di Dawkins. Sembra ossessionato da Dio. Ha versato fiumi di inchiostro. E’ uno degli intellettuali che più pensa a Dio. Ricorda un tipo del romanzo di Graham Greene, “La fine dell’avventura”. Costui stava sempre ad Hyde Park a comiziare contro il cristianesimo, con un tale impegno che la protagonista del romanzo, Sara, da sempre agnostica, sentendolo tuonare di continuo, cominciò a porsi seriamente la domanda su Dio perché non si può odiare così il nulla. Alla fine lei si converte e muore quasi in fama di santità. Grande vecchio Il padre dell’ateismo filosofico-scientifico moderno, quello a cui tutti si sono abbeverati, da mezzo secolo, è Antony Flew, 82 anni, grande carriera accademica alle spalle fra Oxford e gli Stati Uniti, che però, nel dicembre 2004, ad un convegno a New York, ha annunciato di essersi completamente sbagliato. Alla luce delle ultime scoperte della biologia (specialmente il Dna) e della fisica dichiara di arrendersi all’evidenza razionale dell’esistenza di Dio. Il grande vecchio ha pure spazzolato sonoramente i “rampolli” dell’ateismo, come Dawkins. Ma il suo eccezionale libro, peraltro godibilissimo, dove spiega i motivi di questa conversione, “There is God” (sottotitolo: “Come il più famoso ateo del mondo ha cambiato idea”), un libro che ha fatto scalpore in America, da noi non esce. Perché?
di Antonio Socci – Libero 2008/11/13
grazie ad: Amadigi

Postato da: giacabi a 16:58 | link | commenti
ateismo, socci

sabato, 16 gennaio 2010

L’inferno di Haiti e il Paradiso
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16 gennaio 2010 /
Basta un piccolo starnuto del pianeta, in un minuscolo francobollo di terra come Haiti, e sono spazzati via migliaia di esseri umani. Anche un microscopico virus è in grado di uccidere milioni di persone. Sono tutte manifestazioni di una stessa fragilità, di uno stesso destino. Tutti documenti della nostra misera condizione mortale.
C’è una sola “malattia”, trasmessa per via sessuale, che porta inevitabilmente alla morte l’umanità intera e non ha cure possibili. Non è l’Aids. Ne siamo affetti tutti, ad Haiti come qui. Si chiama: vita.
E’ una “malattia” anche stupenda (per questo la scrivo fra virgolette), è una “malattia” che amiamo, a cui stiamo attaccati con le unghie e con i denti. Ma solitamente non riflettiamo sulla sua natura effimera e quindi l’amiamo in modo sbagliato, dimenticando che dobbiamo scendere alla stazione e siamo destinati a un’altra dimora.
Quando arrivano grandi tragedie, personali o collettive, apriamo gli occhi sull’estrema fragilità della nostra esistenza e – svegliandoci – ci sentiamo quasi ingannati. Come se non sapessimo che siamo di passaggio.
Sì, siamo tutti malati terminali. Ma noi dimentichiamo di essere sulla soglia della morte dal primo istante di vita. Lo rimuoviamo.
Anzi, quasi tutto quello che facciamo ogni giorno ha questa segreta ragione: farci dimenticare il nostro destino, esorcizzare la morte, preannunciata dalla decadenza fisica, dalle malattie, dalla sofferenza, dal dolore altrui. Distrarci, come diceva Pascal: il “divertissement”.
Ormai la nostra mente è organizzata come un vero e proprio palinsesto televisivo: c’è la mezz’ora dedicata alla tragedia di Haiti dove magari si chiama a parlarne non i missionari, non organizzazioni come l’Avsi che da anni lavorano in quelle povere terre, ma Alba Parietti e Cristiano Malgioglio. Poi, subito dopo, il telecomando passa ai quiz, alle ballerine sgallettanti, alle chiacchiere (politica o sport) eccetera.
Tutti modi – si dice – “per ingannare il tempo”. In realtà per ingannare noi stessi, per dimenticare il destino . Perché il nostro insopprimibile desiderio è di vivere sempre, è di essere felici, e ci è insopportabile l’idea della morte e dell’infelicità.
Così, anche quando parliamo seriamente di tragedie come quelle di Haiti, con la faccia compunta, tocchiamo tutti i tasti fuorché quello.
Parliamo dell’emergenza (e va bene), degli aiuti da mandare (e va benissimo), della miseria di quei luoghi (verissima), poi varie storie e considerazioni, finché uno guarda l’orologio perché deve andare al tennis, un altro sbircia il telefonino e un altro ancora sussurra al vicino “ma quand’è che se magna?”.
Ricomincia il tran tran. E gli affanni. E l’ebbrezza di essere padroni della nostra vita. E le illusioni. Eppure il più grande “filosofo” di tutti i tempi chiamò “stolto” colui che riempiva il suo granaio illudendosi di poterne godere all’infinito: “stanotte stessa ti sarà chiesta la tua anima…”.
Perché un giorno tutti dovremo rispondere dei nostri atti e di come abbiamo speso il nostro tempo. In quanto la vita è un compito. Anche se ormai gli stessi preti parlano raramente dell’Inferno e del Paradiso a cui siamo destinati.
Pensiamo che inferno e paradiso siano da fuggire o cercare qui sulla terra. “Haiti, migliaia in fuga dall’inferno”, titolava ieri la prima pagina della “Stampa”. Altri giornali raccontavano i “paradisi tropicali” dei turisti a pochi passi dall’orrore haitiano.
Solo la Chiesa ci dice che c’è un Inferno ben peggiore di Haiti (ed eterno) da cui fuggire. E un Paradiso da raggiungere, di inimmaginabile bellezza e gioia, in cui tutte le lacrime saranno asciugate.
Il solo conforto oggi di fronte all’enormità del dolore di tutta quella povera gente e di fronte a tanti morti, è proprio questo: sperarli (e pregare per questo) fra le braccia del Padre, finalmente nella felicità certa, per sempre.
Ma noi, davanti alla nostra stessa morte (che è certa, inevitabile), che speranza abbiamo? Proviamo a rifletterci. Per me la sola speranza autentica è in Colui che ha avuto pietà della sorte umana, Colui che ha il potere vero e che ripagherà ogni sofferenza con un felicità senza fine e senza limiti.
Per questo la Chiesa c’è sempre, dentro ogni prova dell’umanità, dentro ogni “inferno” terreno com’è Haiti (provate a leggere le testimonianze accorate da là dei missionari). C’è per portare agli uomini la compassione di Dio, la sua carezza, il suo aiuto e soprattutto per aprire le porte del suo Regno.
Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito” dice un prefazio della liturgia ambrosiana “donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del Tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina”.
E la cosa grande che ci porta Gesù, il Salvatore degli uomini, non è solo questa, ma la resurrezione, la vittoria sulla morte, cosicché nulla di ciò che abbiamo amato andrà perduto.
Diceva don Giussani:Cristo risorto è la vittoria di Dio sul mondo. La sua risurrezione dalla morte è il grido che Egli vuole far risentire nell’animo di ognuno di noi: la positività dell’essere delle cose, quella ragionevolezza ultima per cui ciò che nasce non nasce per essere distrutto. ‘Tutto questo è assicurato, te lo assicuro, Io sono risorto per renderti sicuro che tutto quello che è in te, e con te è nato, non perirà’ ”.
Come si fa allora a non gioire, anche nelle lacrime? Come si fa a non affidarsi – anche nella tragedia – all’unico che salva?
Voglio dirlo con le parole di san Gregorio Nazianzeno: Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei una creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 16 gennaio 2010
da: www.antoniosocci.com



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