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sabato 25 febbraio 2012

testimonianza2


COMUNISMO/ Quel prete polacco, amico di Wojtyla, che diede la vita per l'unità della Chiesa


 
Franciszek 
Blachnicki
lunedì 22 marzo 2010

«Il frutto più bello di questo movimento sono i suoi aderenti, migliaia di giovani pieni di entusiasmo, pronti a dare la propria vita per il Vangelo»: così un periodico tedesco sintetizzava nel 1978 l’esperienza del movimento polacco Luce-Vita fondato da don Franciszek Blachnicki (1921-1987).
Nato in Slesia nel 1921, Franciszek partecipa alla resistenza antinazista. Arrestato dalla Gestapo nel ‘40, è internato ad Auschwitz e successivamente condannato a morte, pena poi commutata in 10 anni di carcere.

È in questo duro periodo che sceglie di consacrarsi totalmente a Dio. Dopo la liberazione, mentre la Polonia finisce nell’orbita sovietica, Franciszek entra nel seminario di Cracovia e viene ordinato nel 1950. Il novello sacerdote riceve l’incarico di organizzare i ritiri spirituali per i bambini della diocesi di Katowice, un’esperienza che gli suggerisce l’idea delle «oasi», esercizi estivi rivolti soprattutto agli studenti. Le Oasi, che la propaganda statale definisce «gruppi chiusi dediti all’indottrinamento», contribuiscono ad approfondire e riprendere l’esperienza religiosa fra i giovani disorientati dall’ateismo militante.

Nel ‘57 don Blachnicki lancia la «crociata per l’astinenza» contro il fumo e l’alcolismo. La crescente popolarità delle sue iniziative allarma le autorità: nel ‘60 viene arrestato e incarcerato per un anno. Stabilìtosi a Kroscienko, nel ‘63 rilancia le Oasi, e così il paesino sui monti Tatra diventa la sede del nascente movimento Luce-Vita (1976), che unisce la fedeltà alla tradizione culturale e religiosa polacca alla chiarezza metodologica ed educativa, incentrata sui momenti di convivenza, e contribuisce a superare la paura e la diffidenza tipiche delle società totalitarie.
Come ricordava uno studioso, «fu uno dei metodi più significativi di formazione giovanile negli anni ‘70 e ‘80, basato sull’esperienza della fede personale strettamente legata a quella comunitaria, e con l’Eucarestia al centro della vita». Dal ‘64 al ‘72 Blachnicki insegna all’Università Cattolica di Lublino, dove è molto stimato per i suoi studi di teologia pastorale secondo le indicazioni del Concilio. Nei primi anni ‘70 avviene l’incontro con don Giussani: «Nel corso dell’incontro - racconterà il fondatore di CL in un’intervista nell’81 - ho recepito due parole per me molto importanti: Chiesa e Comunione. Ricordo che ci siamo alzati ed abbracciati: avevamo molto in comune... Luce e Vita, che indicano il simbolo cristiano: Cristo è la luce che porta la via».
Nel giugno ‘73 Blachnicki invita a Kroscienko don Giussani, in occasione dell’atto di affidamento di Luce-Vita alla Madonna, alla presenza del cardinal Wojtyla, che da papa ricorderà: «Come vescovo presi parte a quell’esperienza, e lo feci con tutto il cuore. Molte volte andavo, insieme con don Blachnicki, a trovare i gruppi delle Oasi che facevano i ritiri in vari luoghi dell’arcidiocesi… Tutti sapevano che il cardinale di Cracovia era con loro, che li appoggiava, li sosteneva e che era pronto a difenderli in caso di pericolo».

La polizia infatti non sta a guardare. Irritata persino dalle croci erette dai giovani sui monti di Slesia, sorveglia e ostacola l’attività di Luce-Vita con una serie di provvedimenti amministrativi. Ciononostante il movimento cresce: dal migliaio di partecipanti agli esercizi estivi del ‘70, nel ‘75 sono già 14mila, 30mila nel ‘78. Nel dicembre ‘81, nei giorni drammatici dell’introduzione dello stato di guerra in Polonia, Blachnicki si trova all’estero. Decide di fermarsi in Germania, a Carslberg, dove c’è una comunità di esuli polacchi, e da dove continua a coordinare il suo movimento. Qui fonda anche il «Servizio cristiano di liberazione dei popoli», che intende riunire gli esuli dei paesi centro-europei contro la dittatura comunista.
 Per le autorità polacche è una spina nel fianco. Su di lui pende già un mandato di cattura, e per sorvegliarlo inviano in Germania i coniugi Gomtarczyk, agenti esperti già infiltrati in Solidarnosc. «Alla fine dell’84 - si legge nel rapporto di un loro superiore - i due agenti si prodigavano nel lavoro per don Blachnicki, diventando suoi stretti collaboratori... Sfruttando le divergenze fra gli attivisti anticomunisti dell’emigrazione, assumevano infine la gestione dell’organizzazione». Agli inizi dell’87 però vengono scoperti. Dai documenti raccolti dall’Istituto polacco per la memoria nazionale, risulta che il 26 febbraio don Franciszek ha un’accesa discussione con i due. Il giorno dopo, misteriosamente, muore. La coppia rientra in Polonia l’anno dopo, prima che nel loro appartamento faccia irruzione il controspionaggio tedesco-occidentale.
Nel ‘95 viene aperto il processo di beatificazione di questo «costruttore del Regno di Dio», che – come disse papa Wojtyla – se ne impadroniva evangelicamente con la forza. Riportiamo un passo di una sua riflessione quaresimale: «Cristo va al fondo del cuore umano, ne conosce tutti i peccati, ma questo non lo scoraggia. Come si rivolse alla Samaritana, così si muove verso tutti, perché tutti sono peccatori. Cristo ci porta un dono. Non guarda ai nostri peccati, non si domanda se siamo degni o indegni, non chiede conto dei nostri meriti».

«Il dono è qualcosa di immeritato… Quello che Gesù porta alla Samaritana e a tutti noi è la nuova religione della verità e dello Spirito. Il cristianesimo non è una magia, non sono riti da compiere in questa vita per evitare le sciagure. Il cristianesimo non è la litania dei comandamenti da osservare per non essere condannati, non sono le medagliette, gli scapolari o i santini - strumenti utili, ma che non possono rappresentare il contenuto e l’essenza del cristianesimo. Il cristianesimo… è l’incontro con il Dio vivo, che in Gesù Cristo si dona a noi, e che è dunque amore».
da: www.ilsussidiario.net

Postato da: giacabi a 09:01 | link | commenti
comunismo, testimonianza

venerdì, 21 maggio 2010


GIACOMO MARGOTTI uno sconosciuto?
***
don Giacomo Margotti


No ! Fu il TENACE SACERDOTE artefice del motto "nè eletti nè elettori" (il "non expedit" di Pio IX)
Fu il fondatore di "ARMONIA", accusato da Cavour di abusare delle "armi spirituali"
E' l’autore delle “Memorie per la storia dei nostri tempi
per gentile concessione
di Giacomo Razzetti
curatore del sito

CATTOLICI NELLA SOCIETA'
Don Giacomo Margotti nasce l'11 maggio 1823, si laurea in studi filosofici e diviene seminarista a Ventimiglia; nel 1845 ottiene il dottorato presso l'università di Genova.
Nel 1848, insieme al Vescovo di Ivrea Moreno, il Professor Audisio ed il Marchese Birago, fonda a Torino il quotidiano "L'Armonia", di cui è la vera anima e brillante direttore; tanto brillante da suscitare il duro disappunto della Torino sabauda: senza troppi complimenti si tenta di sopraffarlo con sequestri, multe, chiusure coatte ed ogni genere di vessazione (tra cui un tentato omicidio contro la sua persona nel 1856), fino alla definitiva chiusura del quotidiano, ordinata da Cavour nel 1859.
Ma il tenace sacerdote non si dà per vinto e riesce a spuntarla nuovamente, prima dalle colonne de "Il Piemonte", poi nuovamente dal ristabilito "L'Armonia" che, per volere del Beato Pio IX, viene rinominato "L'Unità Cattolica", nel giorno di Natale del 1863. Foglio, più moderato, ma non meno intransigente, che dal 1870 al 1929 uscì (a Firenze) listato a lutto per la condizione in cui si era venuto a trovare il papa dopo la fine del potere temporale.
Fu il principale artefice del motto "nè eletti nè elettori" (del 1864, successivamente rielaborato dal Beato Pio IX nel principio del "non expedit"), naturale evoluzione dell'atteggiamento di totale chiusura del parlamento sabaudo, che addirittura annullò la sua trionfale elezione alla Camera del 1857 per il curioso reato di "abuso di armi spirituali", neologismo politico dello scaltro Cavour che non aveva certo bisogno di una opposizione intelligente che fosse ostile alla sua linea anti-clericale (ed estese tale provvedimento aberrante ed anti-liberale ad una ventina di sacerdoti neo-eletti).
Dei suoi numerosi scritti, di cui ci perviene quasi niente ma che comunque bastano a tracciare lunghe ombre di dubbi sull'operato di alcuni pater patriae, voglio ricordare il monumentale "Memorie per la storia dei nostri tempi" (in 6 volumi, del 1863), assolutamente introvabile anche nelle biblioteche nazionali (e ciò, mi si consenta, allunga ulteriormente le succitate ombre), di cui chi scrive sta faticosamente ricostruendo l'iter storico, nella speranza di poterlo poi ripubblicare in serie limitata; poi anche "Considerazioni sulla separazione dello Stato dalla Chiesa in Piemonte" (1855); "Le vittorie della Chiesa nei primi anni del Pontificato di Pio IX" (1857); Le consolazioni del S. P. Pio IX" (1863); "Pio IX e il suo episcopato nelle diocesi di Spoleto e d'Imola" (1877).
Giacomo Razzetti
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GIACOMO MARGOTTI: chi era costui?
L’autore delle “Memorie per la storia dei nostri tempi” che stiamo pubblicando

di Angela Pellicciari


Chi è don Giacomo Margotti? Chi è l’autore delle Memorie per la storia dei nostri tempi che stiamo pubblicando a puntate? Un prete giornalista. Un prete battagliero. Un uomo coraggioso. Un combattente per la verità.

Il 18 agosto 1849 Pio IX scrive alla granduchessa Maria di Toscana: sebbene “la tutela del dominio temporale della S. Sede sia in me un dovere di coscienza, pur nonostante è un pensiero assai secondario in confronto dell’altro che mi occupa, di procurare cioè che i popoli cattolici conoscano la verità“.

Che i cattolici conoscano la verità: questa è la preoccupazione del papa e questo è l’assillo di don Margotti. Perché? Perché l’Ottocento è teatro di una riuscitissima campagna di diffamazione, menzogna ed odio contro la chiesa cattolica. Perché i liberali che realizzano l’unità d’Italia, acerrimi nemici della chiesa, non si vergognano di dichiararsi ferventi cattolici. Perché i Savoia -che si professano cattolici- seguono pedissequamente le mosse dei sovrani protestanti che nel Cinquecento derubano la chiesa di ogni avere. Perché i governi liberali che si appropriano del patrimonio che la popolazione cattolica ha regalato nel corso dei secoli alla chiesa, hanno l’ardire di farlo nel nome della chiesa. Per contrastare una simile gigantesca menzogna si tratta di difendere la verità raccontando i fatti. Bisogna ribattere punto per punto alla propaganda di stato. E’ quello che fa don Margotti dalle colonne del torinese l’
Armonia.

Nel paese che si gloria di essere l’unico in Italia a difendere la libertà -compresa quella di stampa-, nel Piemonte sabaudo, cosa succede a Margotti che racconta la verità? Succede che il giornale è più volte messo sotto sequestro, multato, ed infine succede che qualcuno attenta alla sua vita. Il 27 gennaio 1856 don Margotti è aggredito per strada da un malvivente che, con un grosso bastone, lo colpisce alla testa. Mentre l’aggressore fugge pensando di aver compiuto il suo compito, il prete è soccorso dai passanti e, miracolosamente, si salva.

L’anno successivo, alle elezioni del 1857, Margotti è eletto trionfalmente alla Camera insieme ad una ventina di sacerdoti. Il liberale Cavour che di tutto ha bisogno fuorché di un’opposizione parlamentare degna di questo nome, invalida le elezioni degli scomodi preti con la scusa dell’"abuso di armi spirituali". In cosa consiste questo crimine? Nell’aver i presbiteri denunciato la politica anticattolica del governo sardo. Nell’aver ricordato la scomunica maggiore che colpisce i liberali nel 1855, dopo l’approvazione della legge soppressiva di 35 ordini religiosi. A parere di Cavour dire apertamente che i governanti sardi sono tutti scomunicati equivale a commettere un reato, un "abuso" appunto. Il presidente del Consiglio dal canto suo vieta la pubblicazione delle encicliche del papa, compresa quella relativa alla scomunica.

Quando nel 1864 Margotti propone la linea
né eletti né elettori
(che Pio IX trasformerà dieci anni più tardi nel non expedit) sa quello che fa: la sua esperienza sta lì a dimostrare che, in un modo o nell’altro, per i cattolici, nel Regno d’Italia governato dai liberali, non c’è posto.
Per conoscere più da vicino che tipo di uomo è don Margotti trascriviamo la prima parte della lettera da lui inviata ai lettori dell’Armonia qualche giorno dopo l’aggressione: “Dopo una settimana d’ozio forzato, riprendo i miei lavori. Non odiando nessuno, io credevo di non avere nemici. Molti contava avversari politici, ma li riputava tutti onoratissimi, che avrebbero fatto a me buona guerra, com’io a loro, guerra di penne e di ragioni, quale s’addice a gente costumata in paese libero, e non la vilissima guerra dell’assassino. Quando qualche benevolo m’avvertiva s’andare cauto, e premunirmi, io apprezzava l’avviso, per sentimento di benevolenza d’onde partiva, ma mi parea suggerito da una sconsigliata paura, e dicea: in ogni caso, che cosa guadagnerebbero levandomi dal mondo? La causa nostra non dipende dagli uomini, e molto meno da me, l’infimo di tutti. E poi, lo confesso schietto, per quanto io senta sinistramente della libertà moderna, ero persuaso che in Piemonte si potesse ancora scrivere una verità, salva la vita. In Francia, paese di grandi virtù ma anche di grandi delitti, vedea pubblicarsi da buona pezza giornali schietti e franchi come il nostro, senza che i compilatori avessero rischio di sorta.

" La sera di domenica, 27 gennaio 1856, m’avvertirono ch’io era nell’errore, e che troppo ancora credeva (e Dio sa quanto ci credeva poco!) alla libertà ed all’onestà di certuni. Mi dolse del mio caso, ma assai più dell’inganno. Sì, per l’amore che porto alla mia patria, non avrei voluto essere obbligato a confessare, che nel Piemonte, donde furono cacciati gli arcivescovi di Torino e Cagliari, annidassero poi gente rotta ad ogni delitto. Ad ogni modo, se taluno odia me, sappia che io non odio nessuno. Perdonai, e perdono di buon cuore a chi tentò d’uccidermi, e se lo conoscessi, vorrei fargli vedere a’ fatti, che se i principii della sua politica lo consigliarono a sfracellarmi la testa, le massime della mia religione mi comandano di stringermelo affettuosamente al seno. Forse allora costui imparerebbe che differenza corre tra un servo e un nemico del Papa; tra un apologista, e un calunniatore di S. Romana Chiesa.

" Iddio, che mi legge nel cuore, sa ch’io non iscrivo frasi, ma dico quello che sento. In questo senso parlai ai magistrati, che accorsero al mio letto per gli interrogatori fiscali. Ho sempre protestato di non voler porgere querela contro nessuno, e se non potei oppormi al diritto che compete alla società, di buona voglia rinunciai, e rinuncio a quello che mi compete individualmente“.


Caro a Pio IX, che aveva una sua foto sul comodino, Giacomo Margotti è un esempio di italiano e di cattolico di grande valore. Speriamo che -dopo quasi centocinquanta anni di colpevole dimenticanza- la pubblicazione di alcuni dei suoi articoli gli renda, almeno in parte, giustizia.
Angela Pellicciari

Postato da: giacabi a 09:19 | link | commenti
testimonianza, risorgimento

giovedì, 20 maggio 2010


L' intervista La onlus Mamre con Marella Agnelli, l' amicizia con Romiti e la possibile vicepresidenza dell' ente primo socio di Intesa

Suor Giuliana, banchiera per caso «Il denaro? Può concimare il bene»

Dal Cottolengo alla Compagnia di San Paolo: ma non voglio essere usata La proposta di nominarmi vicepresidente? Le cose non si fanno così, non si lavora su una persona senza che lei ne sappia nulla Ci fu un' epoca in cui anch' io consideravo il denaro come lo sterco del demonio. Con il tempo ho capito che può essere speso a fin di bene


«Hanno alzato bandierine nella nebbia. Io non ne so nulla. E mi trincero nella nebbia». Nella foschia della battaglia per i vertici della Compagnia di San Paolo - e quindi per la presidenza del consiglio di gestione di Intesa - è stata in effetti alzata una "bandierina": la proposta di nominare vicepresidente della Compagnia un consigliere inattaccabile come suor Giuliana Galli. Personaggio leggendario per Torino, simbolo del Cottolengo dove ha guidato per una vita le volontarie, ideatrice con Francesca Vallarino Gancia di una fondazione al servizio degli immigrati, amica di Marella Agnelli e di Cesare Romiti, suor Giuliana - 75 anni - non nasconde una certa irritazione per essere stata chiamata in causa: «Le cose non si fanno così. Non si lavora su una persona senza che lei ne sappia nulla. Non si comportano in questo modo i colleghi, se sono colleghi, e quindi uomini e donne uniti da fiducia reciproca». Suor Giuliana non rilascia interviste sulle vicende bancarie. Tiene però a chiarire qualche punto. Ad esempio, tutti i giornali hanno scritto che gli undici consiglieri "ribelli" al presidente della Compagnia, Angelo Benessia, si sono riuniti a casa sua. «Innanzitutto io non posseggo un' abitazione mia: vivo nella Casa del Cottolengo a Moncalieri. E lì, in collina, ci siamo trovati una sera, a guardarci in faccia, a discutere di alcune cose, a chiederci cosa stava succedendo. Ma non era una ribellione. Tanto meno una congiura. A un certo punto ho messo a tavola mozzarella e pomodorini, i consiglieri hanno mangiato e se ne sono andati. Altro che "ribelli"». Reagì allo stesso modo, suor Giuliana, quando un giornale la definì "Sorella Banca", giocando sulla carica per cui è stata indicata dal sindaco Chiamparino, e che lei ha interpretato con la stessa devozione riservata agli ospiti del Cottolengo: «Ci fu un' epoca in cui anch' io consideravo il denaro come lo sterco del demonio. Con il tempo, ho capito che il denaro può anche essere speso a fin di bene. Sono cresciuta in campagna, so che il concime serve a far prosperare i frutti della terra». Quando c' è da raccontare la sua storia, ogni traccia di irritazione scompare dalla sua voce allegra e fresca: «Il Cottolengo non è affatto un luogo di angoscia. Non si consumano tragedie, e neppure succedono miracoli. Io ci sono stata per la prima volta nel 1955. Venni a Torino insieme con un gruppo di amici di Meda, in Brianza, dove sono nata. Dissi a me stessa che al Cottolengo non avrei più messo piede. Invece vi ho passato la vita, e ne sono stata felice». Suor Giuliana è anche un' intellettuale. Laureata in sociologia, master in Scienze del comportamento a Miami, lunghi soggiorni negli Stati Uniti, in America Latina, in Africa, in India. Ha scelto di diventare suora a 22 anni, quand' era una ragazza molto bella, ma la prima chiamata arrivò molto prima: «Avevo otto anni. Al mattino mia mamma, pettinandomi le trecce, mi raccontava le storie del beato Cottolengo - allora non era ancora santo - e di Giovanna Maria Gonnet, madre di cinque figli, spirata tra le sue braccia dopo essere stata respinta da tutti gli ospedali. C' è qualcosa di molto intimo in una madre che pettina la figlia e intanto le parla dei poveri e della carità, non trova?». Con il mondo, suor Giuliana si è confrontata molto presto. Il Cottolengo è un' istituzione fondativa di Torino: coscienza della città, luogo di espiazione e redenzione, mito letterario; Calvino vi ambientò la Giornata di uno scrutatore, a volte le ragazze dell' alta borghesia vengono a farvi volontariato. A qualcuna suor Giuliana ha dovuto raccomandare il rispetto per gli ospiti: «Non seminare illusioni, ricorda che tutti hanno la loro sfera di affettività, porta qui anche il tuo fidanzato». Una città nella città: duemila abitanti, anziani senza famiglia, bambini abbandonati, «uomini con handicap fisici umani - come li ha definiti suor Giuliana -. Sottolineo: umani. Sono tutti figli degli uomini. E sempre fatti a immagine e somiglianza di Dio. Mi spiego? Il crocefisso non era bello». «Cos' abbiamo noi più di loro? - si chiedeva Calvino in una pagina che suor Giuliana ama molto -. Arti un po' meglio finiti, un po' più di proporzione nell' aspetto, capacità di coordinare un po' meglio le sensazioni in pensieri. Poca cosa rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere». A Stefano Lorenzetto del Giornale raccontò nel 1999 alcune storie di suoi assistiti: il neonato cui i medici avevano dato poche ore di vita, creduto morto dalla madre, affidato dal padre a suor Giuliana e alle sue consorelle che ne fanno un ragazzo normale, poi adottato da una nuova famiglia; Franceschina, che è sorda e cieca ma è bravissima a "parlare" con le dita delle mani, «ogni sillaba un polpastrello, e alle prime parole ha già capito il senso del discorso»; Carmela che ha dormito in Cottolengo ogni notte per 75 anni, non sapeva leggere neppure i nomi delle vie ma quando usciva in passeggiata trovava sempre la strada del ritorno. Poi, per gli amici segreti e a volte illustri, arrivava la prova, la visita alla città proibita. Per scoprirne l' umana normalità, come Guido Ceronetti, che vi portò le sue marionette, o come Carlo e Franca Ciampi, accolti con grande affetto. Suor Giuliana ricorda Cesare Romiti «prendere in braccio una bambina bellissima, un viso d' angelo, ma cieca, nata senza gli occhi. Marella Agnelli mi ha aiutato molto, anche a far nascere dieci anni fa la onlus che si occupa degli immigrati, il Mamre». Che non è una sigla, ma il luogo dove Abramo accolse i tre angeli. «Lavoriamo per integrare i bambini stranieri e aiutare i loro genitori con disagi mentali, che spesso non possono essere curati solo con gli strumenti della cultura occidentale» spiega suor Giuliana. Che si raccomanda di non presentarla come un' eroina: «Eroe è padre Christian de Chergé, priore del monastero Notre Dame de l' Atlas, in Algeria. Decapitato con i suoi sei frati, il 21 maggio 1996. Mi ha insegnato che il Dio dell' Islam e il nostro Gesù non fanno un plurale». RIPRODUZIONE RISERVATA La vicenda Suor Giuliana Galli, indicata da più parti come possibile vicepresidente della Compagnia di Sanpaolo (il posto lasciato vuoto da Elsa Fornero), ha ospitato nei giorni scorsi la cena che si è svolta prima del consiglio generale della fondazione, dove i consiglieri hanno trovato l' accordo che ha evitato la sfiducia al presidente Angelo Benessia. La verifica sulla gestione di Benessia riguardava la partita delle nomine a Intesa Sanpaolo, di cui la Compagnia è primo azionista, chiusasi con il ritiro del candidato numero uno di Torino, l' ex ministro dell' Economia Domenico Siniscalco, e la nomina a presidente del consiglio di gestione del bocconiano piemontese Andrea Beltratti. Suor Giuliana, laureata in sociologia, ha un master in scienza del comportamento, conseguito a Miami, in Florida. Lavora al Cottolengo, dove ha guidato per 27 anni il corpo dei volontari. Gli uffici a Milano
Cazzullo Aldo
Pagina 15
(15 maggio 2010)

Postato da: giacabi a 20:12 | link | commenti
testimonianza

mercoledì, 05 maggio 2010

Chai Ling, ex leader di Tiananmen è divenuta cristiana
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La sua conversione dovuta all’impotenza nel cambiare la Cina e al dolore per gli aborti forzati che avvengono nel suo Paese con la legge del figlio unico “cento volte più violenta del massacro di Tiananmen”. L’invito ai leader cinesi di pentirsi e a scoprire il perdono di Dio.

Boston (AsiaNews) – Chai Ling, l’unica donna leader di piazza Tiannamen nell’89, si è fatta battezzare il 4 aprile scorso. Aveva domandato di essere cristiana nel dicembre 2009.
 
Il giorno del suo battesimo ella ha spiegato il motivo che l’ha portata alla fede cristiana: la sua impotenza a cambiare la Cina e il dolore a vedere tanta violenza nel suo Paese, non solo nel campo dei diritti umani e della democrazia, ma soprattutto per gli aborti forzati causati dalla legge del figlio unico, che lei definisce “un massacro di Tiananmen quotidiano, cento volte superiore e fatto alla luce del giorno”.
 
La sua testimonianza è stata pubblicata integralmente sul sito di ChinaAid, dove racconta pure di tutti gli incontri e gli amici che l’hanno aiutata ad accogliere il cristianesimo.
 
Chai Ling è nata durante la Rivoluzione culturale da una coppia di soldati dell’esercito per la liberazione del Popolo, in una base militare del nord-est della Cina.
 
Durante le manifestazioni di Tianamen nel maggio-giugno 1989, Chai Ling, 23enne, era studente di psicologia all’Università Normale di Pechino (Beishida). È stata l’unica donna leader del gruppo, che ha previsto con grande tristezza la fine tragica del movimento democratico (“Ci sarà un bagno di sangue”, aveva detto in un’intervista giorni prima del fatidico 4 giugno). Insieme ad altri 11 studenti aveva espresso il giuramento di versare il suo sangue per la patria, sul modello degli eroi-martiri cinesi del passato che si suicidavano per risvegliare il loro popolo.
 
Dopo il massacro, Chai Ling è divenuta una dei 21 più ricercati dalla polizia cinese. Grazie all’aiuto di un gruppo di buddisti e di personalità di Hong Kong, dopo un periodo di vita nascosta, è riuscita a fuggire prima in Francia e poi negli Stati Uniti.
 
Stabilitasi a Boston, si è laureata ad Harvard in economia e con il marito Robert Maggin jr hanno dato vita a una compagnia di software che impiega quasi 300 persone. Non ha mai dimenticato il suo giuramento e ha sempre usato parte dei loro profitti per aiutare orfanotrofi e organizzazioni per i diritti umani in Cina.
 
La scoperta di essere controllata dai servizi segreti cinesi, le loro minacce e le difficoltà del movimento democratico all’estero la rendono senza speranza. “Pur con tutte le battaglie e i successi – dice – ho capito quanto io fossi piccola se paragonata alla forza di un intero regime. Come potrei io, un umile individuo andare contro un intero regime con enormi risorse e una rete diffusa?”.
 
Nel novembre 2009, ascolta a Washington la testimonianza di Wujian, una donna cinese costretta ad abortire perché rimasta incinta senza il permesso dei responsabili dell’ufficio per il controllo della popolazione.
 
“Quel momento – racconta – ha riportato alla memoria tutta l’impotenza e il dolore che abbiamo provato la notte del massacro del 4 giugno. Quella notte è stata così brutale, e non avevamo la forza di fermarla, e nemmeno il resto del mondo ha potuto fermarla. La storia di Wujian è solo uno dei 10 mila casi che sono accaduti in una singola contea in Cina nel 2005. Nei 30 anni passati, circa 400 milioni di vite sono state stroncate in Cina con l’aborto; molti sotto forma di crudeli e disumane operazioni, terminate con la morte dei bambini, ma anche con il terribile trauma e danno delle madri che sono sopravvissute…Nessuno potrà dimenticare il massacro di Tiananmen del 1989, anche se ormai sono passati più di 20 anni. Ma pochi di noi hanno compreso che queste parole: Politica-del-figlio-unico” sono un ordine di marcia per una brutalità cento volte superiore al massacro di Tiananmen, che accade alla luce del giorno, ripetuto ogni singola giornata”.
 
Alla domanda su “chi può fermare tutto ciò?”, Chai Ling risponde per la prima volta con la fede in Dio: “Solo Dio può fermare questa brutalità”.
 
Occorre ricordare che Chai Ling non ha avuto alcuna educazione religiosa: “[In Cina] – racconta - non ci era permesso credere in Dio. Per i leader ‘Dio’ era una cosa cattiva che i capitalisti usavano per il lavaggio del cervello del popolo. Come risultato, perfino l’amore di Dio era visto come una cosa che faceva paura. La società era piena di odio, sfiducia, paura”.
 
Aiutata dal marito, cristiano protestante, e da alcuni amici e amiche che lavorano come volontari contro l’aborto, Chai Ling chiede di diventare cristiana il 4 dicembre 2009. Lo scorso 4 aprile ha ricevuto il battesimo. La fede nella resurrezione di Gesù la rende ora più sicura e più certa “della vittoria di Dio” anche in mezzo a tante tribolazioni.
 
Nella sua testimonianza Chai Ling ha parole di misericordia anche per i leader cinesi, responsabili del massacro e della politica attuale: “Il perdono di Dio è così pieno; perfino uno dei due ladroni, che è stato crocifisso con Lui, dopo che si è pentito per i suoi peccati, Cristo gli ha promesso di portarlo con sé in cielo. Se i leader della Cina potessero almeno ascoltare questo [annuncio], non importa quello che hanno fatto o commesso, se solo si pentissero, potrebbero ricevere lo stesso amore e perdono che tutti riceviamo. Quale grande dono riceverebbero? La libertà per se e per la Cina!”.
 
La conversione di Chai Ling è l’ultima di una serie da parte di diversi leader di Tiananmen. Dopo aver lottato per le idee di uguaglianza e democrazia, grazie al rapporto col mondo occidentale o con missionari in Cina hanno scoperto che il loro impegno per i diritti umani è ragionevole solo se fondato su una base cristiana. “Quando abbiamo pensato a far nascere un movimento democratico – dice Chai Ling – gridavamo che tutti gli uomini nascono uguali. Ora so e posso dire con tutta la fiducia il perché: Dio li ha creati uguali, a immagine di Lui”.

Postato da: giacabi a 21:58 | link | commenti
testimonianza, consumismo

sabato, 20 marzo 2010


Un ebreo infiltrato tra le SS. Storie di conversione: Daniel Rufeisen



di Cristiana Dobner
Il nazismo, la sua ideologia e le stragi compiute in nome della purezza della razza sono una marea nera che ha inquinato la storia del xx secolo, in cui i valori umani sono stati stravolti e conculcati. Ma la dignità della coscienza ha avuto la meglio e ha vinto in tante persone che hanno accettato il costante tormento di rischiare la vita, perché hanno imboccato la via della verità umana e della Verità donata da Dio alla libertà umana.
Così fu per l'ebreo Oswald Rufeisen nel 1939: poco più di un ragazzo - aveva infatti solo diciassette anni - nato a Zadziale in Polonia, poverissimo ma ricco di intelligenza e del dono delle lingue, fluente in tedesco tanto da passare per tedesco. L'intelligenza di Oswald si era dimostrata ben presto sui banchi di scuola, superando i coetanei per destrezza e profondità; gli ebrei allora non avevano facile e semplice accesso nelle istituzioni scolastiche, anche quando le famiglie erano in grado di sobbarcarsi l'onere delle spese. Fu anche membro di quel movimento sionista giovanile Akiva, allora non socialista ma orientato verso un'esperienza di vita in un kibbutz e, successivamente, verso il Partito liberale.
Al momento dell'invasione della Polonia, a Oswald e al fratello rimanevano ben poche chance: la fuga verso il sud era impossibile, bloccata a tutte le frontiere, perciò la loro meta fu Vilna, dal momento che la Lituania godeva di un breve periodo di indipendenza politica. Breve perché due furono le ondate successive: prima i sovietici, poi i nazisti.
Vilna, in quel momento, sembrava essere il punto focale di raduno per centinaia di giovani sionisti che volevano raggiungere l'Europa. Vivere allora significava sopravvivere in modo elementare, nutrirsi, lavorare dove capitava, trovare ospitalità sotto un tetto amico potendo specchiarsi e specchiare la propria angoscia in giovani volti che condividevano le stesse paure, le stesse ansie nella precarietà quotidiana. Con sotteso un interrogativo lancinante: "Domani sarò ancor vivo?".
Quando i sovietici concessero qualche numero limitato di visti, Oswald volle che il suo giovane fratello raggiungesse la tanto agognata Palestina ed ebbe il coraggio di rimanere ancora nella trappola mortale. I nazisti lo ridussero a lavoratore-schiavo: tagliava la legna nelle gelide foreste fuori città. Il ragazzo, piccolo di statura e magro, di modi affabili e gentili, trovò però un contadino disposto a rischiare nel proteggerlo, assumendolo come lavoratore. Del resto, sembrava davvero un tipico tedesco grazie alla sua ottima padronanza della lingua, ai capelli biondi e agli occhi azzurri. Oswald, quando il pericolo strinse le sue spire e la coscienza lo richiamò all'aiuto dei fratelli braccati, cambiò residenza; scappò dalla Lituania nella Russia Bianca, fermandosi a Mir, una cittadina di cinquemila abitanti a est della Polonia, vicino al confine russo, dove ancora vivevano molti ebrei rinchiusi in una sorta di ghetto nel diroccato palazzo del nobile polacco Mirsky, dopo un eccidio che era costato la vita a 1.500 ebrei.
Il giovane Rufeisen in fuga da Cracovia verso Mir aveva trovato dei documenti tedeschi in un fagotto abbandonato sull'orlo della strada, li prese e constatò come gli si addicessero: biondo, occhi azzurri... ariano!
Poté così essere reclutato dalla Polizia e diventare l'organizzatore e il salvatore di tanti civili. Ne seguì l'addestramento, mentre l'ottima conoscenza della lingua locale fu determinante per la sua promozione: nell'autunno 1942 divenne SS Oberscharführer.
Nervi saldi e prontezza di risposta e azione gli consentirono di lavorare nella polizia militare tedesca, il cui temibile capo Serafamovich terrorizzava la popolazione e gli ebrei. In quanto traduttore viveva al suo fianco, sempre con l'incubo che un minimo errore potesse svelare la sua origine ebrea.
Un giovane sionista in un uniforme tedesca! Così lo videro e riconobbero alcuni sionisti fuggiti ai massacri di Vilna. Berl Resnik, un rifugiato, entrò un giorno nell'ufficio di Oswald che gli chiese perché non lo avesse salutato dicendogli "shalom". Berl, tremando, pensò si trattasse di una trappola; quando Oswald gli rivelò la sua identità tirò il fiato.
Il doppio gioco non poteva che accrescere la tensione nel giovane Oswald, che però continuava a rischiare: rubò fucili dai quartieri generali della polizia e li passò agli amici ebrei del ghetto. L'apice del rischio fu raggiunto dopo una telefonata che riuscì ad ascoltare fra il suo capo e le SS: era fissata la data per la liquidazione del ghetto di Mir. Con mille stratagemmi, molta astuzia e un batticuore perenne, Oswald avvisò gli amici e menò il can per l'aia con la polizia tedesca conducendola a nord alla ricerca di partigiani russi. Almeno 300 ebrei riuscirono a fuggire dal ghetto e a trovare rifugio nelle foreste Nabuloki a sud.
Il sospetto cominciava a gravare su di lui per quella scomparsa improvvisa di tanti ebrei. Oswald fu interrogato quindi da un ufficiale delle SS e, vista la mala parata, una volta rimasto solo nell'ufficio, afferrò un fucile e scappò dalla finestra verso i campi aperti. Fu rincorso, gli spararono ma riuscì a fuggire e a raggiungere un convento dove le suore lo nascosero. Non fu una bravata il salvataggio di tanti ebrei ma un atto che costò a Oswald l'abbandono della sicura divisa tedesca per un abito religioso (per di più femminile).
Un mese dopo, quando un partigiano che aveva ricevuto da Oswald un paio di stivali fu trovato morto e sfigurato in volto, il fuggitivo fu dato per morto e il caso considerato chiuso.
Grazie al coraggio delle suore, da quel 16 agosto 1942 alloggiò nascosto nel solaio del fienile proprio nel cortile adiacente a quello della polizia che aveva "servito" fino a poco prima. Appena arrivato nel convento, completamente esausto, cadde in un sonno profondo di almeno ventiquattro ore. Risvegliatosi trovò vicino a sé una rivista in cui si raccontavano i miracoli avvenuti a Lourdes per intercessione di Maria Immacolata; incuriositosi chiese di poterne sapere di più. Oswald così racconta quei drammatici momenti: "Poi chiesi il Nuovo Testamento e iniziai a studiarlo. Lessi pure diversi libri ebraici che avevo trovato nel solaio. Ero colmo di domande. Mi stavo chiedendo perché simili tragiche cose stessero avvenendo al mio popolo. Mi sentivo proprio un ebreo, mi identificavo con la difficile situazione del mio popolo. Mi sentivo pure sionista. Desideravo raggiungere la Palestina, il mio stesso Paese (...) con questo quadro mentale mi esposi al Nuovo Testamento, un libro che descrive eventi avvenuti nella mia patria, la terra cui anelavo. Tutto questo deve aver creato un ponte psicologico fra me e il Nuovo Testamento. Per quanto possa sembrare strano, avevo un diploma di scuola superiore polacca ma non avevo mai letto il Nuovo Testamento. Nessuno me lo aveva richiesto. Relativamente alla Chiesa conoscevo solo cose negative. Nutrivo pregiudizi contro la Chiesa. In convento, tutto solo, mi creai un mondo artificiale pretendendo che duemila anni non fossero mai passati. In questo mondo di credenza creato da me stesso venni a confronto con Gesù di Nazaret (...) se non lo comprenderete, non comprenderete la mia lotta per il diritto alla mia nazionalità ebraica (...) così ero di fronte a Gesù di Nazaret. Devi comprendere che non tutta la storia su Gesù è la storia della Chiesa. La storia di Gesù è un frammento della storia ebraica. Così seguii gli scambi di idee e di controversie fra Gesù e alcuni degli ebrei, diversi tipi di ebrei. Presto cominciai ad apprendere sempre di più sulla posizione assunta da Gesù. Mi ritrovai in accordo con la visione e l'approccio di Gesù al giudaismo. I suoi sermoni mi toccavano fortemente. In questo processo in un certo qual modo trascurai quanto avvenuto più tardi nella relazione fra ebrei e cristiani. Nello stesso tempo avevo bisogno di un maestro, di qualcuno che mi indicasse la via, una guida, qualcuno forte (...) e così giunsi al momento in cui Gesù muore sulla croce e poi risorge. Improvvisamente, non so come, identificai la sua sofferenza e la sua risurrezione con la sofferenza del mio popolo e la speranza della sua risurrezione. Cominciai a pensare che se un uomo giusto muore, non per i suoi peccati ma per le circostanze, allora deve essere Dio, perché è Dio che lo riporta alla vita. Allora pensai che se c'era giustizia per Cristo nella forma della risurrezione, ci sarebbe stata pure una qualche forma di giustizia per il mio popolo. Ero tagliato fuori dalla mia ebraicità da circa un anno. Ero separato da tutto quanto era ebraico. Sentivo che per l'ebreo in questa Chiesa doveva esserci un posto riservato, non mi sbaglio su questo. Mi convinsi che forse io avevo una qualche speciale funzione da svolgere in questa Chiesa, forse migliorare, fissare la relazione fra ebrei e cristiani (...) alla fine il mio andare verso il cristianesimo non fu una fuga dall'ebraismo, anzi, al contrario, fu una via per trovare risposte al mio problema da ebreo. Quando compresi che mi trovavo di fronte alla decisione di abbracciare il cattolicesimo iniziò in me una battaglia psicologica. Avevo tutti i pregiudizi sugli ebrei che si convertono al cristianesimo. Ben consapevole di questo, temevo che il mio popolo, gli ebrei, mi avrebbero rifiutato. In realtà, non lo fecero. In ogni caso, la battaglia psicologica durò due giorni. Durante tutto questo tempo piansi molto, chiedendo a Dio la guida (...) non era una battaglia intellettuale, intellettualmente accettavo Gesù. L'intero problema riguardava la futura relazione con il mio popolo ebraico, mio fratello, magari con i genitori se erano vivi (...) avrei dovuto riportare gli elementi ebraici nel Nuovo Testamento, io stesso sarei stato uno di questi elementi ebraici, e altri come me. Ci sono molte persone come me, cristiani che si considerano ebrei".
Quando la madre superiora andò a far visita a Oswald il dialogo fu rapido e franco; le chiese di essere battezzato in quel giorno stesso "perché oggi è il compleanno di mio padre. Voglio dimostrare che c'è continuità, che non sto rifiutando l'ebraismo ma accettando la sua speciale forma".
"Ma non sai nulla del cristianesimo" obiettò la madre. Oswald rispose: "Credo che Gesù fu il Messia. Per favore mi battezzi oggi".
In serata, una delle suore lo battezzò: "Da quel giorno ebraismo e cristianesimo sono sempre stati il centro della mia stessa esistenza".
Neppure tre settimane dalla sua spericolata fuga. Nell'inverno del 1944 Oswald dovette abbandonare temporaneamente il suo rifugio perché la polizia indagava troppo da vicino; incontrò un partigiano cui chiese notizie degli ebrei di Mir, questi lo portò al comando russo nella foresta e la vicenda di Oswald suonò strana, venne ritenuto una spia. Fu difeso però da Breslin che aveva soccorso e dovette provare la sua identità partecipando al sabotaggio di un treno carico di soldati tedeschi che fece saltare in aria.
La pressione nazista sulla cittadina cresceva, anche le suore della Risurrezione che si erano prodigate per aiutare la popolazione, e gli ebrei in particolare, furono costrette a evacuare l'edificio; a Oswald non restò che la fuga nella foresta. Ancora una volta divenne traduttore, questa volta fra partigiani e prigionieri tedeschi. Quando l'Armata Rossa avanzò verso occidente, per Oswald fu facile identificare i collaboratori dei nazisti, a questo proposito egli testimoniò anche nel 1982.
Nella Polonia occupata, travolta dalla guerra, Oswald trovava via via rifugi precari, lavori dimessi e faticosi, persone che coprivano la sua identità, datori di lavoro che intuivano ma tacevano, con grande pericolo. Ignorava la sorte degli amati genitori, pensava fosse salvo in Israele il giovane fratello.
Mir fu liberata dall'Armata Rossa nel giugno 1944, Oswald con Breslin e i sopravvissuti raggiunse la cittadina. Improvvisamente però scomparve, come svanito nel nulla. Sarebbe ricomparso come padre Daniel-Maria del Sacratissimo Cuore di Gesù, carmelitano e prete dal 29 giugno 1952.
Nel 1956 coronò il suo sogno ottenendo dai superiori di risiedere in Israele, dove ritrovò il fratello, membro di un moshav, gli amici del giovanile movimento Akiva e i superstiti di Mir.
Chiese quindi di esservi riconosciuto quale ebreo in forza della Legge del ritorno approvata dalla Knesset nel 1950, ma la richiesta venne respinta. Rufeisen ricorse alla Suprema Corte di Israele e così si trovarono a confronto il Rabbinato e la Suprema Corte dello Stato d'Israele, con due giudizi differenti: per l'uno Oswald Rufeisen, nato da genitori ebrei era legato al popolo di Israele, indipendentemente dalla sua decisione di abbracciare la fede cristiana; per l'altro non poteva essere insieme prete cattolico ed ebreo.
Fratel Daniel perse la causa nel 1962: ogni ebreo convertito a un'altra religione avrebbe perso l'accesso preferenziale alla cittadinanza nello Stato di Israele.
Più tardi ottenne la cittadinanza naturalizzandosi come cittadino israeliano e vivendo nel convento carmelitano di Haifa.

 


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testimonianza

domenica, 24 gennaio 2010

TESTIMONI
 Padre Leoni
e quei «dieci anni d’inferno»
 ***


di Marta Dell’Asta
14/01/2010 - Forlì ricorda il centenario della nascita del prete romagnolo che aveva scelto l’Urss come terra di missione. Finendo in gulag per la fede. Nella sua vicenda, l’esempio di «un uomo che riconosceva in tutto la presenza di Cristo»
Padre Leoni in Canada.
Padre Leoni in Canada.
Nel 1955 sulla stampa italiana era scoppiato il caso di un certo Pietro Leoni, gesuita romagnolo che aveva avuto la sorte poco invidiabile di passare dieci anni in un lager sovietico. E di tornare a casa. Questa vicenda - ben raccontata da Mara Quadri e Alessandro Rondoni in Pietro Leoni, Edizioni La Casa di Matriona - è stata al centro delle celebrazioni che Forlì e Premilcuore, dove padre Leoni è nato nel 1909, gli hanno dedicato nel centenario della nascita. Un anniversario cui i media non hanno dato molto spazio, che lunedì 18 verrà ricordato nella testimonianza conclusiva di monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo dell’Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca (l’incontro “La speranza del cristianesimo”, alle 21 presso l’Auditorium della Cassa dei Risparmi di Forlì, sarà un omaggio anche alla figura di don Francesco Ricci, il sacerdote di Forlì che s’è speso per sostenere la Chiesa oltrecortina).
Nato nel 1909 da contadini, diventato prete e gesuita, Pietro Leoni era partito per la Russia come cappellano militare nel 1941; nel 1945 era rimasto volontariamente in territorio sovietico per fare il parroco; arrestato quasi subito, aveva scontato dieci anni di lavori forzati nelle miniere di carbone del terribile campo di Vorkuta (nel ’47 li avevano poi portati a 25, gli anni), sino alla fortunosa liberazione e al ritorno in Italia.
In piena Guerra Fredda, un caso del genere non poteva non fare scalpore. Leoni aveva raccontato, senza reticenze, davanti alle platee di tutta Italia, con semplicità di cuore e la sua innata vis polemica. Ma al breve momento di gloria era seguito, quasi una vendetta, il momento delle calunnie, poi l’oblio. Del resto non c’era da aspettarsi di meno, perché nella sua testimonianza padre Pietro accusava sempre l’ideologia comunista come la fonte di tanto male, e questo, detto da un testimone oculare, toccava troppo sul vivo la sinistra italiana, che si era impegnata a squalificarlo con ogni mezzo. Così era riuscita ad imporre l’equazione: Leoni - fascista, e da quel momento i pochi amici e i parenti che cercavano di difenderne il buon nome si erano trovati a sbattere contro un muro di gelido disprezzo. Un vero tabù.
Tuttavia sia la fama che la censura avevano mancato il bersaglio: a Leoni stavano stretti sia i panni dell’anticomunista che quelli dell’impostore prezzolato dal Vaticano. Nessuno, in realtà, aveva interesse a capire per cosa veramente si era battuto quell’esile pretino (quando era tornato era addirittura trasparente) dalla forza indomabile, che era andato a ficcarsi in una situazione gravida di rischi senza nessuna particolare necessità.
Infatti nessuno gli aveva chiesto di restare in Urss a fare il parroco, era stato solo il suo ardente amore per Cristo e la Chiesa a spingerlo: padre Pietro era un missionario fin nel profondo del cuore, e ciò che gli premeva sopra ogni cosa era riportare la gente alla fede. Lo dimostra la sua vicenda umana: il detenuto Pietro Leoni in quei dieci anni non aveva mai tradito se stesso né gli altri, non aveva mai smesso di svolgere apostolato, aveva dato prova di coraggio fisico, fermezza psicologica e una carità senza limiti. La sua fiducia in Dio era così totale da dargli una forza indomabile, fino a mettere in difficoltà la stessa polizia segreta. Un giorno il giudice istruttore aveva perso le staffe con lui e gli aveva dato dell’impudente, poi gli aveva chiesto: «Leoni, ma lei vuole vivere sì o no? Se continua così finirà male!». E lui gli aveva risposto: «Io ho bisogno di una sola cosa: che la santa Chiesa sia salva, e la verità e la giustizia trionfino. Se per questo è necessario che io dia la vita, la do ben volentieri».
Diversamente da altri suoi colleghi sacerdoti che, cercando di dimostrare agli inquirenti che la loro attività religiosa non danneggiava lo Stato sovietico, si erano spezzati miseramente, Leoni aveva resistito con un dominio di sé e una lucidità di giudizio che hanno lasciato stupiti anche gli studiosi che hanno riesumato i verbali d’interrogatorio. Davvero pochi hanno resistito come lui, senza mai firmare nessuna falsa confessione. Ma in tutto questo l’indole personale era stata solo uno strumento potenziato dal totale abbandono in Dio. Sin da quando, il 29 aprile 1945, era stato arrestato a Odessa, e lui non era rimasto troppo sconvolto perché aveva la chiara certezza che nulla accadeva per caso. Questo, per lui, voleva dire solo un nuovo fronte di missione.
La baldanza e l’ironia, che traspaiono anche tra le righe dei verbali, non devono ingannare: padre Pietro aveva paura dell’ignoto e della sofferenza, e la solitudine gli pesava tremendamente, ma non fino a cancellare la presenza di Dio. Uno dei momenti più alti di questa esperienza era stato durante il confronto con un confratello che lo aveva accusato di spionaggio. Lì nell’ufficio del giudice istruttore, padre Pietro aveva immediatamente perdonato il tradimento, e riconoscendo nel traditore stesso la presenza di Cristo misericordioso, aveva chiesto a lui l’assoluzione dai propri peccati.
Negli anni di lager la sua preoccupazione costante era stata quella di celebrare l’Eucaristia il più spesso possibile, in tutte le condizioni e in tutti gli angoli, perché gli era evidente che la cosa che più necessitava a quella povera umanità calpestata era la dignità di figli di Dio, la forza di una presenza invincibile. A causa della messa era finito in cella di rigore innumerevoli volte, aveva scavato nelle miniere di carbone fino allo sfinimento, era finito all’ospedale con le ossa rotte... E intanto pregava sempre: «Signore allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà».
Con un senso di lealtà e un amore straordinari, temeva, chiedendo la liberazione, di sottrarsi alla propria missione. Ma non si era sottratto mai, anche dopo il lager, quando era iniziata per lui un’altra prova durissima, forse più amara: tornato in Italia, i suoi superiori gli avevano chiesto di tacere, di dimenticare. Si credeva che questo facilitasse i rapporti internazionali. E lui aveva obbedito, chiedendo di andare in missione in Canada.
«Non mi rammarico dei terribili anni in Russia, durante i quali sono stato lo strumento di cui Dio si è servito. Se potessi tornare indietro e scegliere liberamente, vorrei riviverli esattamente come li ho vissuti, questi dieci anni d’inferno»

da:htwww.tracce.it/


Postato da: giacabi a 20:49 | link | commenti
comunismo, testimonianza

mercoledì, 11 novembre 2009

LETTERA
I carcerati di Padova:
 si può esser felici in cella
  ***
martedì 10 novembre 2009 da:  Il Sussidiario.net

  
Siamo alcuni ergastolani della Casa di reclusione di Padova. Ci troviamo in carcere da 10-15-17 anni. Abbiamo appreso dalla tv l’agghiacciante notizia del suicidio di Diana Blefari Melazzi, un gesto che sta facendo molto discutere, a differenza del silenzio sulle centinaia di altri nostri compagni che in questi anni si sono suicidati e che sono passati inosservati, forse perché “anonimi” e di nessun interesse giornalistico, ma non per questo meno “importanti” sotto l’aspetto umano, che invece dovrebbe sempre essere tenuto in primaria considerazione.

Dal giorno del nostro arresto ne è passata molta di acqua sotto i ponti, siamo stati anche in carceri “dure” e, nonostante a volte la tentazione di farla finita sia stata quotidiana, non ci siamo mai arresi alla disperazione, neppure quando ci siamo ritrovati a regime duro e completamente da soli in una cella di isolamento. La nostra natura di Uomini, e cioè di persone che cercano inarrestabilmente un senso alla vita, prende sempre il sopravvento, e questo riguarda sempre tutti anche i non carcerati - basta avere il coraggio e la lealtà di guardarsi attorno. Stante le condizioni in cui siamo di per sé dovremmo essere in pochi a non suicidarsi e invece no.

Questo riguarda tutta la società, anche chi ha tutto. Non sono le condizioni di vita: pensate che per delinquenti e non, siano così determinanti? Basta guardarsi attorno vicino - a casa propria - o lontano che sia - nei paesi più poveri.

Non sono neppure il rispetto dei diritti umani minimi a dare dignità all’Uomo. Serve una vera Speranza nella vita, di cui i diritti umani, la dignità del vivere ne sono una conseguenza. Riconoscere la positività che vince ogni solitudine, ogni violenza, ogni sopruso è possibile solo grazie all’incontro con persone che testimoniano che la vita vale più di ogni apparente mancanza e delle peggior condizioni di vita, della malattia e della morte.
Non confondiamo perciò la Speranza vera, quella che risponde alla nostre e vostre domande di giustizia, di verità e di felicità con l’acqua calda, un pasto un tetto e un po’ di rispetto (che certo permettono di vivere meglio).
Noi possiamo reputarci dei “fortunati” perché non abbiamo mai perso la fiducia, o forse non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere in pratica tutte le strane idee che vengono facilmente in testa quando si è in condizioni disperate.

Per quanto ci riguarda, la nostra fortuna è stata quella di aver trovato delle persone che in noi hanno visto il lato buono; persone che nonostante le pessime “referenze” hanno comunque scommesso su di noi, e anche se potrà sembrare strano, paradossalmente è stato proprio quel briciolo di fiducia a farci comprendere ancora meglio i nostri errori e il valore infinito che ognuno di noi, di voi ha.

Quando viene data una possibilità durante la detenzione non significa svilire il senso della condanna, ma anzi si aiuta la persona a prendere coscienza delle proprie responsabilità; è proprio in quel momento che si inizia davvero a pagare, a scontare veramente la condanna con la giustizia dei tribunali e soprattutto con gli altri, nei confronti della società e ancor di più verso le persone alle quali si è fatto del male.


Il sistema carcerario e legislativo purtroppo hanno alcuni controsensi. Si parla a volte di diritti umani e poi ci si indigna tanto se qualcuno propone l’abolizione dell’ergastolo, sostituendolo con una condanna ugualmente dura ma che abbia un fine pena, anche se molto lontano nel tempo, che lasci quindi un barlume di speranza e di redenzione a chi lo sconta.

Ora sembra, ascoltando i telegiornali, che il problema sia consistito solo in un controllo poco adeguato di Diana Blefari Melazzi, e che quindi bastava tenerla continuamente monitorata o per le sue condizioni “trattata in un altro modo”. O per citare un altro caso di attualità, che il povero Cucchi non fosse morto. Ecco questi casi non si possono trattare usandoli, come sempre tutto - vedi anche il caso Marazzo - a proprio uso e consumo, fagocitandoli per poi dopo un pò passare a un altro scoop

Bisognerebbe invece porsi il problema che aldilà dell’individuo che ha commesso un reato, c’è sempre la persona, e nessuna persona è in grado di vivere se le si toglie qualsiasi progettualità o speranza per il futuro, e se la si identifica solamente e per sempre nel crimine che ha commesso.

Per quanto ci riguarda crediamo infatti che, fermo restando la responsabilità penale e quindi la giusta condanna che stiamo pagando, sarebbe importante sapere che non tutti gli occhi degli altri rimangono indifferenti allo sforzo che facciamo, giorno dopo giorno, nel voler crescere come uomini che molto hanno tolto, ma che ancora qualcosa di buono sentono di poter dare.
È vero che la funzione della carcerazione è quella di punire una persona che ha commesso dei reati e di isolarla dalla società. Difatti ci si trova spogliati di tutto, senza più amicizie, spesso senza più una famiglia che non ti può aspettare in eterno. Si è soli con le proprie colpe, con i rimorsi della propria coscienza, rinchiusi tra quattro mura. Ma a questo punto che valore hanno i tanto declamati “diritti umani”, se non c’è nessuno che ti tende una mano e che ti dice che non sei più solo e che se vuoi puoi tentare di riscattarti?
Allora l’invito che vogliamo rivolgere a tutti e in particolare a chi si trova nelle nostre condizioni in tutte le carceri del mondo, di non smettere mai, di lottare per ottenere condizioni migliori e dignità nel vivere, ma soprattutto che si possa trovare una risposta al senso del vivere e del morire subito e questo possa rendere la vita più bella.

La felicità non è avere l’acqua calda in cella.
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testimonianza

martedì, 29 settembre 2009

Da Wall Street a monaco di periferia
***
 
Henry QuinsonHenry Quinson
Un curriculum eccellente, di quelli che fanno gola alle multinazionali (crisi o non crisi). Triangolazioni continue Parigi, New York, Londra. L’appartamento parigino, con tanto di vista sulla torre Eiffel. Le porte di Wall Street che si spalancano. La vertigine che viene dal manovrare miliardi. La sicurezza che deriva da una competenza costruita con intelligenza e dedizione. E il conto in banca che lievita, assieme alle luccicanti promesse del futuro. Un edificio perfetto quello costruito, mattone dopo mattone, da Henry Quinson.

Agli occhi di tutti – amici, parenti, colleghi – il giovane trader è l’incarnazione dell’uomo di successo. Pur entrando nella stanza dei bottoni di uno degli istituti di credito francesi più importanti, la banca Indosuez, Quinson – franco-americano, classe 1961 – non conosce la voracità del "conquistatore". Il suo profilo non si accorda a quel particolare identikit di manager (la recente crisi che ha infettato le economie di mezzo mondo ne ha svelati tanti), disposto anche a truccare le carte. Anni dopo, quando la sua vita sarà rivoltata come un guanto, Henry Quinson mette a fuoco la sua "malattia", il tarlo che rosicchiava quella vita apparentemente perfetta, l’inquietudine che gli impediva di godere pienamente dei suoi successi.

Con candore lo chiama un «handicap spirituale». La sete di ricchezza si sbriciola, l’ansia di potere scoppia come una bolla di fronte a un’invasione che Quinson sperimenta come «una pace indicibile»: la forza della preghiera. Ma all’ex manager non basta essere un religioso, vuole essere un «innamorato». «È – scrive nel suo diario-testimonianza, Dallo champagne ai Salmi. L’avventura di un banchiere di Wall Street diventato monaco di periferia, San Paolo, pag. 214, euro 18) – una cosa assolutamente folle: devo abbandonare tutto per Lui».

Dell’uomo che nel 1989 mieteva successi nel mondo – competitivo fino al cannibalismo – della finanza oggi non c’è più quasi traccia. L’agente di Wall Street si è dissolto. Al suo posto c’è il monaco. Monaco «di periferia», come si definisce. Una folgorazione? Piuttosto una scalata. Faticosa. A tratti incerta. Accompagnata da un lavorio intellettuale, un’indagine che lo porta a sperimentare, a entrare nel monastero di Tamié, a soggiornare nella comunità di Bose, a chiedersi continuamente quale sia la propria strada.

Quinson si sente sospeso tra la scelta monastica e il tormento per il mondo che lo inchioda e, al tempo stesso, lo spaventa. Una ricerca che finalmente scopre il suo approdo. Marsiglia. Le periferie ingrossate dall’arrivo di immigrati, in gran parte magrebini. Zone di confine nelle quali l’islam diventa ogni giorno di più aggressivo. Quella «linea sismica» lungo la quale Nord e Sud del mondo si annusano, si scontrano, si compenetrano. Degrado. Disoccupazione. Povertà.

Sono i mali che si annidano dietro quei casermoni tutti uguali, nei quali ogni idea di bellezza è congedata, nati come soluzione architettonica provvisoria, ma diventati nel tempo «ricettacolo» delle successive ondate migratorie. L’analisi del monaco-banchiere è lucida: le periferie sono il luogo nel quale finiscono per sommarsi «le logiche tribali», delle quali spesso sono portatori gli immigrati, e «la cultura individualista dell’Occidente
», una cultura che riduce tutto a guadagno. Come agire? Come trasformare i guasti in risorse? La risposta è netta: mettersi alla pari con chi nelle periferie vive e lotta. Niente superiorità, niente altezzose distanze.

Piuttosto sperimentare – giorno per giorno – la vicinanza. Ecco la strada che il monaco sente appartenergli intimamente: fondare una fraternità, la cui prima regola è l’accoglienza. Quinson sa che solo la mutua conoscenza può annullare quella visione dell’altro dietro la quel spesso ci abbarbichiamo, una visione troppe volte «caricaturale, ideologica». Obiettivo numero uno: i giovani. Recuperarli, puntando sull’insegnamento.

La lingua è la prima barriera da abbattere: un muro che finisce per separare non solo alunni e genitori tra i banchi di scuola, ma – all’interno delle stesse famiglie – figli e genitori. L’altro punto di forza: la comunione. Dall’isolamento, dalla non conoscenza nasce la diffidenza, l’odio. La ricetta è mescolare i mondi, favorire gli incontri. Ecco allora il programma del monaco delle periferie farsi regola di vita: «Comunione nelle prove difficili e nel reciproco perdono, comunione della preghiera fraterna e nell’accoglienza del prossimo». Wall Street non abita più qui.
di Luca Miele, tratto da [Avvenire.it] 25 settembre 2009


 

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testimonianza, cristianesimo

domenica, 06 settembre 2009


Marcos y Cleuza
Grazie Signore della loro testimonianza
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testimonianza, zerbini, avvenimento

sabato, 05 settembre 2009


Ieri è morto un amico di mio figlio
 ***
Il padre
«Si era confessato, ora è con il Signore»
Sabato 05 settembre 2009
Vedi le foto Vedi le altre fotoVedi le altre foto «Si era confessato per rispondere alla chiamata del Signore. Siamo contenti che sia morto pronto per andare in paradiso».
Dagli occhi di Massimo Santoru escono poche lacrime. Il dolore per la morte del figlio traspare dallo sguardo. Un dolore enorme, ma che sembra niente in confronto alla fede che lo fa parlare. Il carro funebre si è appena portato via il suo ragazzone di un metro e novanta. «Ma Riccardo è ancora vivo. E noi ringraziamo il Padre per averci regalato questi ventuno anni insieme».
Massimo Santoru, tecnico di radiologia all'ospedale Marino, è sposato con Enrica, fisioterapista. Riccardo è il primo di sei figli. Una famiglia che da più di vent'anni segue il cammino neocatecumenale alla parrocchia Vergine della Salute, nella chiesa del Poetto. «È un ragazzo splendido. Uso apposta il presente perché mio figlio è ancora vivo. Ama lo sport: ha iniziato con il calcio, passando poi per il basket all'Esperia. É campione sardo di canottaggio. Da tre anni si è lanciato nell'arbitraggio. Una passione travolgente. In poco tempo è diventato una promessa. L'anno scorso ha arbitrato molte gare del campionato di Promozione e sarebbe potuto crescere ancora».
Riccardo riusciva a conciliare molte cose. Il padre le ricorda con una punta d'orgoglio: «È al secondo anno di Ingegneria. Uno studente modello. In casa è collaborativo. Tutte le mattine accompagna la sorellina più piccola in asilo. Un'altra passione è la caccia: ci andava spesso con il nonno». In estate non si era fatto mancare un bel viaggio, tra Estonia, Lettonia e Finlandia. Nella sua vita la parte più importante la ricopriva la fede: «Segue il movimento neocatecumenale con noi. La settimana scorsa era andato a trovare le suore di clausura. Un'esperienza che lo ha arricchito. Ieri sera (giovedì, ndr ), dopo un incontro in parrocchia, si era confessato. Si è fatto trovare pronto alla chiamata del Padre, proprio come recita il Vangelo, Vegliate e state pronti, perché non sapete in quale giorno verrà il Signore . La sua morte, per chi non ha fede, è inspiegabile. Noi sappiamo che in questo momento Riccardo è con il Padre, in paradiso. Ed è felice». (m. v.)
 p.s. mio figlio nella foto è il primo a sinistra dell'ultima fila

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testimonianza

mercoledì, 19 agosto 2009

Dr. House: Follia e fascino di un cult movie
 ***
dr. HouseE se il cinico dr. House in fondo fosse buono?  La strana morale di una serie televisiva di successo.
Un’originale lettura di una delle più seguite serie televisive si trova nel libro Dr. House md. Follia e fascino di un cult movie, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 95, euro 9.
Eccovi quasi integralmente l’introduzione degli autori Carlo Bellieni e Andrea Bechi.
Quando vediamo il fornaio impastare il pane, sappiamo che saprà trarne una bella e gustosa rosetta o un ottimo sfilatino:  è il suo mestiere, lavora da anni a questo e la sua bravura non ci lascia stupiti. Se però andiamo a casa di un amico e questi durante la cena ci spiega che il dolce che stiamo mangiando è frutto di un suo personale lavoro di cottura e impastatura, la cosa ci stupisce favorevolmente, perlomeno se il dolce è buono. Se poi il dolce è buonissimo e l’amico era uno che ritenevamo un fannullone, la questione ci incuriosisce e ci rallegra tantissimo.
Questo è il caso della serie televisiva “Dr. House md”. È noto che dalla tv filtrano pochissimi segnali fuori dal coro del politically correct che strombazza e imprime nelle menti poca cultura e due soli “valori”:  l’autodeterminazione (che finisce col diventare solitudine) e il disimpegno. È anche vero che talvolta sono trasmesse fiction con storie di personaggi storici o personaggi religiosi simpatici (ancor più saltuariamente). Ma che Papi e santi comunichino messaggi “cristiani” ce lo aspettiamo. È una sorpresa quando il protagonista (l’eroe) della fiction è un tipo decisamente cinico. Qui sta la genialità di chi ha creato la serie di House:  non essere scontato ma proporre un itinerario eticamente buono usando le parole, le immagini, e anche le debolezze umane che normalmente veicolano ben altro tipo di messaggi.
Perché “una strana morale”? Perché è una morale che “non fa la morale”. Con i suoi aforismi, i suoi apologhi, con le sue idiozie e le battute dei colleghi di House, questa serie riafferma dei valori forti e fermi, pur con le sue contraddizioni, col suo cinismo e il suo ateismo urlato (ma solo per darsi un tono, molto probabilmente). In fondo la morale non è solo escatologia, ma anche riaffermare la verità sull’uomo. Attenzione, comunque:  House è un “cattivo”, è cinico. Ci è richiesto uno sforzo per superare l’impatto con questi comportamenti negativi, per arrivare a capire il messaggio principale della fiction, non fermarsi a quello che si vede, ma fissare il punto decisivo:  il cambiamento e lo stupore di una mente cinica.
Un insegnamento morale può derivare dal modo in cui si affrontano i temi etici, per arrivare a verità più grandi. È questo il motivo per cui per esempio la Chiesa ha così a cuore il suo magistero sociale e in particolare i temi bioetici:  salvare l’uomo dall’attacco all’uso della ragione e alla categoria dell’”incontro”, i due elementi che permettono e facilitano la vita in tutte le sue dimensioni e quindi anche nella dimensione religiosa. Già, il cristianesimo vive di incontri e di testimonianze; ha l’umanissima pretesa di vagliare e giudicare questi incontri e queste testimonianze alla luce della ragione. E questa è la dinamica sociale e reale dell’uomo:  conoscere se stesso scoprendosi riflesso nell’altro, e poi cooperare con l’altro avendo capito che ha i suoi stessi desideri e limiti.
Ora, tante novità sconvolgenti in campo bioetico realizzano proprio l’opposto:  partono dal concetto che ogni uomo è una specie di cavallo rinchiuso in un recinto e in quel recinto  si  gode  la sua supposta libertà.  Hanno  come ideale l’isolamento e la cosiddetta “autodeterminazione”. Mostrano un uso restrittivo della ragione:  non sono infatti più in grado di chiamare “bambino” un bambino (solo perché non è ancora nato), o ostentano terrore verso un supposto “accanimento  delle  cure”, che spesso è solo il tentativo di salvare una vita.
Non a caso l’aborto e l’eutanasia come “diritti” nascono dall’idea che nessuno possa o debba interferire con le decisioni che magari in un momento di solitudine o di disperazione sono state prese. Anche House c’è passato, quando ha voluto salvare un paziente, nonostante il suo testamento biologico!
Ma c’è qualcosa che non torna, anche perché la pratica clinica e la conoscenza dei casi smentisce che queste scelte siano davvero scelte libere:  come sappiamo bene dalla letteratura  scientifica, spesso queste “decisioni libere” nascono da costrizioni esterne e possono essere modificate se arriva chi offre una valida alternativa, soprattutto dal punto di vista umano, e ovviamente - quando  serve - anche economico o sociale.
L’attacco alla ragione e all’incontro tra le persone viene perpetrato dietro un particolare paravento costituito dalla falsa idea che attraverso i “vantaggi” di questa aggressione distruttiva arrivino alla popolazione dei “diritti” nuovi, i cosiddetti “diritti civili”, di molti dei quali, se guardiamo bene, faremmo tranquillamente a meno. Queste allegre “concessioni” di diritti ad alcuni hanno il loro rovescio della medaglia:  man mano che i nuovi diritti arrivano, quelle categorie che non possono reclamare la loro “autodeterminazione”, cioè bambini, anziani e disabili vengono a perdere sempre più i loro. Insomma, sempre più “diritti artificiali” per sempre meno persone:  chi non sa o non può farsi sentire, resti senza diritto di cittadinanza, addirittura senza la possibilità di definirsi “persona” secondo quanto affermano molti filosofi di moda.
Questo libro nasce dal fascino di un personaggio di una favola televisiva; conoscendolo meglio abbiamo scoperto che nelle storie che di lui vengono raccontate emerge e ci stupisce potentemente il modo positivo di guardare la realtà. E guarda caso, questo modo di guardare la realtà è proprio quello che sta alla base della comunicazione del messaggio cristiano e che tutto, nella società d’oggi, vuole  nascondere:  l’uso potente e non censorio della ragione e la potenza del contatto umano (che, in questo caso, mostra la sua potenza terapeutica proprio quando il protagonista vorrebbe rifiutarlo; ma, dentro di sé, esplode qualcosa che glielo impedisce).
Che questi messaggi positivi nascano da un personaggio “cattivo” in fondo ci piace:  serve a dare meno spazio al sentimentalismo e più fiducia al nostro essere fallaci (ma redimibili) esseri umani.
© L’Osservatore Romano - 11 luglio 2009


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testimonianza

giovedì, 13 agosto 2009

testimonianza
Li Lu Male
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Mi scuso, vorrei poter parlare italiano, questa lingua così bella. Quando sono arrivato in questa terra ho incominciato a sperare che avrei potuto incontrare persone di alta grandezza morale e adesso sono qua con voi tutti, amici miei. Ieri, quando siamo stati insieme, sono rimasto veramente colpito e mi ha commosso vedere questi studenti che cantavano canzoni. Improvvisamente mi è sembrato di essere ritornato sulla piazza Tienanmen, e ho capito che dovunque persone giovani si uniscono e condividono idee comuni, non vi sono differenze.
Voglio descrivervi come era la situazione prima del movimento. Il popolo cinese viveva e vive una vita miserevole e la situazione è molto grave. Vi è un'inflazione molto forte, nessuna libertà di parola. I problemi si ripetono. Già nel 1919 gli studenti volevano parlare, levare la loro voce, in quanto rappresentanti della gente comune, per poter dare suggerimenti al governo. Niente di più. Il 15 aprile l'ex Segretario di Stato, che veniva considerato dagli studenti come un simbolo della riforma democratica, è morto. Gli studenti hanno organizzato una manifestazione in sua memoria e sono scesi nelle strade per rendere chiaro quello che volevano. L'atteggiamento del governo è stato del tutto al di là di qualsiasi possibilità di immaginazione. Vorrei darvi un esempio: il 21 aprile più di 100.000 studenti erano seduti sulla piazza pacificamente, solo per scrivere un documento nel quale esprimere i nostri desideri. Abbiamo scritto col nostro sangue per poter presentare questo documento ai nostri governanti. Abbiamo dovuto presentarlo al Congresso. Abbiamo dovuto aspettare per più di 40 minuti e non vi è stata nessuna risposta.

Il 26 aprile, il governo ha dichiarato che il movimento degli studenti rappresentava un disturbo e una insurrezione contro l'ordine. Potete immaginarvi quali erano i nostri sentimenti: quello che chiedevamo era una cosa molto semplice, aprire un dialogo con i leader del governo. Per questo davamo suggerimenti in nome della gente comune, gente della strada. Ma una questione così semplice non può essere risolta in questo modo. Verso la metà di maggio - mi ricordo che era un giorno pieno di luce e di sole, la stagione della primavera, quando i fiori riempiono le nostre aiuole, ma un giorno per noi di profonda tristezza - migliaia di amici, di studenti, hanno deciso di iniziare lo sciopero della fame. Non avevamo nessun altro modo per fare ascoltare le nostre richieste. Nel recarci sulla piazza di Tienanmen, io e i miei amici ci sentivamo veramente molto tristi. Vedevamo i fiori ai lati della strada, Ciao Lin ne ha colto uno e ha detto: "E’ un po' come la nostra vita, quella dei fiori. Un fiore così bello morirà e questo è come la nostra vita".
Prima di iniziare lo sciopero della fame sulla piazza Tienanmen, alcuni professori ci hanno invitato a fare un'ultima cena insieme. E’ un'abitudine, un costume cinese, significa che tutti noi ci impegniamo a sacrificarci. Quando abbiamo iniziato lo sciopero della fame non avevamo stabilito una data finale. Abbiamo semplicemente cercato di ascoltare le nostre coscienze. Ci siamo detti: se non raggiungiamo il successo per le nostre richieste, continueremo all'infinito, fino a che non saremo morti. Quindi, per sette giorni completi, più di 3.500 studenti hanno continuato lo sciopero, sono svenuti, sono stati inviati all'ospedale, alcuni di questi sono ritornati e hanno continuato a star male e a svenire. A me è successo tre volte, un amico dieci volte è ritornato e dieci volte è svenuto. In ospedale si è risvegliato e ha visto che i medici lo stavano trattando con glucosio, si è rifiutato di seguire questo trattamento, ha solo chiesto un poco di acqua ed ha ripreso lo sciopero della fame. Ma di fronte a questa azione così coraggiosa il governo ha continuato a non dare risposta e così siamo giunti all'ottavo giorno dello sciopero della fame: quel giorno il governo ha annunciato che veniva imposta la legge marziale a Pechino. Da 200.000 a 300.000 soldati vengono così inviati a Pechino, ma il nostro popolo si è schierato accanto agli studenti che stavano facendolo sciopero della fame. Più di 10.000, 11.000 persone che facevano lo sciopero della fame, e milioni di cinesi che li sostenevano, quando hanno sentito che era stata imposta la legge marziale, più di un milione di persone in modo autonomo ed istintivo si sono organizzate per bloccare, con i loro corpi, le truppe che cercavano di entrare nella città. È qualcosa che mi ha colpito, è stato veramente commovente vedere persone anziane, vecchie donne e uomini che con i loro stessi corpi cercavano di bloccare i camion, pronti a morire. Volevano proteggere le vite dei giovani. Non so come posso descrivere i sentimenti che provavamo sulla piazza Tienanmen. Siamo rimasti li più di tre settimane. Dormivamo sulla pietra. Lo sciopero della fame era la nostra unica maniera per presentare delle semplicissime richieste. Siamo stati sostenuti, appoggiati dal popolo cinese e anche dai popoli di quasi tutto il mondo.

E a volte ci è sembrato di avere già vinto, perché avevamo risvegliato i popoli, avevamo fatto capire quale può essere il significato del potere del popolo. Le persone comuni hanno capito che potevano alzare la voce per chiedere che fossero rispettati i loro diritti, in quanto esseri umani che hanno una loro piena dignità. Si trattava di persone complete, che potevano farsi ascoltare: e in quei giorni gli studenti hanno dimostrato anche di avere grosse capacità organizzative. Ogni giorno ci si organizzava per bloccare le stazioni della metropolitana, ma anche per far sì che la vita dell'intera città si svolgesse con ordine. Nel corso di quei giorni si pensava che l'ordine in Pechino fosse qualcosa che appartenesse ormai alla storia passata di Pechino e invece siamo riusciti, e questo è stato ripreso da tutti i giornali, ad organizzare cinque comitati che hanno regolato l'intera vita della città, conservandola come prima: questo ha scatenato l'appoggio del popolo agli studenti. È uno tra i dati più interessanti, ma è anche un simbolo per dimostrare che i cuori, i sentimenti di tutti erano dalla parte degli studenti. Ma qual è stata la reazione del governo e cosa è questo governo che ha scatenato il massacro?
I miei amici vi hanno appena descritto il massacro. Io non voglio ripetere questa triste storia, ancora adesso mi è insopportabile raccontare, penso che tutti voi possiate capire i nostri sentimenti. Vorrei soltanto dire una cosa. Gli studenti, quegli studenti che sono stati feriti, colpiti, sono studenti come voi e si sono trovati di fronte a delle truppe pericolose, però hanno cercato di reagire nel modo più pacifico e non violento possibile. Vorrei darvi degli esempi. Il 21 maggio si è avuto il primo momento di pericolo; ci veniva detto che l'esercito stava cercando di entrare nella piazza e che si preparava ad attaccarci con gli elicotteri, dall’alto, facendo scendere i soldati sugli studenti. E vi erano varie dozzine di elicotteri che volavano sopra la piazza Tienanmen. Cosa hanno fatto gli studenti? Hanno lanciato in aria dei palloni, non conosco il termine esatto in inglese, ma erano come aquiloni di carta, che da bambini si usano per giocare. Pensavamo che questi fragili aquiloni di carta potessero bloccare gli elicotteri. Poi c'è stato un altro momento di estremo pericolo. Una giovane coppia che faceva lo sciopero della fame ha annunciato di volersi sposare sulla piazza Tienanmen. Lo hanno annunciato di fronte a tutti gli studenti. Molti hanno partecipato a questa cerimonia di matrimonio. E questo è per noi un simbolo, per dimostrare che crediamo che la vita continuerà, anche se in segreto, perché la vita è qualcosa di sacro, significa dignità e ogni qualvolta soffriamo, siamo ancora degli esseri umani, e se dobbiamo morire, e se moriremo, lo faremo come veri e completi esseri umani e comunque continueremo a lottare e passeremo la consegna alla generazione che ci segue. Molte persone sono venute alla cerimonia di matrimonio e volevano dare tutti i regali possibili a questa giovane coppia. Naturalmente si trattava di persone molto povere, che non hanno niente e non possono trovare grossi regali, però dimostravano i loro sentimenti, il loro amore per la vita. Alcuni hanno dato come regalo una penna, alcuni una tazza d'acqua, altri hanno dato un piccolo pezzettino di sapone. Un operaio voleva perlomeno firmare qualcosa e non aveva carta, non aveva niente, allora ha deciso di strappare un pezzo della sua camicia e l'ha dato, come la cosa più vicina al suo corpo, al suo cuore. Mi spiace, forse capite perché non posso continuare sono il fratello di questa giovane coppia. Vi ringrazio profondamente
Dal vostro applauso sento che siamo gli stessi, uguali, un unico essere umano, possiamo capirci, tutti noi amiamo la vita. Quel giorno io ho coniato uno slogan, ho detto: "Abbiamo bisogno di lottare, ma abbiamo anche bisogno di essere felici". Grazie. Il mondo appartiene e apparterrà sempre a coloro che sono esseri umani completi. Ancora una cosa.
Il 26 maggio gli studenti hanno deciso di fare un concerto. 3.000 cantanti sono stati invitati alla piazza Tienanmen e hanno tenuto un concerto per l'intera notte. Studenti e persone cantavano e ballavano. Non ci importava, se i soldati sarebbero venuti, se ci avessero ucciso. Noi volevamo essere felici, volevamo godere la vita. Il 4 giugno è iniziato il massacro. Gli studenti decisero di creare un'università che si sarebbe chiamata Università di Democrazia della piazza di Tienanmen e hanno anche fatto questo statuto della democrazia e una statua intorno a cui abbiamo celebrato la creazione di questa università. Abbiamo fatto dei discorsi. Questo è durato due ore, le sole due ore di vita di questa università. Poi i carri armati sono entrati nella piazza e hanno spazzato via tutto quello che avevano creato. Gli studenti, gli operai, gli intellettuali, i cittadini, tutti sono stati uccisi e così anche la statua della nostra Università della Democrazia è stata spazzata via. È l'università che ha avuto la vita più breve del mondo intero. Però penso sia l'università più grande del mondo. Capisco che il vostro cuore è dalla parte degli studenti cinesi, e quindi in futuro potremo lottare uniti. Non vi saranno differenze fra italiani e cinesi. Noi vogliamo unicamente che ci venga concesso di vivere come esseri umani. Adesso vorrei dire qualche cosa che riguarda la mia fuga dalla Cina. Ero considerato uno dei leader degli studenti più ricercati dal governo in Cina. La lista dei criminali ricercati viene spedita nell'intero Paese, quindi è quasi impossibile fuggire, perché la Cina ha un sistema di polizia segreta estremamente ramificato per poter controllare le persone. Ma c'è un movimento clandestino, tutte le persone riescono comunque a offrirvi sostegno.
Non vi posso dire il nome delle persone che mi hanno aiutato a fuggire dalla Cina, è stata una cosa molto pericolosa per loro.Il governo, questo governo assassino, ha arrestato più di 120.000 persone, e varie centinaia sono state condannate a morte e uccise, ma sempre in modo clandestino. L'intera Cina, l'intero Paese, sta ormai diventando una Bastiglia, una enorme prigione, ogni gesto è pericoloso, ognuno deve criticare gli altri e autocriticarsi. È come quello che hanno fatto durante la Rivoluzione Culturale, nel corso di quei tristi tempi più di 16 milioni di persone sono morte. Adesso il governo assassino vuole che la storia si ripeta, ma non possono farlo: la situazione è totalmente diversa. Molti leader, intellettuali, sono stati aiutati a fuggire dalla Cina e adesso vi è una certa forma di resistenza. Il governo ha perso qualunque fondamento legale nel cuore del popolo cinese. Dopo il massacro, io ho sentito che la mia vita non era più qualcosa che mi appartenesse, il mio stesso sangue rappresenta un continuum con il sangue di quegli studenti che sono morti sulla piazza di Tienanmen, il loro sangue è collegato per sempre con la mia vita.. Per tutta la mia vita io sarò profondamente impegnato in questo movimento per il ritorno della democrazia in Cina.
La nostra lotta ha uno slogan molto semplice: democrazia per la Cina, diritti umani per i cinesi. Adesso in Cina possiamo ancora fare qualche cosa e noi che siamo fuori possiamo aiutare. Uno dei programmi è ricostituire tutte le strutture proprie alla democrazia. So che vi sono degli insegnanti, per esempio negli Stati Uniti, in California, che hanno deciso di creare un fondo per ricostruire le strutture di democrazia sulla piazza di Tienanmen. Mi hanno parlato del vostro movimento qui in Italia, sono stupito e commosso da quanto avete fatto, io posso capire la vostra lotta, quello che voi state facendo perché qualche cosa che vuol portare a trattare gli essere umani come tali. È esattamente quello che noi studenti vogliamo, quello per cui lottiamo, quello che vogliamo per il popolo cinese. Quindi penso che tutti voi potrete offrirci il vostro sostegno per quello che sarà un lavoro comune. Ancora un altro dei nostri programmi: ricostruire questa università di cui vi ho parlato, vogliamo che sia veramente una università internazionale. Penso che sia possibile cooperare, lavorare insieme. Ieri, mi ha commosso una canzone molto bella, ha lasciato una profonda impressione nel mio cuore (era "Povera Voce" ndr).
Per concludere il mio intervento, io vorrei ricantare questa canzone con voi tutti; la canzone parla di gente comune, normale, esseri umani che dicono: il nostro mondo è piccolo ma bello, un mondo uguale per tutti. Vorrei cantare questa canzone con voi, amici miei, e vorrei invitare tutti i miei amici a cantarla. L'ho imparata solo pochi minuti fa, ma vorrei che tutti voi mi insegnaste, proviamoci insieme.



Li Lu Male,ha studiato fisica e poi economia, ha organizzato nella sua città diversi circoli di discussione con altri giovani. Appena iniziati i fatti della Tienanmen, si è coinvolto attivamente con il movimento dei giovani. È stato responsabile del comitato direttivo dello sciopero della fame, che egli stesso ha praticato, e del comitato di gestione della piazza Tienanmen e portavoce ufficiale di questo movimento. Ha parlato alle Nazioni Unite, è riuscito, tra i pochissimi, a fuggire dalla Cina, figura nell'elenco dei 21 peggiori criminali del suo Paese.  Meeting di Rimini - agosto 1989

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comunismo, testimonianza

sabato, 25 luglio 2009

Ivan Medek, l’apostolo del dissenso
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Europa dell’Est • A 83 anni uno storico oppositore del regime comunista cecoslovacco racconta in un libro la lotta per la libertà condotta con Havel che poi lo volle come suo braccio destro • Cattolico convinto, fu tra i primi firmatari di «Charta 77» • Espulso dal Paese, ritornò solo nel 1989 • Scrive del primo presidente della Repubblica ceca: «È stato sempre una persona coraggiosa, sia in prigione, sia al potere. Non ha la pelle dura, ma per il nostro popolo ha fatto più di qualsiasi altro»
di Roberto Beretta
Tratto da Avvenire del 22 luglio 2009
È stato uno dei 5 invitati alle seconde nozze di Václav Havel nel 1997, quando il drammaturgo e fondatore di «Charta 77» ha sposato in segreto l’attrice Dasa Veskrnova, pochi mesi dopo la scomparsa della prima moglie Olga Havlova – mol­to amata dai praghesi. Ed è stato per quasi 6 anni, dal 1993 al 1998, il braccio destro del presidente ceco al Castello di Praga, come suo fedelissimo capo di gabinetto. Eppure pochi immaginerebbero che Ivan Medek – oltre che anticomunista a tutta prova, tra i primi fi­matari di «Charta 77», dissidente a lungo perseguitato dal regime e costretto ad espatriare dal 1978 alla caduta del Muro – sia anche un cattolico, anzi un convertito: per­ché non è del tutto scontato pen­sare che l’intellettuale più «laico» del dissenso, il presidente agnosti­co Havel, abbia personalmente voluto al suo fianco un credente convinto come Medek. Eppure lo racconta il protagonista stesso, che oggi ha 84 anni e vive a Praga, in un libro intitolato «A gonfie vele» nel quale raccoglie alcune conversazioni radiofoniche autobiografiche e che la ricercatrice udinese Tiziana Menotti ha tradotto in italiano sia per la sua tesi di specialità, sia con la speranza di trovare un’editrice che faccia conoscere anche da noi la straordinaria espe­rienza di un uomo purtroppo poco conosciuto nel Belpaese.
E invece Medek viene da una famiglia molto nota in Cecoslovacchia: la nonna materna di Ivan, rimasta vedova di Antonín Slavícek (il maggiore esponente dell’impressionismo ceco, morto suicida appena quarantenne), si era risposata con il pittore Herbert Masaryk, figlio di Tomáš Garrigue Masaryk primo presidente della Cecoslovacchia dalla fondazione delle Repubblica nel 1918 al 1935. Casa Medek dunque fu per tutti gli anni Venti uno straordinario foyer culturale, ma anche politico, assai vi­vace e accolse molti degli spiriti più creativi della nazione. Anche Rudolf Medek, padre di Ivan, arruolatosi nel 1917 come volontario per combattere gli austriaci in Russia, era poeta e scrittore.
Né la vena artistica familiare si era esaurita lì: Mikuláš – fratello minore di Ivan, morto nel 1974 – è considerato uno dei maggiori rappresentanti della pittura contemporanea ceca. Ivan, nato nel 1925, ha talento da musicista: ha studiato al conservatorio fino al colpo di Stato filo-sovietico del 1948, poi ha fatto il manager nella Filarmonica ceca prima di essere licenziato per mo­tivi politici, quindi ha lavorato presso una casa discografica, poi come inserviente in un ospedale, da lavapiatti in un’osteria: sempre più giù nella scala sociale ma sempre senza perdere la sua dignità e l’aristocratica ironia. Nel 1968 Me­dek ha partecipato pure ai fermen­ti della Primavera di Praga con Havel («Era il più giovane di noi ma aveva le idee molto chiare e assunse la direzione» del gruppo, testimonia). Nel frattempo però aveva incontrato il cristianesimo: «La conversione di Ivan Medek al cattolicesimoscrive Tiziana Menotti avvenuta negli anni Cinquanta acquisì vigore per la frequentazione di diversi sacerdoti che avevano resistito alle pressioni del regime per una Chiesa nazionale staccata dal Vaticano, pagando con la persecuzione e il carcere duro la loro fe­deltà a Roma. Tra questi c’era Antonín Mandl, collaboratore del cardinale Beran e segretario dell’Azione cattolica cecoslovacca che, come molti altri prelati, aveva trascorso pa­recchi anni in prigione prima di essere rilasciato negli anni Sessanta». Padre Mandl introdusse Medek presso numerosi sacerdoti dissidenti, come l’abate e poeta Anastáz Opasek (arrestato nel 1949 con l’accusa di tradimento e spionaggio per il Vaticano e condannato all’ergastolo nel 1950), Ota Mádr, Josef Zverina, Antonín Bradna o il salesiano padre Mrtvý: «Dopo essere usciti di prigione si incontravano di tanto in tanto e a volte mi invitarono alle loro riunioni. Lì conobbi persone che non dimenticherò. Quasi cominciai a invidiare le loro esperienze del carcere. Nonostante le guardie spesso li avessero picchiati e fossero stati volgari con loro, essi avevano conservato una libertà radiosa, quale pochi a­vevano al di là del muro del carcere. L’attività di questi cristiani fu stimolante sotto tutti gli aspetti.
Essi ad esempio aprirono discussioni pubbliche tra cristiani e marxisti. Era sempre pieno di gente, accadeva davvero qualcosa.
Durante la normalizzazione queste attività furono vietate, ma un seme rimase e più tardi da esso nacquero vari gruppi indipendenti». Grazie a tali conoscenze, Medek diventa uno dei principali collegamenti tra dissenso laico e religioso: «Nel marzo 1968 – ricorda – Karel Pilík, un prete cattolico che come gli altri sacerdoti scarcerati non aveva il nulla osta dello Stato per l’esercizio dell’ufficio sacerdotale e lavorava come operaio, propose una petizione per rivendicare la distensione del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, il ripristino delle scuole ecclesiastiche, l’insegna­mento della religione, la nomina dei vescovi e così via.
Stilammo la petizione e Pilík propose di farla firmare anzitutto ai vescovi. Io avevo a quel tempo un’automobile Škoda e andammo dai vescovi. Incominciammo con il vescovo Tomášek; non era ancora cardinale. Rifletté a lungo, ma alla fine firmò. Poi, uno dopo l’altro, facemmo visita agli altri vescovi.
Moltissimi di loro avevano una paura terribile. Erano stati rilasciati dal carcere con la condizionale e non volevano ricadere in qualche violazione. Ma firmarono tutti. Poi andammo nei monasteri e alla fine facemmo firmare la petizione ai credenti. Raccogliemmo circa 336. 000 firme. Consegnammo la petizione, ma loro la bloccarono.
Non se ne fece assolutamente nulla». Nel gennaio 1977 Medek è uno dei primi fra i 1900 firmatari di «Charta 77»: «Me la portò un amico al caffè nel dicembre 1976. Disse che avevano riflettuto se farmelo firmare, perché per me poteva significare la fine dell’esistenza.
Dissi che lo sapevo, ma firmai. A volte, dopo Natale, ci riunivamo nell’appartamento di Havel e ordivamo piani. Lì si decise chi sarebbe stato il portavoce e quando sarebbe seguita la riunione successiva, doveva essere in gennaio. Solo che finimmo in trappola».
Medek viene subito licenziato, ma fa causa alla ditta e durante il processo il suo avvocato chiede inutilmente che venga letto in aula il motivo del licenziamento, cioè «Charta 77»: un pretesto per rendere pubblico il documento. «Nel maggio 1978 – continua Medek – mi capitò un fatto spiacevole. Dopo un interrogatorio alla polizia segreta mi portarono via di sera con gli occhi bendati in un bosco.Mi pestarono un poco finché persi conoscenza, se ne andarono e mi lasciarono lì. Allora pensai che se volevo compiere davvero un lavo­ro proficuo, non potevo farlo in patria in quelle condizioni». Medek lascia dunque il Paese per trasferirsi a Vienna, dove lavora per le emittenti radiofoniche Voice of America e Radio Free Europa svolgendo un importante lavoro di controinformazione diretta alla Cecoslovacchia.
Solo nel 1989 potrà tornare in patria: «All’incontro di fine anno di Charta 77 e dei suoi fautori incontrai Václav Havel, a quel tempo già presidente. Gli chiesi un’intervista. Il presidente mi ricevette al Castello il 14 gennaio. Mi chiese che cosa poteva fare per me. Dissi che ero venuto a chiedergli che cosa potevo fare io per lui». Infatti, dopo aver lavorato qualche tempo per il governo, Medek diventa – già anziano – il braccio destro di Havel. «Fu uno dei periodi più belli della mia vita.
Václav Havel è una persona enormemente interessante e bisogna prenderlo così com’è. È anche una persona straordinariamente coraggiosa. Si è rivelato tale in tutti i momenti della sua vita: in prigione, durante gli interrogatori e durante il lavoro in ufficio. Inoltre è sensibile, vulnerabile: ciò non dovrebbe corrispondere al suo coraggio. Non ha la pelle dura. Ed è molto modesto. Quei 6 anni al Castello per me non significarono soltanto lavoro e spesso decisioni politiche complicate, ma soprattutto la possibilità di conoscere da vicino una persona di cui sono convinto che, per la nostra re­pubblica, abbia fatto più di qualsiasi altro».


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comunismo, testimonianza

domenica, 28 giugno 2009

Arcipelago Gulag in Romania:
ciò che nessuno aveva mai raccontato
La testimonianza è di pochi giorni fa. È stata letta in Vaticano da un prete greco-cattolico che è stato sedici anni nelle prigioni comuniste. Ai limiti dell´immaginabile

di Sandro Magister                                    
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ROMA - Due libri, due opposte fortune. Mercoledì 24 marzo, in un hotel romano di lusso, il portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls ha presentato alla stampa di tutto il mondo l´ultimo libro di papa Karol Wojtyla, il racconto autobiografico dei suoi anni di vescovo di Cracovia. Intitolato "Alzatevi, andiamo", edito da Mondadori, tradotto in numerose lingue, il libro ha il successo assicurato. Il suo semplice annuncio ha avuto un´enorme copertura mediatica.

Immeritatamente trascurata e clandestina, invece, si prospetta la vita di un altro libro presentato 24 ore prima, martedì 23 marzo, nella sala stampa vaticana.

Il volume ha per titolo: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell´Europa del Novecento". Raccoglie gli atti di un convegno di storici tenuto in Vaticano nel 1998 sulle persecuzioni delle Chiese dell´est. È stato stampato nel 2003 dall´Editrice Vaticana. Ma nelle librerie è praticamente introvabile. Persino lo scaffale virtuale di Amazon.com lo ignora.

Eppure questo è un libro decisamente fuori dell´ordinario. E ancor più lo è stata la sua presentazione, anch´essa passata sotto immeritato silenzio.

Per capirlo, basta leggere il testo riprodotto qui sotto, letto dal suo autore proprio durante la presentazione del volume, in Vaticano. L´autore è un anziano sacerdote della Chiesa greco-cattolica di Romania che ha passato sedici anni nelle prigioni comuniste. Il racconto della sua prigionia è concretissimo e insieme spirituale. Un po´ Solgenitsin, un po´ atti dei martiri. Tra mistero d´iniquità spinto ai limiti dell´immaginabile e Grazia. Con la "Santa Provvidenza" che opera per le mani inconsapevoli degli aguzzini.

In tempi in cui il martirio è parola abusata, applicata anche agli "shahid" islamisti che si fanno esplodere per fare strage, questa è una testimonianza che aiuta a restituir verità. Assolutamente da non perdere.



 



"Ma è più grande il Cielo sopra di noi"

di Tertulian Ioan Langa



Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste.

A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia dell´università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante, di iscrivermi d´urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto al potere dai blindati sovietici.

Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco. Quindi non c´era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice penale dell´epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura, apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali. Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con perfetta logica comunista: "Nel dossier dell´accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui". Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!". E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu la sentenza.

Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della nunziatura.

Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti riferisco soltanto alcuni momenti.

Sono stato arrestato a Blaj, nell´ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro martire, era all´epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l´estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza.


LA VERGA DI FERRO



Ricordo il giovedì santo dell´anno 1948.
Da due settimane, ogni giorno, mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per farmi arrivare più morbido all´interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino, già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari dell´umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell´interrogatorio. D´altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l´annientamento della persona, fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.

In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava l´ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come, urlai da quell´inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d´avermi piegato. Mi trascinarono con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l´inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti, i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiosi, i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata.


LA LUPA


Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò dopo un po´ di tempo davanti alla porta: "Vediamo, cosa c´è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? È Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei cosa devi fare.
Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di soli tre metri?". Nella stanza c´era anche una lampadina di 300 watt, troppo per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l´alba, vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell´edificio. Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso. Quando cominciai a perdere l´equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio.

Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione. Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo, senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle
parole dei miei carnefici che seppi d´aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.


IL SACCHETTO DI SABBIA


Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c´era un aguzzino impalato e muto. A una scrivania, nell´angolo, un individuo calvo con una barbetta da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo la testa. Il mio boia capì il comando.
Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello l´idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall´organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l´autosuggestione avevo impiantato in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo di quell´unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi, automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento, io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico.


VENTOTTO CENTIMETRI


Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori
, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d´acqua. Nulla e nessuno vi resisteva tranne l´uomo, il più alto tesoro del materialismo storico. Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l´esperienza delle sardine: però non nell´olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l´osso omerale e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull´anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz´ora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l´altro, ci voltavamo sull´altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c´era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all´orina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l´orina e le feci di settanta uomini. Non aveva coperchio e l´odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame l´intero organismo e ogni suo orifizio.


IL "FILTRO"



Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l´ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d´egualitarismo. Le finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate.
La mancanza d´aria era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d´ossigeno.
Contribuivamo così, a nostro modo, all´edificazione del più umano sistema del mondo. Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilirono che noi rumeni dovessimo finire macinati dalle fauci del Moloch orientale rosso e facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa?


NUDI NEL GELO



Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del terrore della prigione di Aiud. L´accoglienza si svolse secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell´uomo creato dall´amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d´ossigeno, ma
fummo sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante, una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova.

Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo, né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo.

Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati, il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700, l´anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All´anagrafe, ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale potei contare all´incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a una gallina.


CAMMINARE O MORIRE


Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall´altra parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei ?". Era un ex ministro della sanità che, udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te.
Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezz´ora, quando il sole si fermava avaro per noi nell´angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi.
Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi, moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.


MA TUTTO È GRAZIA


Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo, in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l´ultimo respiro: "Consummatum est", tutto è compiuto.

Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche possono essere superate dalla volontà?
E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l´hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66).

Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia - impazienza benevola di Dio - e della nostra volontà di rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta non frena l´uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.

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comunismo, testimonianza

domenica, 17 maggio 2009

LA GUARIGIONE DI WANDA POLTAWSKA
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Estratto dal libro di Renzo Allegri: 
I miracoli di Padre Pio. Mondadori Editore.

Inchiesta giornalistica sui fatti prodigiosi attribuiti al frate con le stigmate ora diventato santo
Nel 1962, Karol Wojtyla era vescovo ausiliare a Cracovia. Il l ottobre di quell'anno veniva inaugurato il Concilio Vaticano il e Karol Wojtyla aveva raggiunto la capitale italiana insieme ad altri 24 vescovi polacchi e al cardinale Wyszynski per partecipare a quello straordinario evento della Chiesa. A Roma aveva preso alloggio presso il Collegio Polacco, che si trova sul colle Aventino, in un posto bellissimo, pieno di sole, di verde, da dove si può godere la veduta di tutta la città. Era felice di essere tornato nella "città eterna" dove tanti anni prima aveva studiato Teologia. Doveva rimanere in quella città fino alla metà di dicembre e aveva in programma, oltre agli impegni conciliari, mille progetti. Aveva partecipato con gioia alla Messa dell'apertura del Concilio celebrata nella Basilica di San Pietro. Tutte le mattine si recava alle assemblee con entusiasmo. Ma tra tante gioie e soddisfazioni, una sera, rientrando nel Collegio Polacco trovò una lettera con una dolorosa notizia: la dottoressa Wanda Poltawska, moglie del suo amico Andrei, era malata. Era stata ricoverata in ospedale e gli esami clinici avevano messo in evidenza la presenza di un tumore.
Karol Wojtyla conosceva bene quella donna. Era una delle sue migliori collaboratrici. Wanda Poltawska proveniva da una famiglia polacca cattolicissima. Da giovane aveva fatto parte dei movimenti cattolici di Cracovia. Era stata un'esponente della gioventù cattolica femminile polacca. Per questo, durante la guerra, dopo l'invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, era stata arrestata e internata nei campi di concentramento nazisti, dove era rimasta cinque anni, tra sofferenze e disagi incredibili, sopportati sempre con grande fede e con rassegnazione. Ritornata in patria, aveva ripreso gli studi universitari e la sua attività nei gruppi della gioventù cattolica. Dopo quello che aveva subito e sofferto, era diventata un esempio per i suoi coetanei. E fu in quegli anni che Karol Wojtyla la conobbe. Karol era un giovane sacerdote. Era da poco stato nominato vicario nella chiesa di San Floriano, nel centro della città. il suo incarico principale era quello di interessarsi degli studenti, dei gruppi giovanili cattolici. Wojtyla era già laureato in Teologia e Filosofia. Teneva conferenze che erano seguitissime dai giovani cattolici. Intorno a lui si radunavano folti gruppi di universitari, assetati di ideali umanitari e religiosi. Tutti restavano incantati dagli insegnamenti di Karol e dal suo comportamento. Questi giovani avevano bisogno di restare periodi sempre più lunghi con lui per discutere, parlare. Allora Karol Wojtyla aveva pensato alle escursioni in montagna. Lassù, lontani dai rumori della città, a contatto con la natura, si parlava meglio di Dio e dei problemi della vita.
Tra i frequentatori di quelle escursioni, che si ripetevano più volte l'anno e che duravano anche più di una settimana, c'erano sempre Wanda Poltawska e suo marito Andrei. Erano laureati in Medicina e specializzati in Psichiatria. Erano interessatissimi ai temi che Karol Wojtyla trattava, soprattutto quelli inerenti i problemi della coppia. Spesso si fermavano a discutere con lui portando il loro contributo di medici. Wojtyla intuì la fede profonda che animava quei due giovani e divenne loro amico. Karol era solo al mondo. Sua madre Emilia era morta quando lui aveva soltanto nove anni; il fratello maggiore, Edoardo, medico, era morto subito dopo aver conseguito la laurea, e suo padre se ne era andato all'improvviso per infarto nel 1942, quando egli aveva 21 anni. Una serie di disgrazie familiari terribili che avevano profondamente segnato il suo animo sensibilissimo. Non avendo più nessuno al mondo, Karol Wojtyla a volte sentiva molto il peso della solitudine. Ma da quando aveva fatto amicizia con Wanda e Andrei, quella sofferenza interiore era quasi scomparsa. Andrei e Wanda erano diventati fratelli per lui, e la loro famiglia era diventata la sua famiglia adottiva. Avevano continuato a lavorare insieme per anni. Avevano fondato gruppi di ricerca. Avevano scritto libri, organizzato conferenze, sempre sui problemi della famiglia. Poi Karol Wojtyla era diventato professore universitario, era stato nominato vescovo. La famiglia dei suoi amici era aumentata. Wanda e Andrei avevano avuto quattro bambine. Wojtyla andava a trovarle, giocava con loro e le bambine lo chiamavano "zio". Era un'amicizia stupenda, profonda, quella di Karol e della giovane famiglia di Andrei Poltawska" un'amicizia che arricchiva il cuore. E ora, ecco la notizia tremenda: Wanda stava per morire. Di fronte a quella lettera, Karol Wojtyla provò il dolore di quando aveva perduto i suoi cari. Cominciò a pregare per la sua amica. Chiedeva al Signore di allontanare da quella famiglia una tragedia immane. Wanda aveva soltanto 40 anni. Le sue bambine avevano bisogno della mamma. Karol Wojtyla pregava con fervore, ma le notizie che giungevano dalla Polonia erano sempre più brutte. Il male progrediva rapidamente. La dottoressa Poltawska doveva essere sottoposta a un intervento chirurgico ma, data la gravità della malattia, le speranze che potesse salvarsi erano poche. Karol Wojtyla intensificò le sue preghiere. Chiedeva preghiera ad amici e sacerdoti, a suore che conosceva. Poi, improvvisamente, si ricordò di padre Pio che egli aveva conosciuto nell'immediato dopoguerra. Era andato a trovarlo nel 1947. Si era confessato da lui e ne aveva riportato una grande impressione. Credeva nella santità di quel frate e decise di rivolgersi a lui.
Prese carta e penna. Su un foglio intestato "Curia metropolitana cracoviensis", la diocesi di Cracovia, scrisse, in un latino frettoloso, una breve lettera che porta la data del 17 novembre 1962. "Venerabile padre, ti chiedo di pregare per una certa madre di quattro ragazze, che vive a Cracovia in Polonia (durante l'ultima guerra fu per cinque anni nei campi di concentramento in Germania) e ora si trova in gravissimo pericolo di salute, anzi di vita a causa di un cancro. Prega affinché Dio, con l'intervento della Beatissima Vergine, mostri misericordia a lei e alla sua famiglia. In Cristo obbligatissimo Karol Wojtyla".
La lettera venne consegnata ad Angelo Battisti che, in Vaticano, era molto conosciuto perché lavorava alla segreteria di Stato. Essendo egli amministratore della Casa Sollievo della Sofferenza, era un amico di padre Pio ed era quindi una delle poche persone che potevano avvicinarlo sempre, che potevano andare a qualsiasi ora del giorno nella sua camera. "La lettera mi fu consegnata da un cardinale italiano" raccontò Battisti. "Quel cardinale mi disse che si trattava di una vicenda della massima importanza e che quindi dovevo partire subito e consegnare la lettera proprio nelle mani di padre Pio. "Non avevo mai ricevuto incarichi così urgenti. Andai subito a casa, presi la mia auto e partii immediatamente. "Arrivato a San Giovanni Rotondo, andai nella cella di padre Pio. Gli porsi la lettera dicendo che si trattava di cosa urgente. ""Apri e leggi" disse il Padre. "Aveva la testa piegata sul petto e stava, come sempre, pregando. Aprii la busta e gli lessi la lettera. Il Padre ascoltò in silenzio senza dire niente. Quando ebbi finito di leggere quelle poche righe, rimase ancora in silenzio. Io ero meravigliato: quella lettera non conteneva niente di straordinario. Era una delle numerosissime lettere che padre Pio riceveva ogni giorno da parte di persone che chiedevano preghiere. A un certo momento, padre Pio, alzando la testa e guardandomi con i suoi occhi profondi mi disse: "Angiolino, a questo non si può dire di no". Piegò di nuovo la testa sul petto e riprese a pregare. "Risalii in macchina per tornare a Roma. Durante il viaggio continuavo a riflettere su quella frase. Conoscevo padre Pio da anni. Ero abituato a vedere intorno a lui le cose più incredibili. Sapevo che ogni sua parola aveva sempre un profondo significato. Continuavo a chiedermi: Ma perché ha detto: 'A questo non si può dire di no'?. Chi era quel vescovo polacco? Io lavoravo in segreteria di Stato, ma non lo avevo mai sentito nominare. Perché padre Pio aveva tanta stima di lui fino al punto da pronunciare quella frase che dimostrava che era una persona importantissima per lui? Arrivato a Roma chiesi ai miei colleghi se conoscevano il vescovo Wojtyla, ma nessuno lo aveva mai sentito nominare". Dopo undici giorni, e precisamente il 28 novembre, Karol Wojtyla scrisse una nuova lettera a padre Pio: "Venerabile padre, la donna abitante a Cracovia in Polonia, madre di quattro ragazze, il giorno 21 novembre, prima dell'operazione chirurgica è guarita all'improvviso. Rendiamo grazia a Dio. E anche a te padre venerabile porgo i più grandi ringraziamenti a nome della stessa donna, di suo marito e di tutta la sua famiglia. In Cristo, Karol Wojtyla, vescovo capitolare di Cracovia".
Questa seconda lettera di Wojtyla è piena di gioia. Egli annuncia l'incredibile fatto in forma sintetica, ma fornendo gli elementi precisi per far comprendere che si trattava di un prodigio straordinario. La guarigione della sua amica è avvenuta all'improvviso, mentre l'ammalata si trovava in ospedale e stava per essere sottoposta all'intervento chirurgico. Si tratta quindi di una guarigione avvenuta sotto gli occhi dei medici, quindi sotto il controllo della scienza. Un vero e proprio miracolo, che Wojtyla attribuisce, senza ombra di dubbio, all'intervento di Dio ottenuto grazie alle preghiere di padre Pio. Anche questa volta la lettera fu immediatamente consegnata ad Angelo Battisti con l'incarico di portarla subito a San Giovanni Rotondo. "Partii immediatamente perché anche quella volta, in Vaticano mi avevano fatto una grande fretta" mi raccontò Battisti. "Arrivato a San Giovanni Rotondo, entrai nella cella di padre Pio, gli feci vedere la lettera e come al solito egli disse: "Apri e leggi". "Questa volta lessi con molta curiosità anch'io, perché volevo sapere che cosa ci fosse ancora di tanto importante, e sentendo quella notizia veramente straordinaria, incredibile, guardai verso il Padre come per congratularmi con lui. Ma padre Pio era immerso nella preghiera. Sembrava non avesse udito la mia voce mentre leggevo la lettera. Attesi in silenzio che mi dicesse qualcosa oppure che mi ordinasse di tornare a Roma. Dopo qualche minuto il Padre disse: "Angelino, conserva queste lettere, perché un giorno diventeranno importanti". Tornai a Roma, tenni sempre con me quelle lettere, come mi aveva ordinato padre Pio. Passarono sedici anni e mi ero quasi dimenticato di averle. Ma la sera di lunedì 16 ottobre 1978, quando dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro sentii il cardinale Felici annunciare al mondo il nome del nuovo Papa che era stato eletto al posto di Giovanni Paolo I, mi venne quasi un colpo. Il nome era quello di Karol Wojtyla. Quel vescovo polacco che mi aveva dato la lettera da portare a padre Pio per chiedere la guarigione di una donna di Cracovia. Pensai immediatamente alla frase di padre Pio. "A questo non si può dire di no" e mi vennero le lacrime agli occhi."


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testimonianza


Prigionieri dell’eugenetica
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Sopravvissuta agli esperimenti medici nazisti, amica personale di Wojtyla, Wanda Póltawska riconosce nei sogni scientisti di oggi il delirio superomistico che sessant’anni fa eliminava i più deboli

di Lorenzo Fazzini
«Non basta parlare della bellezza della vita: bisogna parlare della santità della vita, perché la vita umana deve essere santa». Niente più che una bella frase, se non fosse che a pronunciarla è stata una “Versuchskaninche”, una cavia medica del lager nazista di Ravensbrück. «Se qualcuno mi svegliasse improvvisamente di notte e mi chiedesse chi sono, potrebbe succedere che risponda: “Shutzhaftling siebenundsiebzig null neun”. Questo è il mio numero in lingua tedesca: 7709. E per questo non c’è rimedio».
La vita di Wanda Póltawska sarebbe il sogno di qualsiasi regista cinematografico: nell’esistenza di donna polacca oggi 87enne, psichiatra, si concentrano alcune delle più drammatiche vicende del Novecento.
Membro della Resistenza antinazista a Lublino, sua città natale, nel 1941, giovanissima scout cattolica, viene arrestata, imprigionata e torturata dalla Gestapo. Wanda viene quindi spedita nel lager nei pressi di Berlino e qui, insieme ad un manipolo di altre compagne polacche, diventa cavia umana per efferati esperimenti medici delle Ss: subisce continue operazioni chirurgiche sugli arti che le lasciano non solo ferite nelle gambe ma, ancor di più, una cicatrice nell’anima. Dopo la guerra diventa amica personale di Karol Wojtyla, conosciuto durante i suoi studi di medicina a Cracovia. È lui ad affidarla a padre Pio – e il miracolo avviene – quando una paralisi la colpisce negli anni Sessanta. In seguito sarà una stretta collaboratrice dell’allora arcivescovo di Cracovia: dal 1957, per 40 anni, direttrice dell’Istituto di teologia della famiglia alla Pontificia accademia teologica della città di Wojtyla, che la nomina membro del Pontificio consiglio per la famiglia e della Pontificia accademia per la vita.
Non rilascia mai interviste, Wanda Póltawska. «Mi dispiace» ci dice da casa sua, a Cracovia. Quello che aveva da dire l’ha raccontato in un libro drammatico, E ho paura dei miei sogni (Edizioni dell’Orso), scritto come terapia psicoanalitica, apposta per allontanare gli incubi che, tornata a casa, la tormentavano ogni notte (il libro è uscito in polacco nel 1961, già tradotto in inglese e solo recentemente in italiano). A Tempi confida che è «sciocco e piuttosto insincero» ogni tentativo negazionista alla Mahmoud Ahmadinejad. E invita «gli italiani a vedere Katyn», il film-capolavoro di Andrzej Wajda sull’eccidio sovietico di ufficiali polacchi, «perché questo crimine è una cosa che deve essere ricordata». Come il dramma che la Póltawska porta come stimmate sulla sua pelle, cicatrici quali segni della pazzia superomistica di Hitler che pensava di rimodellare l’«umanità nuova». «È dall’uomo che dipende cosa farà di se stesso ed è per questo che alla domanda su dove sia Dio io posso contrapporre un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?”. Non si può accusare Dio delle conseguenze dell’operare umano: quest’accusa la possono fare degli uomini ad altri uomini». Così afferma la Póltawska quando le si chiede conto della sua fede cristiana dentro l’orrore del lager.
Ricco di spunti è il suo intervento “Quando la morte non vince”, pubblicato in L’eclissi della bellezza. Genocidi e diritti umani, volume che raccoglie gli atti di un omonimo convegno organizzato tempo fa a Brescia e ora edito da Fede & Cultura (pp. 185, euro20).
«Finché viviamo, la linea di demarcazione tra il bene ed il male non passa tra un uomo e l’altro, passa dentro ogni uomo. Puoi anche accorgerti che, lentamente, impercettibilmente, si stia spostando verso la bestialità, ma tu, uomo libero, puoi tendere consapevolmente all’eroismo, alla santità».
Proprio in forza della disumana esperienza di Ravensbrück la Póltawska ha da sempre portato avanti una causa pro-life politicamente scorretta, la lotta contro l’aborto. «Hess e i medici ginecologi: anche loro uccidono migliaia di persone, di bambini indifesi, ed essendo medici sanno bene che si tratta di esseri umani. Ma nessuno li giudica, nessuno li condanna. La legge degli uomini non difendeva e non difende i bambini». Non ha timore di sembrare irriverente
, questa anziana reduce dai nazisti, a lottare per la difesa della vita innocente in nome di quella dignità umana che ha visto calpestata dagli anfibi delle Ss. Alla domanda di Tempi sul perché sia una così strenua nemica dell’aborto risponde:
«Sono cattolica e ho visto dei bambini buttati nelle fiamme dai tedeschi».
Wanda ricorda un episodio per lei illuminante: «Durante un congresso in Austria un medico disse di avere una domanda da fare ai teologi. Aveva un problema di coscienza, poiché aveva in frigorifero tre embrioni congelati e non riusciva a trovare una candidata ad essere madre. Non potei resistere: “Lei, collega, ha già dimenticato Norimberga, perché ha questi bambini congelati?”. Al processo di Norimberga Karl Gerardt, che aveva commissionato operazioni sperimentali sulle ragazze di Ravensbrück – e io sono tra queste – fu condannato a morte e la sentenza fu eseguita, mentre, dopo solo 50 anni, centinaia di medici effettuano impunemente esperimenti pseudo-medici su bambini indifesi. Che uomini sono? Sono diversi dalle Ss tedesche, e se sì, in che cosa? Uomini disumani, una medicina disumana, una mascolinità disumana, una femminilità disumana, semplicemente una umanità disumana: ma perché?».

«Buttavano i neonati nel fuoco»

Proprio di fronte all’orrore nazista è nata la vocazione pro-life di questa indomita testimone della bellezza della vita: «Io ho iniziato il mio lavoro per difendere la vita nel campo di concentramento. Nel campo, specialmente dopo l’insurrezione di Varsavia, erano state internate molte donne incinte. I tedeschi non le facevano abortire, lasciavano che partorissero, poi buttavano i bambini nel fuoco. Io più volte ho dovuto assistere a questa scena. Allora tutte insieme ci siamo organizzate per salvare questi neonati e siamo riuscite a salvarne trenta. Devo dire che in seguito a questi fatti ho deciso di diventare medico». Nel suo racconto autobiografico, intessuto di una drammaticità asciutta, con l’autrice quasi incapace di raccontare l’orrore che ha davanti agli occhi, la Póltawska non smentisce quella fede cattolica che tanto la contrassegna: «No, non odiavo nel modo più assoluto. Si trattava di qualcosa di completamente diverso: una enorme delusione, piuttosto, per il fatto che degli esseri umani potessero fare tutto quello a cui assistevo, che ci fossero degli esseri umani così. Non sentivo odio per nessuno, ma sentivo che il perdono poteva darlo solo Dio».

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aborto, testimonianza, giovanni paoloii

giovedì, 30 aprile 2009

La scomparsa di padre Tan Tiande Gigante cinese della fede perdonò i suoi aguzzini
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Un testimone diretto della crudeltà del regime comunista cinese. Ma al tempo stesso, «un vero apostolo e martire della fede» , come ha scritto Asia News, alludendo ai trent’anni di lavori forzati subìti a motivo di una fedeltà a Cristo tanto granitica quanto gioiosa. Questo è stato padre Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate della diocesi di Guangzhou ( Canton) e della Chiesa cinese tutta, morto ieri all’età di 93 anni. Straordinaria per molti aspetti, la vicenda di padre Tan è comune a molti preti cinesi della sua generazione. Nato nel 1916 nel Guangdong, venne ordinato sacerdote nel 1941. Esercitò l’attività pastorale in varie città del Sud della Cina, finché nel 1953 venne richiuso in un campo di lavoro forzato nel nord- est della Cina: sarà liberato solo nel 1983. Ricordo ancora distintamente il nostro incontro nell’estate del 2005 a Guangzhou.
Alto, asciutto, il volto scavato ma sereno, padre Tan Tiande era un singolarissimo miscuglio di forza e fragilità. Aveva un fisico da ex sportivo, essendo stato in gioventù un campione di atletica e di nuoto ( energia fisica e resistenza agli sforzi lo avrebbe aiutato nella sua lunga prigionia, condotta in condizioni estreme). Ma quel che di lui colpiva ero lo sguardo: gli occhi luminosi di un uomo che per tre decenni aveva assistito ad atrocità di ogni genere, violenze psicologiche e fisiche, soprusi inenarrabili, ma che non avevano ombre di risentimento o di vendetta. Gli stessi sentimenti di serenità e amore per il prossimo si respirano nell’autobiografia di padre Tan Tiande, uscita dapprima sulle riviste del Pime, successivamente raccolta in quel Libro rosso dei martiri cinesi cui è arrisa – proprio in virtù dell’eccezionale qualità umana e spirituale dei protagonisti – una fortuna editoriale imprevedibile ( tradotto in varie lingue, è stato venduto in migliaia di copie nel mondo). Durante il nostro incontro, sentii padre Francesco ripercorrere, con voce tremante, nello spazio di un’ora, anni e anni di patimenti: la fame che mordeva le viscere, il gelo paralizzante dell’estremo Nordest ( 40 gradi sotto zero), le angherie continue degli aguzzini, la derisione di cui lui, in quanto credente, era fatto oggetto...
Eppure, anche in quell’inferno, padre Tan Tiande non ha smesso di testimoniare una fede incrollabile, una carità genuina che sapeva spingersi sino al perdono. Proprio quella misteriosa capacità di perdonare gli autori di un male così assurdo è l’eredità più bella che il sacerdote cinese lascia ai cattolici del Regno di mezzo e dell’intera Chiesa universale. Padre Tan Tiande ha combattuto la buona battaglia conservando la fede, a prezzo di sofferenze indicibili accettate con gioia. E mantenendo il cuore libero dal sentimento della vendetta.
«Seguendo la polizia fuori da Shishi ( la cattedrale di Canton in cui fu arrestato) – scrive nelle sue memorie –, non avevo assolutamente paura. Al contrario, mi sentivo onorato. Ordinato sacerdote, avevo promesso di offrire la mia vita per il Signore Gesù. In quel momento, ricevevo la grazia speciale del Signore di rendere testimonianza al Vangelo. Era un avvenimento così gioioso » . Tornato in libertà, si era messo a disposizione con encomiabile generosità, perché « quando vedo così tanta gente che chiede di conoscere Dio, provo una gioia immensa. Sebbene il mio carico di lavoro sia molto pesante, mi sento euforico ogni volta che le mie parole di consolazione possono aiutare qualcuno a ritrovare la fiducia nella vita » . Riposa in pace, soldato di Cristo.
Gerolamo Fazzini

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testimonianza


testimone gioioso dopo 30 anni di lager
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Arrestato per la fede nel 1953, dal regime comunista cinese, ha lavorato nei lager dell’Heilongjiang (nord-est) come agricoltore. É ritornato a Guangzhou nel 1983. Da allora ha svolto opera di catechesi e di evangelizzazione, stimato come martire da tutti i fedeli della diocesi di Guangzhou.
In un brano del suo diario, parlando dei durissimi anni di prigionia, egli scriveva: “Anche negli anni in cui era severamente proibito  qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi una persona che sa amare... Quel ‘segno’ mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza”.
Guangzhou (AsiaNews) – Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni p. Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
Nato nel 1916 a Shunde (Guangdong), da una famiglia cattolica da generazioni, entra da ragazzo in seminario e studia teologia nel seminario regionale della Cina meridionale ad Hong Kong (oggi “Holy Spirit”). Per tre anni è campione di atletica e nuoto. Questo spirito sportivo – fatto di forza fisica e di forza di volontà - egli dice che lo ha aiutato in seguito “nelle carceri e nei campi di lavoro del nord-est”. È ordinato sacerdote nel 1941 nella cattedrale di Guangzhou, la “Shishi” (“Casa di Pietra”), dedicata al Sacro Cuore. Dopo un periodo pastorale nel capoluogo, viene mandato nell’isola di Hainan e poi ad Hong Kong, per tornare a Guangzhou nel ’51.
Incarcerato nel 1953 a causa della sua fede, viene mandato in un campo di lavori forzati nel nord-est della Cina (Heilongjiang) dove rimane per 30 anni. In origine era stato condannato, senza processo, al carcere a vita. A poco a poco, grazie al suo comportamento pieno di servizio e amorevole, i giudici gli riducono la pena. Solo nel 1983 riceve il permesso di ritornare a Guangzhou, dove ha vissuto come sacerdote aiutante della cattedrale, amato da fedeli cristiani e non cristiani.
Per comprendere lo spessore della sua fede e testimonianza, basta leggere dal suo diario (pubblicato da AsiaNews nel 1990 in “Cina oggi”, n. 10, pp 191-206) il modo in cui egli ripensa alla sua prigionia. In esso egli descrive le ingiustizie; i processi popolari contro di lui (perché è cattolico e prete); la miseria e la fame vissuta da tutti i prigionieri. Ma descrive pure la sua testimonianza di carità verso prigionieri e guardie, il suo sostenerli a riscoprire la dignità umana attraverso la fede in Dio. In un brano del diario egli scrive:
Durante i 30 anni in cui vissi nel nerd-est, l’agricoltura era la mia occupazione principale Ogni anno, quando arrivava la primavera, dovevamo cercare di concimare un terreno che era duro come l’acciaio [a causa del freddo polare – ndr]. Usavamo picconi per scavare la terra. Una volta reso il terreno più morbido, lo innaffiavamo e vi piantavamo i semi. Oggi, descrivendo tutto ciò, non ki sembra così tremendo. In realtà a quel tempo eravamo denutriti. Tutto quel lavoro era al di là delle nostre forze, cosicché anche ogni minuto era un’agonia”….
La gente potrebbe chiedersi come io abbia potuto sopravvivere in queste condizioni tremende. Per chi non crede è un enigma senza soluzione. Per chi ha fede è la volontà di Dio. La vita è il suo dono più prezioso all’uomo. Devo avere grande cura di questo dono per non essere un ingrato. Perciò per sopravvivere mangiavo erbe selvatiche e la corteccia degli alberi…. Ho vissuto in condizioni tali da sperimentare le azioni brutali dei miei compagni… Questo dolore è anche più grande della fame. Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce: Dio, dove sei?... Non so quante volte ho pensato di farla finita. Ma proprio al momento cruciale vedevo Gesù sulla croce che mi guardava con occhi misericordiosi… e lo sentivo dire: O uomo di poca fede! Dubiti forse che io ti ami?”.
Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi una persona che sa amare. Temevo di finire col pensare che c’è qualcosa di cui posso non dire grazie anzitutto al Signore, di finire col vergognarmi di Lui, di ritenere qualcuno o qualcosa più forte di Lui. Quel ‘segno’ mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza”.
AsiaNews 23/04/2009


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testimonianza

domenica, 22 marzo 2009

TESTIMONI/ Dai lager alla primavera di Praga:
gli 85 anni del vescovo Korec
 
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Angelo Bonaguro sabato 21 marzo 2009


«Abbracciami!» - esclamò la mia compagna di viaggio, sperando così di far credere, allo spione che ci pedinava, che eravamo una coppietta perdutasi nel tetro quartiere dormitorio di Bratislava-Petrzalka, mentre in realtà avevamo un appuntamento di tutt’altro tipo a casa del vescovo Jan Korec, all’epoca (1988) punto di riferimento della Chiesa slovacca “clandestina”. Oggi Korec ha da poco compiuto 85 anni, è cardinale e vescovo emerito dell’antica diocesi di Nitra, eretta ai tempi di san Metodio.

Nato il 22 gennaio 1924 da una famiglia operaia, Jan a 16 anni entra nella Compagnia di Gesù, e viene ordinato sacerdote nell’ottobre del 1950. Sono tempi di persecuzione per la Chiesa cecoslovacca: il regime comunista chiude i monasteri e avvia la campagna antireligiosa. Era necessario mantenere la successione apostolica, e così per volontà di Pio XII nel 1951 Jan viene ordinato segretamente vescovo. Dal 1951 al 1954 lavora come operaio alla Tatrachemia: «Provengo da una famiglia di operai - ha scritto nel suo diario La notte dei barbari - e non ho mai avuto problemi a fare l’operaio». Vive il lavoro come missione, pronto ad incontrare con carità cristiana una grande varietà di tipi umani finché, per problemi di salute, si trasferisce all’Ufficio igiene del lavoro, dove lo spediscono in biblioteca. Anche qui va oltre il semplice impegno di archivista: si inventa una rassegna stampa per i medici e scrive addirittura una storia dell’igiene sul lavoro a partire dall’antichità, sottolineando quanto fosse attuale l’idea di dignità umana presente nell’Antico Testamento!

Nel 1959 lo troviamo fra i metalmeccanici della Dimitrovka: «Mi alzavo prima delle 5, dopo la meditazione celebravo la messa, e prima delle 6 avevo già inforcato la bicicletta per andare al lavoro». Intanto segue clandestinamente il cammino spirituale di studenti e seminaristi, e ordina sacerdoti. Anche la polizia non perde tempo: nel 1960 viene arrestato, e al termine del processo-farsa è accusato di “spionaggio” e condannato a 12 anni di carcere. Il periodo più lungo lo passa a Valdice, dove incontra altri religiosi, fra i quali padre Zverina. Nonostante la dura condanna, il suo spirito resta libero: «Che dono meraviglioso è per l’uomo la sua anima, la sua mente, il suo spirito che non si lega alle quattro mura di una qualsiasi prigione, ma che può spaziare ovunque, fino all’ineffabile spiritualità di Dio!».

Il 20 febbraio 1968 lo rilasciano: i tempi stanno cambiando, e Korec partecipa al rinnovamento della Chiesa grazie ai fermenti della Primavera di Praga. Ma le sue condizioni di salute peggiorano, gli viene diagnosticata la tubercolosi ed è costretto a una lunga degenza sui monti Tatra. Nell’autunno del 1969, in visita a Roma, riceve da Paolo VI le insegne vescovili che riporrà nella sua “sacrestia”, come chiamava il cassetto dell’armadio, dove sarebbero rimaste fino all’89. Privo del permesso statale di officiare, il vescovo Korec torna in fabbrica, alla manutenzione degli ascensori, finché va in pensione (1984) e può dedicarsi a tempo pieno - clandestinamente - alla cura d’anime. Il summenzionato appartamento è meta continua di incontri con fedeli di ogni età. Sorvegliato e vessato dalla polizia (StB), Korec non è tipo da lasciarsi intimidire: invia lettere di protesta contro i soprusi ai credenti, mantiene i contatti con il dissenso civile, scrive testi di teologia pensati per la gente semplice e stampati all’estero, in bassa tiratura perché - gli aveva detto qualche intellettuale - «Sa, non sono perfetti»; per contrastare le cimici della StB si costruisce un cilindro vuoto fissato su un treppiede: mentre lui parla da un lato, l’interlocutore lo ascolta dall’altro, e viceversa.

Dopo la Rivoluzione di velluto può finalmente svolgere il suo mandato. Nel 1998 scrive gli esercizi spirituali per il Papa, e riceve diverse lauree ad honorem e riconoscimenti pubblici.

Scrive nel libro Jezis zd’aleka a zblizka: «Intorno all’anno 200 morì a Lione il vescovo Ireneo. Si è conservata una lettera da lui scritta all’amico e compagno di studi Florino, in cui rammenta quando a Smirne partecipavano alle lezioni del vescovo Policarpo, il quale era morto ottantenne nel 155. Ireneo ricorda che Policarpo raccontava loro gli avvenimenti collegati a “Giovanni, discepolo del Signore” che aveva conosciuto personalmente Gesù, e che Policarpo poté conoscere a sua volta personalmente molti anni addietro. Così Ireneo, in Francia e 200 anni dopo la nascita di Cristo, poteva ricordare Giovanni che aveva conosciuto direttamente Gesù, a sua volta tramite una persona, Policarpo, che aveva conosciuto direttamente Giovanni. Quando il vescovo di Lione durante la messa spezzava il Pane, non pensava ad un concetto preso dai libri, bensì al maestro Policarpo, il cui amico e apostolo Giovanni aveva conosciuto personalmente Gesù. Così si è conservata la memoria e la tradizione della Chiesa».



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comunismo, testimonianza

domenica, 22 febbraio 2009

«La croce? Non è una sconfitta. Basta fidarsi»
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Una sofferenza improvvisa. La domanda a Cristo. E la scoperta che «dietro ogni male apparente c’è di sicuro un bene più grande». In un libro appena pubblicato, la vedova Coletta racconta la sua storia. E la certezza che l’ha sempre sostenuta

Nel 1996 a Paolo, primogenito di Margherita e Giuseppe, viene diagnosticato un linfoma. Sono mesi di calvario per i genitori, che vedono il loro bambino di soli sei anni piano piano spegnersi. Per Margherita è l’esperienza del dono della fede. Che rende ogni cosa buona. Ecco la pagina del libro che racconta quella scoperta.

È in quei mesi, in quell’«a tu per tu» con il mistero della morte, che Margherita scopre una fede diversa: «Prima era una fede di domande. Poi, con la malattia di Paolo, è diventata una fede di risposte», dice. «Ricordo che la sera i primi tempi mi inginocchiavo e chiedevo al Signore: “Dai, salva il mio piccolo, così un giorno crescerà e diventerà un tuo sacerdote…”. Lo prendevo un po’ in giro - sorride -. Poi piano piano ho cominciato a chiedergli: “Signore, salvalo perché io sono sua madre”. Il giorno dopo ho detto: “Gesù, tu lo sai, io vorrei che tu lo salvassi”. Finché una sera sono arrivata a dire: “Gesù mio, io vorrei che mio figlio restasse qui, ma se tu hai altri piani va bene così”. Solo a quel punto, l’indomani mattina mio figlio è morto. In un dolore tanto estremo ho sentito che Dio mi aveva ascoltata, aveva fatto in modo che io fossi pronta per questo distacco, mi ha tolto Paolo solo quando sono stata in grado di lasciarlo andare». Al punto che, nel momento in cui è morto, «quel corpo non mi apparteneva più, il mio Paolo non era quell’involucro inerme che non respirava, che non parlava, e io ho ringraziato Dio anche di questo». Sorride sempre Margherita mentre parla, e non è cortesia. Più che le parole, mi scuote la ferma certezza con cui le pronuncia, fonte di una serenità irremovibile. «Non è bravura mia - si schermisce -. Non è mai bravura di nessuno riuscire ad accettare con gioia tutto ciò che il Signore ti manda, è un dono che Egli fa, un dono però gratuito, che concede a chiunque lo chiede. So bene che può sembrare assurdo, ma io lo ringrazio per il dolore che mi ha dato perché mi ha fatto capire quanto mi ama. Alla base di tutto c’è una consapevolezza: che Dio non può permettere il male. Noi, con il nostro sguardo limitato, non capiamo che dietro ogni male apparente c’è di sicuro un bene più grande, altrimenti Dio non lo avrebbe tollerato. Anche la morte in croce di suo figlio sembrava una sconfitta, invece preparava alla salvezza del mondo. Basta fidarsi di lui».

(Da: Il seme di Nasiriyah, di Lucia Bellaspiga con Margherita Coletta, edizioni Ancora, € 12; Per informazioni: www.associazionecoletta.it)
da : tracce.it/  novembre08



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martedì, 17 febbraio 2009

Il catechismo
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A casa mia la religione non aveva nessun carattere solenne: ci limitavamo a recitare quotidianamente le preghiere della sera tutti insieme. Mi rimase scolpita nella memoria la posizione che prendeva mio padre. Egli tornava stanco dal lavoro dei campi con un grande fascio di legna sulle spalle. Dopo cena si inginocchiava per terra, appoggiava i gomiti su una sedia e la testa tra le mani, senza guardarci, senza fare un movimento, né dare il minimo segno di impazienza.
E io pensavo: "Mio padre che è così forte, che governa la casa, che sa guidare i buoi, che non si piega davanti al sindaco… mio padre davanti a Dio diventa come un bambino. Come cambia aspetto quando si mette a parlare con Lui. Dev’essere molto grande Dio se mio padre gli si inginocchia davanti! Ma dev’essere anche molto buono, se si può parlargli senza cambiarsi il vestito! ".
Al contrario, non vidi mai mia madre inginocchiarsi. Era troppo stanca la sera per farlo. Si sedeva in mezzo a noi, tenendo in braccio il più piccolo. Ci guardava, ma non diceva niente. Non fiatava nemmeno se i più piccoli la molestavano, nemmeno se infuriava la tempesta sulla casa o il gatto combinava qualche malanno.
E io pensavo: "Dev’essere molto semplice Dio, se gli si può parlare tenendo un bambino in braccio e vestendo il grembiule. E dev’essere anche una persona molto importante, se mia madre quando gli parla non fa caso né al gatto né al temporale!"
Le mani di mio padre e le labbra di mia madre m’insegnarono, di Dio, molto più del catechismo .

Il cantautore francese Pierre Duval
(P. Pellegrino, Educare a tutto campo, LDC
grazie a: Mariateresa

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mercoledì, 11 febbraio 2009

La conversione del massone
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                       da : http://www.avvenire.it/ del  16/01/09


«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aper­to» . A sentire queste parole del Van­gelo, durante una Messa nella crip­ta sopra la grotta di Lourdes, Mau­rice Caillet rimase attonito. Erano le stesse che aveva sentito quindici anni prima, nel 1970, il giorno del­la sua iniziazione come Apprendi­sta nella Loggia "Perfetta Unione" di Rennes, Grande Oriente di Francia, una delle più antiche Logge tran­salpine. Nel silenzio successivo, sentì una voce che gli chiedeva di offrire qualcosa in cambio del be­neficio che andava cercando in quel luogo sacro. Pensò di dover offrire se stesso. «Mi ripresi in qualche mo­do – racconta Caillet nelle sue me­morie – quando il sacerdote alzava l’Ostia, nella quale per la prima vol­ta in vita mia riconobbi Gesù sotto le sembianze di un umile pezzo di pane. Era la Luce che avevo cerca­to invano nel corso di molteplici i­niziazioni» .

Una specie di folgora­zione. «Alla fine della Messa, seguii il sacerdote in sacrestia e, senza molti preamboli, gli chiesi il batte­simo» . Caillet non era arrivato lì come pel­legrino. Nato nel 1933 in una fami­glia bretone anticlericale, era cre­sciuto nell’ostilità verso ogni cosa che sapesse anche vagamente di 'cattolico'. Laureatosi in medicina, specializzatosi in urologia e gine­cologia, si era associato a Planned Parenthood, la lobby multinazio­nale abortista, impegnandosi nella promozione della contraccezione e – benché non fosse ancora legaliz­zata – nella pratica della sterilizza­zione sia maschile che femminile.

Divorziato dalla prima moglie, nel fatidico maggio 1968 aveva bussa­to a Rue Cadet 16 a Parigi, sede del Grande Oriente di Francia, chieden­do l’ammissione alla Libera Mura­toria. Richiesta, accettata, che lo a­vrebbe portato nel giro di non molti anni a salire la sca­la iniziatica: Ap­prendista, Compa­gno, Maestro, nel 1973 Vigilante di una nuova Loggia fondata a Ren­nes, un anno dopo Venerabile Mae­stro, quindi deputato al ' conven­to', l’assemblea nazionale del Gran­de Oriente. Infine l’iniziazione agli alti gradi del Rito Scozzese Antico e Accettato, sino al diciottesimo, quello di Cavaliere Rosa- Croce. Parallelamente, l’ascesa era stata anche professionale, grazie all’aiu­to di innumerevoli "fratelli" sparsi nelle strutture sanitarie e ammini-­strative locali: da specialista rino­mato a direttore di un’altrettanto ri­nomata clinica privata, poi l’iscri­zione al Partito Socialista e, con l’ar­rivo all’Eliseo di François Mitter­rand nel 1981, la nomina in una commissione del ministero della Salute.

Nel mentre, Caillet si era anche distinto come pri­mo medico a prati­care aborti in Bre­tagna, dopo la de­penalizzazione della cosiddetta ' interruzione di gravidanza' nel 1975, arrivando a polemizzare sulle pagine di Le Mon­de direttamente con l’illustre genetista Jerôme Lejeune. Un curriculum impeccabile, in­somma. Fino a quella visita fatta a Lourdes, dove Caillet si era deciso a portare la compagna Claude, da me­si a letto per una malattia misterio­sa, alla ricerca non di una "grazia", ma di un contatto con quelle forze telluriche che anche l’Iniziazione – René Guénon docet – riconosce at­tive in molti santuari e luoghi sacri. Forze banalmente interpretate dal­la bêtise cattolica come influssi ma­riani. Se non che, mentre il Cavalie­re Rosa- Croce sperava in un influs­so benefico per Claude, cattolica non praticante ma con una fede mai del tutto sopita, lei dal freddo delle piscine in cui era immersa pregava per la conversione di Maurice. Otte­nendo, alla fine, il vero miracolo.

Di questa vicenda e di come abbia sconvolto la sua vi­ta, con l’abbando­no traumatico del­la Massoneria, Caillet ha voluto parlare per esteso in un libro da poco uscito in Spagna, Yo fui masón (LibrosLibres, pagine 188, euro 18), Sono stato massone. Trattasi di un racconto dall’interno – e per questo piuttosto raro – del mondo delle Logge e della vita nel Grande Oriente di Francia. Una de­scrizione dei riti iniziatici, una te­stimonianza oculare dell’odio anti­cattolico coltivato nel GOF e, non ultimo, dell’efficacia della Masso­neria nel dettare la propria agenda politica. Racconta Caillet, fra i tan­ti episodi: «Dopo la sua elezione nel mese di maggio [ 1974] Valery Gi­scard d’Estaing, oltre alla nomina di Jacques Chirac come primo mi­nistro, prese come consigliere per­sonale Jean- Pierre Prouteau, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia… al ministero della Salute collocò Simone Veil, giurista, già deportata ad Au­schwitz, che aveva come consigliere il già citato [ e masso­ne] Pierre Simon, con cui tenevo una corrispondenza.

I politici erano già rodati… e il proget­to di legge sull’a­borto venne elabo­rato rapidamente » . Infine il ricordo, drammatico, di come la solidarietà massonica pos­sa tramutarsi in un’implacabile ta­gliola per gli apostati: dal mobbing che costrinse sia Caillet che la compagna ( poi, dopo lunghe tra­versie, sposata in Chiesa) alle di­missioni dal proprio posto di la­voro, con l’impossibilità di reinse­rirsi nella sanità pubblica, alle mi­nacce di morte fatte pervenire da ex-"fratelli". Un quadro che, come spiega l’autore in un’intervista concessa una radio cattolica, por­ta inevitabilmente a chiedersi: «Dopo la legge del 1905 sulla se­parazione della Chiesa dallo Stato, a quando una legge per la separa­zione dello Stato dalla Massone­ria?» . Bella domanda.


di Andrea Galli - Avvenire





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martedì, 27 gennaio 2009

Don Vittorione
 
 Vittorio Pastori nasce a Varese, in una casa antistante la Basilica di San Vittore, il 15 aprile 1926. 

Nei primi anni '50, Vittorio Pastori apre nella sua città un rinomato ristorante dedicandosi ad una fiorente attività commerciale che lo terrà impegnato per 15 anni: la direzione di un locale destinato a divenire il più prestigioso di Varese, lavoro in cui può esprimere le sue doti organizzative e le sue capacità direzionali.

Nel 1966 incontra Mons. Enrico Manfredini, nominato Prevosto di S. Vittore, di cui diventa amico e dal quale riceve l'incarico di Amministratore della Basilica, della tipografia diocesana e delle opere parrocchiali.
Nel 1969, Mons. Manfredini, designato Vescovo di Piacenza, invita Don Vittorio a seguirlo: il ristoratore accetta con entusiasmo, lasciando la propria attività imprenditoriale per svolgere il ruolo di Segretario Amministrativo della mensa vescovile, Economo del Seminario e Direttore di una casa di esercizi spirituali. Con Mons. Manfredini conosce alcuni Vescovi africani. Visita così l'Uganda, il Kenya, la Tanzania ed altri paesi del Continente Subsahariano, rimanendo profondamente colpito dalle condizioni miserevoli di vita delle popolazioni locali e del lavoro che viene condotto dalla Chiesa cattolica e dai suoi operatori (padri, suore, medici, volontari).

La sua ansia immediata è quella di aiutare materialmente queste popolazioni, facendo conoscere agli italiani queste condizioni disumane di vita e di lavoro e nel contempo fornendo mezzi finanziari e in natura (aratri, trattori, strumenti meccanici, agricoli e sanitari) fatti pervenire dall'Italia dietro specifica richiesta.
Nel 1972. con alcuni amici fonda a Piacenza l'associazione AFRICA MISSION e continua la sua attività di pendolare della carità tra l'Italia e l'Africa.

In Italia, Don Vittorio dà vita, insieme all'On. Giulio Andreotti e a Mons. Enrico Manfredini, al “Comitato Amici dell'Uganda”, con sede a Piacenza. Numerosissimi gli aiuti trasportati, con aerei e container via mare. La solidarietà di Don Vittorio giunge a salvare anche numerose vite tra i profughi Ugandesi in Zaire e in Sudan, paesi verso i quali vengono diretti alcuni aerei di soccorso. Negli anni successivi, senza abbandonare mai l'Africa, sono stati inviati diversi carichi di aiuti umanitari nei Paesi dell'Est Europa.

Nel 1982 si costituisce  COOPERAZIONE E SVILUPPO, ONG-ONLUS che con tecnici specializzati, di provata esperienza, ha realizzato oltre 500 nuovi pozzi per l’acqua potabile e condotto interventi di riattivazione e riparazione su pozzi esistenti.

Il 16 dicembre 1983 muore improvvisamente a Bologna Mons. Manfredini, che aveva sempre sostenuto ed incoraggiato l’amico Vittorio nella sua azione in favore delle popolazioni africane. E Vittorio, nonostante la dura prova per la morte dell'Arcivescovo, continua la sua opera.
Coronando un desiderio profondo e lungamente atteso: il 15 settembre 1984, Vittorio Pastori viene ordinato sacerdote da S. Ecc.za Mons. Cipriano Kihangire, Vescovo di Gulu.

"I poveri non possono aspettare", "chi ha fame ha fame subito". Così, da sacerdote, don Vittorio porta avanti la sua missione a servizio degli affamati e degli emarginati, soprattutto nel Terzo Mondo, senza separare gli aspetti spirituali da quelli materiali. Secondo le necessità, don Vittorio trascorre lunghi periodi in Uganda presso le due case di Kampala e Moroto, mentre quando è in Italia incontra ambienti diversi, gruppi e comunità cristiane.

In Uganda, data la difficile situazione sociale e politica, Don Vittorio ha rischiato la vita diverse volte.
Al 20 ottobre 1988 ha compiuto ben 137 viaggi in Africa visitando: Kenya, Tanzania, Burundi, Etiopia, Sud Sudan, Angola, Ghana, Ruanda, Uganda, ecc. e portato aiuti e conforto a centinaia di migliaia di persone.  
E proprio nel 1988, a Kampala, incontra Madre Teresa di Calcutta e avvia un ininterrotto ponte di solidarietà con le Piccole Figlie della Carità in Uganda.

Nel dicembre dello stesso anno, presso la capitale ugandese incontra anche il Presidente Museweni al quale sottolinea che la presenza di “Africa Mission - Cooperazione e Sviluppo” nel Paese è finalizzata all’evangelizzazione, mai disgiunta dalla promozione umana.
A Moroto inaugura la "cittadella della carità" che sarà poi dedicata alla sua memoria di fronte al presidente della Conferenza Episcopale Ugandese Mons. Emmanuel Wamala e al Nunzio Apostolico Mons. Rauber.

Il 12 aprile 1989, Don Vittorio concelebra la S. Messa con il Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II, a Roma.
Il 20 aprile dello stesso anno, parte il II Progetto Pozzi, per la realizzazione di altri 400 pozzi per acqua potabile in Karamoja e in altri Distretti dell'Uganda e la riattivazione di altri 250 pozzi.  

Nel 1993, presso la Nunziatura di Kampala Don Vittorio incontra nuovamente il Santo Padre, all’epoca in visita in Africa.

Il 1994 segna, invece, il 147° e ultimo viaggio di Don Vittorio in Uganda. Il 2 settembre di quell’anno, Don Vittorio Pastori – che tanti hanno imparato a conoscere e amare come don Vittorione – muore presso la clinica S. Giacomo di Ponte Dell'Olio (PC) dopo una lunga degenza.

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testimonianza, don vittorione

sabato, 20 dicembre 2008

Il vecchietto Oscar
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che bello!

Cari amici “puó una madre abbandonare i suoi figli?”

“Ebbene Io non ti dimenticheró mai” dice il profeta.

Un fatto accaduto nella clinica che mi ha riempito di gioia. Viene ricoverato un uomo anziano, ammalato grave di cancro alla prostata. Viveva in una sgabuzzino del famoso “Mercato 4” cosi chiamato e conosciuto in tutto il Paraguay per essere l´immondezzaio della vendita a poco costo di tutto e centro di qualunque traffico. Pericolosissimo passare di notte per quella zona.

L´hanno trovato solo, sporco, abbandonato. La donna, una persona anonima ci disse per telefono: “andate lì…e troverete un uomo solo e che soffre”. Mi sembrava ascoltare l’annuncio degli angeli quelle notte a Betlemme ai pastori: “andate e troverete…”. E cosí fu per noi. Portato alla clinica subito ben pulito e lavato e posto in un bellissimo letto bianco, con la camera con l’aria condizionata a tutto vapore (48º sono troppi…fuori). Una volta ambientato si sfoga il suo dramma terribile. “Padre, grazie, padre grazie”

Vede io sono nato in una regione italiana (per rispetto non diró né il nome, ne i luoghi). Sono rimasto orfano da piccolo e sono stato messo in un istituto agrario gestito da religiosi. Sono nato nel 1922. Li ho studiato diventando perito agrario. Il fascino di quella congregazione mi ispirò a farmi religioso. Vissi fino alla seconda guerra mondiale in un convento in Italia.

Poi i Superiori mi mandarono in Paraguay dove vivo da 50 anni. Ho fatto di tutto nelle diverse case della congregazione. Poi ho perso la testa per una donna e la mia vita é diventata un inferno. Tutti mi hanno abbandonato: ero un condannato a morte…quelle morte morale che distrugge l´uomo.

Ho fatto di tutto, Padre. Solo qualche confratello si ricordava di me (anche nella chiesa, aggiungo io, succede quello che dice il profeta a proposito della madre) Peccato, solitudine disperazione…e adesso sono qui. “Padre mi confessi, mi perdoni”

Il mio cuore addolorato i miei occhi umidi, l´ho ascoltato, assolto…abbiamo rinnovato insieme i voti religiosi…in fondo anche´io sarei un ex religioso, peró sono come non mai tutto di Gesú. Vedendolo, questo fratello, sorrideva, una volta in piú ho sentito quelle braccia di Giussani che mi accoglievano in Via Martinengo 17 quel 25 marzo 1989. Se una parte dichiara che ha servito e amato lo ha abbandonato per il suo peccato, sempre un altra parte di chiesa lo ha accolto, abbracciato, amato.

Che bella la clinica: c´é solo parte per i disgraziati, peccatori come me.

E il vecchietto Oscar adesso é con me, rivive la sua vita religiosa, ha rinnovato i suoi voti, ha riconosciuto i suoi peccati. Rare volte ho visto e sentito una confessione come lui. Mi verrebbe da dire: se per gustare cosí il senso di essere peccatore e soprattutto di confessarsi come lui, servisse una vita disordinata come lui….ne varrebbe la pena.
Ho ritrovato un santo…vedesti come riceve la Eucaristia, come sopporta il cancro che lo consuma come mi guarda. Solo i peccatori, cioé quelli che hanno incontrato Cristo hanno questo sguardo..

Mi sento un fariseo paragonandomi con lui.

Gli innocenti Victor, Celeste, Cristina, Aldo convivono con l´innocenza comportano l´ospedale con i santi innocenti recuperati, che grazie al dolore diventato confessione, Eucaristica hanno recuperato l´innocenza dottrinale.

Un abbraccio

P. Aldo


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testimonianza, padre trento

mercoledì, 17 dicembre 2008

Il Padre Joseph-Marie Verlinde
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 Père Joseph-Marie Verlinde (JPEG)                    Nato in Belgio il 5 agosto 1947, Jacques Verlinde è dottore in scienza e ricercatore in chimica nucleare quando la sua ricerca spirituale lo conduce a incontrare la Meditazione trascendentale, nel 1968.
Notato dal (gourou) Maestro fondatore, è ammesso a seguirlo negli ashrams dell’ Himalaia poco accessibili agli occidentali. Qui approfondisce la sua conoscenza dell’Induismo e delle sue pratiche durante quattro anni. Qui fa anche l’incontro determinante con il Signore Gesù, che lo conduce a lasciare la MT per seguire il Cristo, sui cammini del Vangelo.
Tornato in Europa, il giovane convertito si mette in cerca di una sintesi di ciò che ha vissuto in Oriente e della sua scoperta della persona di Gesù-Cristo. E’ attirato dalle interpretazioni dei Vangeli proposte in una scuola esoterica. Crede di avere trovato un gruppo che gli permetta di vivere la sua fede cristiana integrandoci la sua esperienza dell’Oriente, e dunque frequenta le loro adunanze, studia la dottrina, pratica le tecniche. A questo momento Jacques è invitato a sviluppare i poteri occulti di cui dispone a causa delle iniziazioni ricevute in India, per « metterle al servizio del prossimo » - così è per lo meno la proposizione che gli è fatta. Dopo parecchi mesi di pratica , una nuova esperienza sconcertante gli apre gli occhi e gli fa capire che il cammino dell’esoterismo-occultismo è incompatibile con quello del Vangelo.
Una nuova rottura s’impone allora, che marca l’inizio di un lungo cammino di guarigione interiore. Jacques prende la via per il sacerdozio, e trascorre due anni nel seminario di Avignone, poi, dopo un soggiorno alla Trappa di Notre-Dame des Neiges, persegue studi di filosofia e teologia a Roma, all’Università Gregoriana. Il 28 agosto 1983, è ordinato sacerdote per la diocesi di Montpellier. Dopo qualche mese di ministero parrochiale, il suo vescovo, Mgr L.Boffet, lo manda a preparare ed a sostenere un dottorato di filosofia al seminario di Ars anche allo STIM (Studium teologico tra monasteri benedettini di Francia).
Nel 1991, e sotto il nome di Joseph-Marie, pronuncia i voti definitivi nella Fraternità Monastica della Famiglia di San Giuseppe di cui è attualmente il Priore.

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testimonianza, verlinde

domenica, 16 novembre 2008

che grande! Che uomo vero!
In Uruguay il presidente «blocca» l’aborto
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 LIMA. «L’aborto è una male sociale che bisogna evitare. Ma nei Paesi in cui è stato liberalizzato, gli aborti sono aumentati. Negli Stati Uniti nei primi 10 anni si triplicarono e la cifra si mantiene».«Lo stesso è successo in Spagna».
  Comincia così il messaggio inviato dal presidente dell’Uruguay al Parlamento per spiegare le ragioni della sua decisione: Tabaré Vázquez ha posto il suo veto alla depenalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza. La legge che permette l’aborto libero nei primi tre mesi di gestazione era stata approvata in via definitiva dal Senato lunedì, dopo lunghi dibattiti e accese polemiche. Ma Vázquez – medico oncologo, ancora in attività – aveva ribadito più volte la sua ferrea opposizione e aveva annunciato l’intenzione di porre il veto presidenziale alla norma, per ragioni «biologiche, scientifiche e filosofiche». Ora il capo dello Stato ha messo nero su bianco queste motivazioni. «La legislazione non può non riconoscere la realtà dell’esistenza della vita umana nella sua tappa di gestazione, come lo rivela in modo evidente la scienza»: «Dal momento del concepimento, c’è una nuova vita umana, un nuovo essere». E poiché «il vero grado di civiltà di una nazione si misura nel modo in cui protegge i più bisognosi» e i «più deboli», secondo Vázquez «d’accordo con l’idiosincrasia del nostro popolo, è più adeguato cercare una soluzione basata sulla solidarietà, che aiuti la donna e la sua creatura, dandole la libertà di optare per altre vie» e «salvarli entrambi». Invece di facilitare l’aborto, il presidente chiede al Parlamento di «attaccare le vere cause» del fenomeno, soprattutto nei settori più poveri.
  Secondo dati extraufficiali, in Uruguay ogni anno si realizzano circa 30.000 aborti clandestini. Per sbloccare il veto presidenziale serve una maggioranza qualificata dei tre quinti dell’Assemblea Generale (formata dalle due Camere): la sinistra (Frente Amplio) non ha voti sufficienti.Vázquez appartiene alla stessa coalizione di sinistra. La sua decisione è stata accolta con soddisfazione dalle organizzazioni in difesa della vita, mentre le associazioni pro-aborto lo hanno accusato di «autoritarismo» e sono scese in piazza per protestare.
  Michela Coricelli
da: avvenire.it/  15-11-08

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aborto, testimonianza

mercoledì, 12 novembre 2008

Grazie Signore di avercelo donato
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Qualche anno fa, nel corso di un intervento chirurgico, aveva rischiato seriamente la vita e quando al risveglio dall'anestesia gli era stato comunicato che aveva quasi varcato la soglia alla quale tutti siamo destinati si era arrabbiato moltissimo: «Ma come, stavo per morire, e non lo sapevo?». Ora Alessandro Maggiolini, vescovo emerito di Como, se n'è andato davvero, consumato dal Parkinson e da un tumore ai polmoni. L'unico italiano che aveva preso parte alla squadra dei redattori del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, coordinata dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, il «vescovo leghista» secondo una semplificazione giornalistica scaturita da alcune sue prese di posizione su immigrazione e integrazione, si è spento ieri sera all'ospedale Valduce di Como. Aveva 77 anni.
Alla morte aveva dedicato un libro, intitolato «La santa paura». Nell'ottobre 2006, rispondendo a una domanda del Giornale, aveva detto: «Sì, ho paura di morire. Ho paura perché di là incontro il giudizio divino, il Crocifisso che ti perdona se ti lasci perdonare. Ho paura perché morire ti costringe all'incontro inevitabile con un dolore. Un dolore che in vita provi una sola e unica volta. Certo, se poi uno non crede, può puntare la canna di una rivoltella alla tempia e illudersi di aver risolto tutti i problemi». Già ormai immobilizzato sulla sedia a rotelle, aveva continuato a farsi portare in cattedrale per confessare i fedeli. Nei giorni in cui l'Italia discuteva il caso Welby, aveva detto: «Quando qualcuno invoca l'eutanasia sta chiedendo di tenergli la mano. Vuole che gli si accarezzi la fronte, gli si asciughi il sudore. Vuole che gli si dicano quelle poche parole che contano per varcare la soglia dell'aldilà. Dietro l'eutanasia c'è un desiderio di solitudine». Nato a Bareggio il 15 luglio 1931, ordinato sacerdote il 26 giugno 1955, docente di filosofia nei seminari ambrosiani e di introduzione alla teologia all'Università Cattolica, Maggiolini era stato uno dei più stretti collaboratori del cardinale Colombo. Vicario episcopale per le università di Milano, era stato nominato vescovo di Carpi il 7 aprile 1983. Sei anni dopo era stato trasferito alla diocesi di Como. Alieno da qualsiasi trionfalismo, aveva dedicato un libro a «La fine della nostra cristianità»: «Temo molto che l'ottimismo sia una virtù degli imbecilli se virtù è. Non è colpa mia se all'interno di ambienti ecclesiastici è invalsa l'abitudine di mettere gli occhiali rosa per assicurare che il mondo cattolico presenta sì qualche zona d'ombra, ma sta vivendo un'epoca gloriosa. Ma va. Per chi crede, la vicenda dell'umanità è guidata dal Signore Gesù padrone del destino dell'uomo e del cosmo. E, tuttavia, per quanto concerne la Chiesa, noi siamo sicuri sulla parola di Cristo che essa perdurerà sino alla fine del tempo, ma nessuno ci accerta che la Chiesa del domani sarà ancora quella della zona atlantica. Bastian contrario? Non mi preoccupo affatto della accusa che mi può essere rivolta. Chiedo che si osservi la realtà»

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lunedì, 15 settembre 2008

VIAGGIO TRA LE MOSTRE DEL MEETING: UNA CARRELLATA DI AUTENTICI TESTIMONI
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Uno che è stato al Meeting di Rimini può, adesso che i padiglioni della fiera sono chiusi e settembre porta con sé la ripresa della vita normale, ragionevolmente chiedersi: «Sono più protagonista?». Ognuno non può che rispondere per se stesso. Provo a farlo anch’io. 
Tralascio volutamente di soffermarmi sulle grandi testimonianze che hanno costellato i giorni riminesi. Sono state certamente i momenti più emozionanti. E uso questa parola nel suo significato letterale e non sentimentale: e-mozionante significa che le parole sentite dai testimoni che si sono succeduti sul palco mi hanno tirato fuori da me («e») per spingermi («mozione») in avanti. E chi è il protagonista se non colui che guarda la realtà (quindi non è ripiegato su di sé), proiettandosi su di essa con tutta la forza “motrice” delle sue domande?
Ma, dicevo, vorrei concentrarmi su un altro itinerario: quello delle mostre. Dal punto di vista mediatico sono forse l’aspetto più sacrificato del Meeting; per contro ne rappresentano la più facile forma di continuità: basta organizzarsi e le si può portare nella propria città.
Prendo le mosse da due fotogrammi del filmato che correda la mostra sulla Primavera di Praga del 1968. Nel primo si vede un giovane che mette un cubetto di porfido nel cingolo di un carro armato sovietico. Mi ha fatto tornare alla mente il disarmato studente di piazza Tienanmen che, da solo, ha bloccato, anche se soltanto per qualche minuto, una intera colonna di tank. Davide e Golia, certo. Ma quelle immagini ti restano dentro come emblema di un protagonismo indistruttibile; i carri armati se ne vanno, il gesto di quel ragazzo no.
Il secondo fotogramma è quello che inquadra Jan Palach nel suo letto di morte. Si era dato fuoco nella piazza centrale di Praga per protestare contro la negazione della più elementare delle libertà, quella di espressione. Il suo è stato un protagonismo tragico, nell’immediato fallimentare. Ma anch’esso resta perenne a ricordarmi che c’è sempre un prezzo da pagare per essere se stessi.
Il prezzo che un carcerato paga alla società per il male che ha fatto dovrebbe contemplare la sua possibilità di «redimersi», di ritornare, cioè, in quella stessa società da protagonista positivo. Spesso non è così; anzi, la galera diventa scuola negativa, impossibilità radicale; ben che vada un periodo di sospensione della vita. A meno che qualche incontro speciale susciti di nuovo la speranza. La mostra «Libertà va cercando ch’è sì cara. Vigilando redimere» ha mostrato con chiarezza che nessun vincolo esterno è così condizionante da impedire l’espressione dell’io, la sua creatività. Che, magari, si esprime nella confezione di dolci particolarmente prelibati, come quelli che i carcerati di Padova hanno messo in vendita a Rimini.
Se cerco di immedesimarmi in un carcerato, credo che una delle cose peggiori sia il senso di limitatezza degli orizzonti, la percezione che tutto finisca coi muri angusti della propria cella. Soffochi. Ma a ben guardare casa mia potrebbe essere percepita come una prigione e il mondo stesso, in fondo, è una stanza troppo piccola per l’orizzonte, infinito, del mio desiderio. Ma se, come cantava Gino Paoli, nella tua stanza entra il cielo, essa stessa diventa cielo. La straordinaria avventura degli esploratori portoghesi del quattro-cinquecento è un esempio storicamente cruciale di questa dinamica: la certezza di avere una dimensione infinita ti rende capace di affrontare nuovi spazi. E allora, come ha messo in rilievo la mostra «Dati dal cielo, per riportare il mondo al cielo. I portoghesi nel tempo delle scoperte», puoi avventurarti nello spazio immenso dell’oceano alla ricerca di nuove terre.
Sembra tutto facile, ma poi il viaggio è pieno di difficoltà, di intoppi, di contraddizioni. Sono gli ostacoli che ci logorano, che ci fanno pensare che sarebbe stato meglio non partire, che è più prudente accontentarsi e ridurre – o chiudere del tutto – l’angolo del desiderio. Di fronte a questa tentazione diventa decisiva la testimonianza di chi, invece, non si è mai rassegnato. E nelle mostre di Rimini ne abbiano avuto esempio da due giganti della letteratura, seppur diversissimi tra di loro. Giovannino Guareschi ha tenacemente difeso la sua diversità culturale, senza piegarsi mai a quello che oggi chiameremmo «politicamente corretto» (e può essere tale la mania di negare e contestare tutto). La frase che dà il titolo alla mostra a lui dedicata dice già tutto: «Non muoio neanche se mi ammazzano».
L’altro grande è Solženicyn. Il suo motto esistenziale è stato «Vivere senza menzogna». Così, mentre la propaganda sovietica magnificava le «magnifiche sorti e progressive» del socialismo realizzato, egli ha svelato al mondo interro l’atroce realtà del GULag: un arcipelago di terrore, nel quale però non è spenta la scintilla della persona, dell’io.
Verrebbe da citare la lettera agli Ebrei, quando parla di noi che siamo «circondati da un così gran nugolo di testimoni» (e non abbiamo spazio per parlare di Tovini, di Leopardi, e delle altre mostre del Meeting). Testimoni che ci sostengono nel nostro quotidiano essere protagonisti. Perché il quotidiano non è banale, se l’io è protagonista. Viene in mente la spettacolare formella del campanile di Giotto in una della ultime sale della grande mostra Exempla: uno scalpellino che ha la sublime dignità di Fidia.
(Pigi Colognesi)




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testimonianza

sabato, 13 settembre 2008

Andrea Aziani
grazie!***grazie!

 
Antonio Socci 31 luglio 2008 – S. Ignazio di Loyola

A Julian Carron
(direttamente o tramite Alberto Savorana)
Caro Julian,
stamani sono stato svegliato da una telefonata di mia figlia Caterina, che chiamava dalla vacanza del Clu, dove aveva appreso della morte di Andrea. Sono stato a lungo frastornato, in silenzio. Poi ho realizzato quanto Caterina piangeva a dirotto mentre mi dava questa notizia.


Piangeva perché sapeva chi era Andrea per me. Era stato anche il suo padrino di battesimo. Ma in fondo lei lo ha visto pochissime volte perché Andrea partì da Siena quando lei era ancora piccola. L’ha poi rivisto quando tornava dal Perù, ma una manciata di volte. Lo stimava e l’amava perché vedeva quanto io e Alessandra lo stimavamo e lo amavamo. Ma, secondo me, Caterina piangeva anche e soprattutto di commozione per sé, perché sapeva bene che la sua propria vita, la sua chiamata dal nulla all’esistenza, Dio l’aveva realizzata proprio grazie al “sì” di Andrea che venendo a Siena ha fatto fiorire la giovinezza mia e di Alessandra, che così, in questa storia, siamo diventati poi suo padre e sua madre. Il suo stesso nome, Caterina, porta il segno di quel incontro che ci ha fatto riscoprire e amare con entusiasmo i santi della nostra terra.
E’ bello un destino che ti raggiunge con il volto di Andrea. Un mio amico mi ha detto: da anni, quando prego e dico Gesù Cristo, è anche il volto di Andrea che mi viene alla mente.
Sono così tante le cose che vorrei raccontarti, ma è anche così forte il groppo alla gola, la commozione per avere avuto in dono amici, fratelli, padri come Andrea. Che mistero è questo, che crea un legame più forte della carne e del sangue! E che infinita compassione ha avuto Dio di noi, per mandarci in dono amici così belli! E che commozione sentire i propri figli vibrare e commuoversi per le stesse cose e gli stessi volti che fanno vibrare e commuovere noi. Che spettacolo vedere le loro giovinezze fiorire allo stesso caldo sole che ha fatto fiorire le nostre giovinezza e che continua, per infinita tenerezza, ad alimentarle. Creando un popolo di uomini, donne e bambini commossi e grati.
Mi viene solo da dire – correggendo Pasolini – “oh generazione fortunata!”. La nostra, la mia. Che immensa, struggente fortuna è infatti essere raggiunti dal nostro destino tramite volti così.
Io incontrai Andrea e Dado il 16 gennaio 1977, alle ore 12. Era il compleanno di Andrea e due giorni dopo era il mio diciottesimo compleanno. Ma io nacqui allora, in quell’incontro. Letteralmente.
Ho sempre pensato che il Signore aveva scelto per me le persone più adatte (le più adatte a me) per farmi conoscere la sua bellezza e a donarmi la sua amicizia.
Julian, Andrea era un santo. Un uomo vero. Sinceramente io non ne ho incontrati molti come lui. Per me era e resta senza paragoni. Mi accorgo ora che il suo “dies natalis” è stato per la festa di S. Ignazio di Loyola: noi abbiamo sempre avuto la sensazione che lui fosse come uno dei primi sei compagni di Ignazio.
Quando vedemmo il film “Mission” subito dicemmo tutti: ma questo è Andrea. Quello che scala la cascata, inerme, per raggiungere i Guaranì, dopo che han buttato giù un altro gesuita crocifisso. Quei piedi nudi che scalano la montagna sotto la cascata per il compito (e l’irresistibile desiderio) di annunciare Gesù a tutti, a qualunque costo, era Andrea.
Sarà perché ha sempre desiderato ardentemente andare in missione e andare in Sud America, ma lui era di quella tempra lì. Ardeva… Fac ut ardeat cor meum…(una radicalità in cui emergevano le sue ascendenze ebraiche e che lo faceva assomigliare a san Paolo)
. Ovviamente l’abbiamo tante volte preso in giro nei frizzi per la sua instancabilità e certi suoi aspetti buffi e lui ne rideva di cuore, ma che forza, che bellezza, stare con lui, stare dietro di lui, anche se aveva un passo molto, molto spedito. La giovinezza è avere quel cuore lì. E io voglio ancora stargli dietro. Ora più che mai, aiutandolo da qui a fare sfracelli lassù, come ha fatto quaggiù.
Era sempre sorridente, pacificato e felice, ma per lui non esisteva né il caldo né il freddo, né il bisogno di mangiare, né di bere, né di dormire… in qualunque luogo ci fosse bisogno di Cristo lui c’era, infatti era dappertutto, questo era il suo instancabile “movimento” quotidiano, di ogni ora e di ogni minuto, il suo stesso respiro. “Per guadagnarci un posto in Purgatorio”, diceva lui ridendo e sollevando le nostre rumorose proteste. Era una battuta, ma che diceva quanto lui facesse tutto con la gratuità del “servo inutile”, di chi sa che è Dio che opera e che converte. Pur non concedendosi un minuto di riposo, ci ripeteva: “non è che dobbiamo noi salvare il mondo. Noi dobbiamo solo non ostacolare il Signore. Dobbiamo solo non impedirgli di salvare tutti”. A pensarci è una rivoluzione. Infatti lui si faceva quasi trasparente, per evitare che chi lo incontrava non si accorgesse di Gesù. Delle tantissime altre cose che vorrei dirti e che qui non posso dirti, ne scelgo una, per me la più preziosa, quella che da anni, ogni volta che ci penso, mi strugge il cuore, riempiendomi di gratitudine e anche di vergogna di me.
Ho conosciuto tanti che testimoniano Gesù con ardore, con intelligenza e cuore. Ma la particolarità di Andrea – che non dimenticherò mai! – era questa: in lui non c’era un atomo, neanche remotissimo, di amor proprio. Lui si faceva tutto con tutti. Sembrava che la sua sola felicità fosse che io (e tutti quelli che incontrava) fossi felice. Sembrava che la sua realizzazione fosse che io realizzassi il mio destino. Come un padre e una madre, ma di più, perché più gratuitamente (in fondo in noi genitori c’è sempre l’orgoglio dei “nostri” figli)In ogni suo gesto, in ogni sfumatura, in ogni sua attenzione o parola, sempre e in tutto, lui affermava sempre e solo te, ognuno di coloro che Dio gli aveva affidato. Mai sé. Mai avevi la sensazione che stesse difendendo qualcosa o affermando un suo punto di vista o cercasse una gratificazione. E’ difficile da spiegare, ma io non ho mai conosciuto un’umiltà così grande: sembrava appassionato a cancellare se stesso per affermare e costruire la tua felicità, il tuo destino. Perché si sa quanto – anche nella più eroica carità o nella più eroica ascesi – a volte possa nascondersi l’orgoglio, soprattutto l’orgoglio spirituale che è il più insidioso. Anche nell’autoumiliarsi a volte c’è un’ostentazione che dà spazio al proprio “io”. Niente di tutto questo c’era in Andrea. Sembrava che lui non avesse neanche più un “io”. Viveva ogni respiro per Lui, perché ognuno trovasse il suo destino, cioè Lui: il suo “io” era letteralmente assorbito in Colui per cui respirava e per cui batteva il suo cuore. Tu avevi sempre la sensazione, certa, che quell’uomo, per te, avrebbe dato la vita. In ogni momento. E senza alcuna ostentazione. In silenzio. E’ incredibile a dirsi. Uno spettacolo per gli angeli. E io sono certissimo che, oltre a dare tutto se stesso, il suo tempo, le sue energie, la sua intelligenza, per la missione, io sono certo che si è offerto esplicitamente. Per noi, per tutti noi. Penso, con le lacrime agli occhi, anche per me. Per tutte queste cose devo e voglio onorare mio padre e la casa di mio padre. E sento che c’è l’urgenza di convertirci. Per diventare come lui forse no, ma almeno per assomigliargli. Innanzitutto cominciando dal primo passo, per me difficilissimo: l’umiltà. “Lasciarsi portare dal legno della Sua umiltà”, come dice s. Agostino. Lasciarsi portare… Se pensi che per questo possa tornare nella Fraternità, io ne sarei felice.
Un abbraccio,
Antonio Socci 31 luglio 2008 – S. Ignazio di Loyola

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venerdì, 12 settembre 2008

Io giaccio con la verginità
***

l'intervento di Padre Aldo Trento
 al Meeting di Rimini
Di Aldo Trento
"Corazón maldito por qué palpitas?", "cuore maledetto, perché batti?", diceva Violeta Parra. E poi: "Gracias a la vida que me ha dado tanto". E poco tempo dopo si toglie la vita. Perché comincio così? Perché vorrei rispondere qui a quello che mi ha commosso molti anni fa quando Giussani ha detto: "Vi auguro di non essere mai tranquilli".
Luglio 2008, sono lì con i bebé a cui sto dando il biberon. Torna Cristina, la mamma che mi aiuta coi bambini piccoli malati di Aids o violentati, tornano con le pagelle, li metto in girotondo, leggo le pagelle. Lì si va dall'uno al cinque. Uno, uno, uno, uno, tutti uno. Sorrido e gli dico: "Assomigliate a vostro padre che sempre ha avuto problemi di scuola e di risultati, era buono a nulla. Placido si chiamava, e spera di diventare santo. Però c'è un motivo che mi fa contento. Perché nella vita la cosa difficile non è passare da uno a cinque, è passare da zero a uno. E voi da febbraio a luglio siete passati da zero a uno." Poi ho spiegato alla mamma cosa volevo dire. Bene, io sono questo ragazzino di sessantadue anni che forse è arrivato a due, per pura grazia divina. Per questo, più che parlarvi delle opere, ho scritto un omaggio a Giussani, perché io vivo di lui: è lui, è Dio, è lui dietro tutto quello che potete vedere o leggere. "Padre Aldo – mi disse Giussani – ho deciso, adesso che stai diventando un uomo, di mandarti in Paraguay." "Ma come, mio fratello mi ha detto che sarebbe meglio che mi ricoverassi al reparto per esauriti mentali a Feltre, visto la grande depressione che sto vivendo, una malattia inattesa, che mi ha portato d'improvviso a perdere il gusto della vita, mi ha reso difficile ma non impossibile il nesso con la realtà, e tu , mi vuoi mandare in missione?" Giussani mi guardò come quella volta che Gesù fissò con tenerezza il giovane ricco, Zaccheo, la Maddalena, Matteo, e mi disse: "Ebbene, io ti mando in missione perché solo adesso mi sento sicuro di te. Parti. Ti faranno il biglietto e io ti accompagnerò a Linate con lei e i suoi tre bambini." Era il maggio del 1989, a Riva del Garda. Ma cosa era successo prima, perché mi accadesse tutto questo? Perché il Giuss mi prendesse per mano e mi dicesse quelle parole? A sette anni la chiamata chiara ad essere tutto di Gesù. Cinquant'anni fa, il 28 luglio 1958, abbandonai la mia famiglia alla quale non chiesi il permesso, semplicemente la posi al corrente della decisione, e in autostop fermai un trattore che mi portò in seminario. Mia madre mi guardava sbalordita e incredula dalla finestra e piangeva, e io: "Mamma mi verrai a trovare?", ed il trattore si avviò lentamente verso un destino in cui era chiara solo una cosa in me, dentro la mia irrequietezza: Gesù mi voleva tutto, tutto per sé. Molti anni più tardi compresi che tutto questo si chiama verginità, che è la bellezza, lo stupore, la capacità di commuoversi di fronte alla realtà, paternità, pienezza affettiva. Il seminario: anni difficili, belli e rabbiosi. Finalmente, nel pieno della contestazione del '68, nel '71 mi ordinano sacerdote. Dubitavo che mi ammettessero. Ero totalmente di Cristo, ma l'insoddisfazione e il desiderio di un mondo nuovo, l'irrequietezza per un vuoto esistenzialmente e socialmente poco interessante, mi portò a simpatizzare per Potere Operaio, l'ideologia piano piano cercava di riempire quel vuoto, ma il male di viere già faceva capolino dentro le fibre del mio cuore e si manifestava in ribellione. Così mi spedirono a Salerno, fra i figli dei carcerati, per vedere se entravo nell'ordine, nel politicamente corretto, diremmo oggi. Lì un giorno quattro ragazzini di Battipaglia, come un fulmine cambiarono la mia vita. Primo avevo partecipato a organizzare uno sciopero contro l'imperialismo del Vietnam e insegnavo la teoria di Paulo Freire invece di religione. Quei ragazzi mi dissero: "Professore, non è così che lei cambia il mondo, il mondo cambia se cambia lei, e lei cambia se si lascia amare da Gesù." Sconvolto, da quel momento, una possibilità nuova apparì all'orizzonte della mia vita: potevo prendere sul serio la mia umanità senza paura, senza censurare niente. Le cose però precipitarono e i miei superiori mi spedirono a nord, vicino a mia madre, per vedere un possibile miracolo nella mia vita. Così mi stabilii a Feltre, in provincia di Belluno. Tutto continuava in una guerra interiore fra l'ideologia e il vuoto esistenziale, la domanda sul perché della vita e una aridità affettiva terribile, perché si era pietrificato il cuore. Si diceva (e l'avevo imparato a memoria): "Il privato non esiste, ciò che conta è il politico". Due anni durissimi, dove solo quella scintilla accesa a Salerno mi dava una fragile speranza.
Però la disperazione cresceva e fu così che un giorno un amico i invitò ad un'assemblea a Padova con don Giussani. Sul palco, ricordo come adesso, salì una giovane bella donna, vedova con tre bambini piccoli, lesse il suo dramma e la sua fede di fronte a quanto le era accaduto. Rimasi sconvolto da quel gennaio '87 non ebbi più pace. Ero rimasto affascinato. Un fascino che dopo alcuni mesi si trasformò in una grande affezione. Mi sembrava di sognare. Ma date le reciproche condizioni di vita, tutto sfociò in disperazione che diventerà ben presto la depressione che non mi abbandonerà più. Da quel momento mi spaventai perché non potevo credere che la mia umanità fosse un impasto di desideri, di aspirazioni di infinito, di amare, di essere amato, di bellezza e di giustizia e anche di gelosia e di possessività. Ma che fare? Il grido, l'umano è solo grido, mi rese mendicante; mendicante di un rapporto di qualcuno che mi facesse vedere che quell'affetto non solo non era incompatibile con quello che ero, con il mio sacerdozio, ma era come il cammino necessario per gustare la bellezza della verginità, il possesso senza possedere, per vincere quel vuoto affettivo riempito per anni dall'anestesia dell'ideologia. E così il 25 marzo 1988, in ginocchio, piangendo, andai da Giussani. Mi accolse come lui sapeva fare, perché nel suo cuore c'era posto per uno come per un milione. Mi abbracciò, mi lasciò piangere, mi dette le caramelle dopo un lungo tempo di singhiozzi e mi disse: "Che bello, adesso finalmente cominci ad essere un uomo! Quanto stai vivendo è una grazia per te, per lei, per i suoi figli , per il movimento e per la Chiesa. Vai e porta loro l'uovo di Pasqua."
Da quel giorno e fino alla morte mi tenne con sé. Prima di uscire da quella stanza a Milano mi richiamò indietro e mi disse: "Come sarebbe bello che quest'estate qualcuno ti facesse compagnia!" Lo guardai e gli dissi: "Ma Giussani, dove potrei incontrare un uomo, un prete, disposto a condividere l'estate con uno schizzato, un ossesso, con tutto quello che devono fare?" Mi fissò come Gesù: "Va bene, ti porterò con me." Per due mesi, fino alla partenza per il Paraguay, mi tenne con sé, pagandomi tutto e trasferendomi dalla mia congregazione alla Fraternità San Carlo. Don Massimo Camisasca si vide arrivare questo pacco, questo povero uomo, buono a nulla, nelle sue mani e mi accolse. "Prendere sul serio la propria umanità senza censurarla – dice Giussani in "Tracce d'esperienza cristiana" – è la strada necessaria perché riaccada l'incontro con Cristo." Ma che terribile, che bella la propria umanità così fragile, così povera e grande nello stesso tempo! Mi ha fatto paura il mio io. Non pensavo che l'umano fosse una miscela di cose belle e disperate, che fosse insieme ironia e disperazione. Così per non perdere quanto amavo, mi accompagnò all'aeroporto e volle che ci fosse quel segno sacramentale dell'amore divino con i suoi tre bambini. Ricordo quando con gli occhi rossi, sul marciapiedi di Linate, guardando lei sofferente, dissi a don Giuss: "E lei?" La guardò e le disse: "Al prossimo ritiro del Gruppo Adulto ti aspetto".
Era il giorno della Natività della Madonna quando giunsi in Paraguay. Passò un anno, e il 15 ottobre 1990, giorno del compleanno del Giuss, mi chiamò lui per telefono: "Padre Aldo, chiama lei e dille che il direttivo del Gruppo Adulto ha deciso di accoglierla nel suo grembo." Non riuscii neanche ad augurargli buon compleanno per la commozione, perché non potevo capire tanta tenerezza sua e tanta umanità. Non poteva far lui questa cosa? Dirglielo lui! Perché si preoccupa che sia io a dirlo a lei, che stavo a dodicimila chilometri di distanza? Solo un uomo come lui poteva essere capace di amare così. Da quel giorno sono dovuti passare quindici lunghi anni dove solo la compagnia di Padre Alberto continuità visibile di quella del Giuss, non solo ha impedito che la facessi finita con la vita, diventata insopportabile per l'acuirsi ogni giorno di più della depressione, ma mi ha fatto lentamente capire una cosa essenziale nella vita: solo un grande amore, un grande dolore, dentro la forte e tenera amicizia, per quanto fragile, fanno di un io un uomo, cioè un padre. Padre Alberto ha vissuto per dieci anni solo per fare compagnia ad un disperato, dibattuto fra la percezione che amare ed essere amato è possibile e la crudeltà della vita che pareva fregarmi. Ma la realtà, l’umano di ognuno, non sono mai nemici dell’io, neanche quando ti rendi conto che non ti fanno nessuno sconto. Perché vi garantisco, è terribile prendere sul serio la realtà, la propria umanità. Perché non puoi che gridare, mendicare, consegnarti come da quando ho sette anni continuo a gridare. E così ad un certo punto Dio, la realtà, mi toglie anche la compagnia di Alberto e rimango solo. Solo col mio dramma, con la mia non voglia di vivere, con la mia stanchezza. L'unico conforto, da quel momento, sarà l'Eucaristia, che porrò come parroco e signore di tutto.
Da lontano, Alberto e monsignor Pezzi mi guidano ogni giorno: "Aldo, in alto i cuori!" La chiarezza del destino , pur nella confusione della mente e nell'assenza di ogni emotività; la percezione della distanza come condizione del "già", di una possibile pienezza affettiva, l'unica che fa di un uomo un uomo; la possibilità di amare virilmente colei che Dio mi aveva posto sul cammino come inizio di cambiamento: tutto questo si chiama verginità che ha dato origine a quella piccola città della carità che, in compagnia di Paolino e Ettore, è diventata la comunità di San Rafael in Paraguay. La verginità, ossia la carità, è la pienezza oggi, è come l'albore dell'io a cui è data la grazia di sperimentare adesso quello che ogni ragazzino con la tenerezza che porta dentro dice alla sua ragazzina: "Tuo per sempre, ti voglio bene per sempre". In fondo siamo realisti, aveva ragione Camus quando metteva in bocca a Caligola: "Voglio la luna" O quanto scriveva Karl Marx a sua moglie: "Ciò che fa di me un uomo è il mio amore per te e il tuo per me". Si ama, si è padri, solo se si è amati, attraverso tutte le belle, drammatiche, ironiche pieghe dell'umano. Io vivo facendo compagnia all'uomo che grida, piccolo, giovane o ammalato terminale che sia. Quanto è nato e creato da Dio, mediante questo povero uomo, è stato da lui voluto perché io possa fare a tutti quello che Giussani ha fatto a me: compagnia. È così che quando ho visto per la prima volta un cadavere per strada me lo sono preso, l'ho portato a casa, l'ho pulito. E così di giorno in giorno. Ho preso i moribondi, gli abbandonati, quelli putrefatti delle favelas. E Dio ha creato quell’insieme di opere che oggi vedono impiegate più di 100 persone pagate e centinaia di volontari. L’uomo sano, bello o putrefatto non ha bisogno di consigli, ma di qualcuno che lo tenga per mano. Prendere sul serio il grido che siamo. Dare fiducia a qualcuno che Dio certamente mette sul tuo cammino per indicarti il destino. Accogliere il sacrificio, il dolore, non come una malattia ma come una grazia. Ricordo un editoriale su un settimanale di molti anni fa, in Paraguay, l’Osservatore della settimana: “La depressione non è una malattia, ma una grazia”. Un senatore molto conosciuto si avvicina dopo avermi cercato. Voleva togliersi la vita: questo editoriale lo cambia. Da quel momento diventa un altro. Presiede la commissione Bicamerale. Riesce a mettere tutte le nostre opere nella finanziaria. Così un governo del terzo mondo applica un articolo in cui sostiene finanzia per mille milioni, duecentocinquantamila dollari, un’opera, una realtà che certamente non ha appoggiato il governo attuale. Una cosa impressionante; e così tutto quello che viene dopo. La depressione non è una malattia, è una grazia, perché ti spoglia di tutto. Oggi la chiamano malattia, un tempo la chiamavano purificazione,notte dell’anima, possibilità della santità: per me è ancora quello. Per questo oggi raccolgo anche i matti. Mi facevano tremendamente paura anni fa, perché mi vedevo un possibile candidato ad essere uno di loro. Oggi li guardo con ironia e rido con loro perché anche nella pazzia ho visto che in tutti c’è un minimo di libertà. Perché ho sperimentato che se non fosse vero questo non esisterebbe Dio, perché non ci sarebbe l’uomo. L’uomo è libero anche quando perde la ragione. Ho la certezza perché l’ho visto su di me.
Voglio dire che realmente il dolore è una grazia che ti permette di essere contento perché ti permette di amare, ti permette di vivere la verginità, che è l’unica e reale e concreta vocazione dell’uomo: la pienezza dell’io. Perché c’è la verginità? L’io compiuto, già come possibilità adesso, come possibilità affettiva. Grazie Gesù per il tanto amore, per il tanto dolore ch emi permetti di vivere ogni giorno. Stretto a te sulla croce per poter dire a tutti: “Ti voglio bene per l’eternità così come io sono voluto bene da te o Gesù.” Davvero si è compiuta quella promessa. Io a 62 anni sono un uomo contento dentro un inizio di compiutezza che mi fa guardarla morte con serenità. Ho accompagnato a morire più di cinquecento persone in quattro anni. Tutte con il sorriso sulle labbra. Son diventato padre di decine di bambini che non hanno nessuno e mi chiamano papà: “Papà, quando torni, e perché te ne vai?” Li metto a letto la sera, li prendo la mattina e li accompagno a scuola. In me si è compiuta , si sta compiendo quella profezia di Giussani: “È una grazia per te.” Per lei anche, perché è una donna contenta, per i suoi figli: due consacrati e uno sposato, per il movimento. Credo che l’esperienza che vivo sia un esempio per la chiesa. Io vivo per quello. Anche oggi che in Paraguay c’è un governo socialista, il vicepresidente pur sapendo tutta la battaglia che abbiamo fatto perché non vincesse questo governo, mi ha chiesto: “Padre, posso ogni lunedì alle sei, venire a pregare lodi con te?” Ebbene, da quando è stato nominato, il 15 agosto, tutti i lunedì mattina il vicepresidente prega lodi con me e fa un po’ di adorazione. Un miracolo insperato. È nato perfino un partito trasversale per i temi della vita, per i temi dei poveri. Perché anche dentro a questa condizione impensata del socialismo del Ventunesimo secolo che vuole svuotare il cristianesimo di Cristo , uno deve lavorare con intelligenza, con amore, con Cristo, partendo da Dio. Anche il vescovo presidente ha detto al Nunzio: “Padre Aldo io lo rispetto, e così i suoi confratelli. Perché di fronte a quello che lì accade, non è possibile fare rappresaglie, perché è qualcosa che noi desideriamo che accadesse in tutto il Paraguay”. Grazie, e pregate per me.
Da Il Foglio, trascritto dal cartaceo di sabato 30 agosto 2008


Postato da: giacabi a 17:20 | link | commenti
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