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sabato 25 febbraio 2012

ungaretti


La mimosa
 

***
Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
E' sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa. S'inquadra alla finestra
Di quella mia dimora d'una volta,
Di questa dove passo gli anni vecchi.

Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
Segno sara' che niuna cosa muore
Se ne ritorna sempre l'apparenza?

O sapro' finalmente che la morte
Regno non ha che sopra l'apparenza?


Giuseppe Ungaretti, da "Ultimi cori per la Terra Promessa, 9", Il taccuino del vecchio, 1960

Postato da: giacabi a 21:09 | link | commenti
ungaretti

venerdì, 25 settembre 2009

PIETA'
***

Sono un uomo ferito.
E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L'uomo che è dolo con sé.
Non ho che superbia e bontà.
E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.
Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?
Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?
Regno sopra fantasmi.
O figlie secche,
Anima portata qua e là...
No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.
Dio, coloro che t'implorano
Non ti conoscono più che di nome?
M'hai discacciato dalla vita.
Mi discaccerai dalla morte?
Forse l'uomo è anche indegno di sperare.
Anche la fonte del rimorso è secca?
Il peccato che importa,
Se alla purezza non conduce più.
La carne si ricorda appena
che una volta fu forte.
E' folle e usata, l'anima.
Dio, guarda la nostra debolezza.
Vorremmo una certezza.
Di noi nemmeno più ridi?
E compiangici dunque, crudeltà.
Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.
Una traccia mostraci di giustizia.
La tua legge qual è?
Fulmina le mie povere emozioni,
Liberami dall'inquietudine.
Sono stanco di urlare senza voce..
G. Ungaretti Da: "Il sentimento del tempo"
Grazie a : Billacorgan

Postato da: giacabi a 21:28 | link | commenti
ungaretti


Stella, mia unica stella
***



Stella,
mia unica stella.
Nella povertà della notte, sola,
Per me, solo, rifulgi,
Nella mia solitudine rifulgi,
Ma, per me, Stella
Che mai non finirai d'illuminare
Un tempo ti è concesso troppo breve,
Mi elargisci una luce Che la disperazione in me Non fa che acuire.
G. Ungaretti


Postato da: giacabi a 21:21 | link | commenti
ungaretti

lunedì, 21 settembre 2009

 La miseria dell’uomo
 ***

 L’uomo monotono universo
 vede allargarsi i beni 
       e dalle sue mani febbrili
       non escono senza fine che limiti.
       Attaccato nel vuoto
       al suo filo di ragno,
       non teme e non seduce
       se non il proprio grido.  
                 (G.Ungaretti)


Postato da: giacabi a 20:44 | link | commenti
ungaretti

martedì, 06 novembre 2007

Il senso religioso
***
Dannazione
*** 
Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)

perché bramo Dio?
,,
G. Ungaretti

Postato da: giacabi a 20:25 | link | commenti
ungaretti, senso religioso

martedì, 10 luglio 2007

MADRE

***

E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
G.Ungaretti La madre 1930


 

Postato da: giacabi a 06:55 | link | commenti
ungaretti

sabato, 21 aprile 2007

LA  PREGHIERA  (1928)
***
Come dolce prima dell'uomo
Doveva andare il mondo.

L'uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è peso enorme
Come liggiù quell'ale d'ape morta
Alla formicola che la trascina.

Da ciò che dura a ciò che passa,
Signore, sogno fermo,
Fa' che torni a correre un patto.

Oh! rasserena questi figli.

Fa' che l'uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l'infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa' ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate
Le anime s'uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.
Giuseppe Ungaretti 

Postato da: giacabi a 12:28 | link | commenti
preghiere, ungaretti

martedì, 10 aprile 2007


La solitudine
***
Pensavo oggi, guardando questo cielo piovigginoso, che se, per un'improbabile grazia, si fosse d'improvviso alzato l'azzurro, non sarei stato colto da stupore nè da speranza. Anche la nostalgia ha finito di persuadermi. Ho varcato tutti gli stadi dove l'uomo può ancora trovarsi una ragione di vivere. Gli alti cieli delle notti chiare, se mai ancora dovessero scoprirsi per me, avrebbero un significato di commiato. Non sai -e chi saprà? - quest'infelicità di sentirsi abbandonato? abbandonato anche dalle cose, anche dalla terra, anche dal mistero delle stagioni.
Non avere prossimo; si potrebbe popolare il mondo di confidenti immaginari, ma non essere cresciuto in alcuna terra; ma non portare in nessun luogo l'aria familiare dell'origine, ma vagare sempre in esilio.
Mi sono creato un paese di cristallo, perchè fatalmente dovessi accorgermi, da qualsiasi. punto, che non era naturale.
E non si può vivere a lungo di queste allucinazioni ideali.
La vita è una dura disputa mossa da guai concreti, e ci vuole un terreno nel quale attecchire, e ci vuole il caldo che maturi e odori, e ci vuole la sera, che inondi di malinconia e la mattina che rinfreschi e rassereni.
Non ho che strade, strade e strade: il grigio perfido di questo cammino senza conclusione.
(G. Ungaretti, Lettera a Prezzolini e Soffici, Parigi 23-4-1920) 21

Postato da: giacabi a 19:44 | link | commenti
solitudine, ungaretti

lunedì, 26 febbraio 2007

Ungaretti e Dio
di Roberto Filippetti
***
Vita di un uomo: questo il titolo - tanto elementare quanto impegnativo - che Ungaretti ha scelto per la propria opera omnia. Vuole dunque presentarcela - scrive Giachery - «come opera che condensa il senso della vita, come opera-vita. In una accezione perciò quasi dantesca e tutt'altro che dannunziana». Ed è il poeta a confermarcelo: «Non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta». È un'esperienza di privazione quella che egli ha alle spalle, quando l'incontriamo, ventottenne soldato sul fronte carsico, e lo vediamo deporre sulla pagina quelle folgoranti invenzioni poetiche: nasce in terra straniera, figlio di un contadino lucchese emigrato ad Alessandria d'Egitto per lo scavo del Canale di Suez; presto, all'età di due anni, perde il padre; la madre lo educa entro uno scrupoloso ricordo di quell'evento luttuoso: ogni settimana si andava «al camposanto, dove passavamo ore in preghiera che dovevo seguire, che dovevo accompagnare». Quando da adolescente abbandona la religione, percepita come rituale moralismo, pare privarsi anche del rispetto al Padre, a quell'Origine-Destino che dà senso alla vita. Ma in ciò non è tranquillo.
«Il porto sepolto»
Scrivere, tra il '15 e il '16, per Ungaretti è allora dantescamente scendere a sorprendere le proprie esigenze ed evidenze originali: è una «via in giù» verso Il porto sepolto - titolo del suo primo volume di versi. È una discesa verso la sub-stantia, la verità essenziale che dimora sotto la superficie delle cose. Giù in profondità, nel cuore, l'uomo si scopre carico di domande ineludibili. Domanda di identità, di avere un volto, innanzitutto. In memoria: «Si chiamava/ Mohammed Scead/ Discendente/ di emiri di nomadi/ suicida/ perché non aveva più/ Patria».
L'amico afro-libanese, compagno di studi ad Alessandria, compagno d'albergo a Parigi, qui in un giorno d'estate del '13 si toglie la vita: colui che aveva avuto un'identità, delle radici, una sorgente da cui discendeva il fiume della sua vita, giunge ora all'autodistruzione. Si è privato dell'essenziale, di quel patrimonio di tradizioni offerto alla personale verifica: la Patria. Ha tentato, ma inutilmente, di costruirsi una nuova identità con le proprie mani: «Amò la Francia/ e mutò nome/ Fu Marcel/ ma non era Francese/ e non sapeva più/ vivere/ nella tenda dei suoi/ dove si ascolta la cantilena/ del Corano/ gustando un caffé». È impossibile ricucire, una volta tagliato, il cordone ombelicale che collega l'io con la dimora abbandonata, con quel luogo in cui il gusto della materialità della vita discende dal riconoscimento di un «orizzonte»: quella visione religiosa del mondo che è alimentata dalla frequentazione quotidiana del sacro.
Ungaretti, figlio d'emigrati, sta invece compiendo il cammino inverso. La lirica I fiumi - a cui il poeta ha esplicitamente affidato il compito di sintetizzare la sua prima stagione - descrive un viaggio alle radici, un iniziale ritrovamento della propria identità, attraverso i luoghi della storia di quella «gens» che l'ha generato, e attraverso le tappe della propria vita. Il Serchio - emblema della bimillenaria tradizione contadina dei suoi antenati poi il Nilo e la Senna sono ora ritrovati nell'Isonzo.
Non la strada, ma il fiume simboleggia il viaggio della vita: se la strada è sempre in Ungaretti «gomitolo», «groviglio», «cammino senza conclusione», il fiume è invece via certa al destino; è apparentemente un segmento concluso tra sorgente e foce, ma sostanzialmente cerchio - ciclo dell'acqua che dalla foce torna a rigenerare continuamente la sorgente - proprio come la vita umana è in superficie parabola tagliata ai due estremi da nascita a morte, ma in profondità si rivela un cerchio che in un punto totalmente Altro, assoluto (Dio-Cielo) trova il suo luogo di ricongiungimento. L'intuizione di tale mistero è preparata nelle prime strofe de I fiumi da una disposizione contemplativa - necessaria passività di fronte al dato della realtà -: pacificante stupore di chi alza gli occhi sul cielo («e guardo/ il passaggio quieto/ delle nuvole sulla luna»); refrigerante immersione catartica nell'acqua dell'Isonzo. La correlata attività umana è allora umile accoglienza dell'Altro, «inchinarsi dinnanzi all'infinitamente grande» (Dostoevskij) e «ricevere»: - e come un beduino/ mi sono chinato a ricevere/ il sole». Si tratta - commenta Carlo Ossola - «di un cerimoniale d'ingresso nel tempio dell'assoluto che prosegue con i modi della liturgia araba».
«Sono una creatura»
È nell'intuizione di quel Tu che si inaugura una nuova conoscenza dell'Io, «scoperta» dirà Ungaretti «della condizione umana nella sua essenza»: «Questo è l'Isonzo/ e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell'universo». A riconoscimento della propria indole più vera, la dipendenza. Se «il senso religioso coincide con quel senso di originale, totale dipendenza, che è l'evidenza più grande e suggestiva per l'uomo di tutti i tempi» (Luigi Giussani), tale è il contenuto dell'autocoscienza del poeta che, pochi giorni prima aveva scritto Sono una creatura e, in Destino, si era definito «fibra creata». Quel Tu è però senza faccia, dunque la nuova consapevolezza di sé è ancora precaria: «il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia/ Ma quelle occulte/ mani/ che m'intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità»: se il supplizio ,è l'esito di una percezione disarmonica dell'io, la felicità è esperienza di rari attimi in cui il poeta riconosce di non farsi da sé, scopre il dono («Mi regalano») di essere plasmato da Altro. Il fil rouge della lirica è il dimostrativo «questo» che riconduce all'hic et nunc tutti i dispersi frammenti spazio-temporali; solo una volta compare l'antitetico «quelle», per connotare l'abissale lontananza di quelle arcane «mani» senza volto: «sono» annota il poeta «le mani eterne che foggiano assidue il destino di ogni essere vivente»; sono le mani di un Dio che non può essere ancora nominato (conosciuto) ma è già intuito come scaturigine del proprio istante presente.
In tale apertura sul mistero sta il vertice della ragione. Ciò inesorabilmente evolve in esplicita domanda. Fra i rari punti interrogativi, cinque in tutto, che si incontrano nel libro L'allegria, due esprimono l'urgenza di un senso per il dolore e per la precarietà della vita (Destino e Fratelli), due si affacciano su Dio. In Risvegli, alla fine di una strofa pacatamente contemplativa, l'appagamento naturalistico si sgretola nell'impatto con una evidenza: il poeta, rammentandosi «di qualche amico/morto» (forse Mohammed Scead) è costretto a paragonarsi con la realtà del limite ultimo della vita, ed a porsi improvvisa la domanda: «Ma Dio cos'è?».
Dello stesso giorno un'altra, brevissima lirica, Dannazione: «Chiuso fra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ perché bramo Dio?». L'io registra il naturale destino di morte della propria imprigionata esistenza: è circondato da una realtà peritura, sia che si guardi attorno, sia che alzi gli occhi verso il firmamento. Ma quest'uomo - il livello della natura in cui anche il «cielo stellato» prende coscienza della propria precarietà - non si chiude disperatamente nel negativo; sente invece urgere dentro prepotente la domanda di Dio. Il limite cosmico rimanda all'infinito, l'inconsistenza del reale, analogicamente, grida il bisogno di un Centro in cui tutto consista.
L'analogia, fondamentale cifra stilistica ungarettiana, più in profondità cela una visione del mondo: tutto rimanda anà, oltre sé, più su. Perché c'è nell'uomo un quid, quel qualcosa che Pirandello negli stessi anni chiamava un «superfluo», qualcosa che scorre al di sopra, cioè più su. La meta di tale tensione non è ancora una Presenza, è «un Dio metafisico il cui pensiero può lenire l'angoscia di trovarsi tra cose dannate all'imperfezione e al peccato», come scrive Pasolini, che poi conclude «nell'Allegria un Dio ignoto («Dio cos'è?») aspetta il poeta silenziosamente».
Questo libro è sigillato da Preghiera, un testo che, con la sua apertura sulla palingenesi finale, col suo rivolgersi a Dio come «Signore» già prelude all'evento che sta per accadere: la conversione. Lentamente maturata nell'impatto con l'arte di Michelangelo, con l'architettura della città di Roma, con la lettura di Pascal, si compie però attraverso un preciso incontro: Francesco Vignanelli «anche lui prima incredulo poi convertitosi» come attesta Leone Piccioni, è ora monaco benedettino. Su suo invito Ungaretti passa la Settimana Santa nel monastero di Subiaco e partecipa agli esercizi spirituali. Tale evento rifluisce negli Inni del Sentimento del tempo. In particolare - confessa il poeta - La pietà.
«Signore, sogno fermo»
La Pietà «è la prima manifestazione risoluta di un mio ritorno alla fede cristiana». L'«uomo ferito», «solo con sé», «esiliato in mezzo agli uomini» è posto di fronte al Dio-misericordia. Sgorgano dal cuore frammenti di invocazione, domande e splendidi giudizi: «Il peccato che importa,/ se alla purezza non conduce più», «Dio, guarda la nostra debolezza./ Vorremmo una certezza», «non ne posso più di stare murato/ nel desiderio senza amore», «Liberami dall'inquietudine/ sono stanco di urlare senza voce», «in noi sta e langue, piaga misteriosa».
Sono domande accorate che rimandano all'altro grande Inno del '28: La preghiera. Stigmatizzati gli idoli che l'uomo s'è costruito («la sua lussuria disse cielo/ la sua illusione decretò creatrice/ suppose immortale il momento») e a causa dei quali «La vita gli è di peso enorme», il poeta si rivolge al «Signore, sogno fermo». Nella preghiera chiede che l'alleanza tra Dio e l'uomo, tra eterno ed effimero, torni ad essere un'evidenza; che l'uomo riconosca l'Incarnazione e la Croce come via della Redenzione; che il peccato giudicato sia inizio di elevazione; che accada la serenità vera, la comunione dei Santi.
Ma forse culturalmente decisiva è questa invocazione al Signore: «Sii la misura, sii il mistero»: contro i vari umanesimi atei che hanno idolatrato e «ridotto» la ragione, decretato la morte di Dio e posto l'uomo come misura di tutte le cose (e gli esiti nefasti sono sotto i nostri occhi), Ungaretti ripropone l'umanesimo cristiano: la dignità umana solo se misurata sul paradigma del mistero di Dio incarnato è adeguatamente fondata. Il tema viene svolto nel terzo grande libro, Il dolore.
«Cristo astro incarnato»
Dopo la perdita del fratello, poi del figlio Antonietto, è la tragedia della Seconda guerra mondiale a ispirare versi memorabili, nel '43-44, a Roma, tra deportazioni e bombardamenti. Mio fiume anche tu è un inno alla fede che, mentre giudica la radice del male storico, dà senso alla sofferenza. Il Tevere, quinto fiume, si innesta ne I fiumi del '16, così come la fede «compie» il senso religioso.
La storia appare come «notte», una lunga notte «turbata», «straziata», «sconvolta» eppure non disperata perché ha ospitato una luminosa Presenza. «Cristo, pensoso palpito/ Astro incarnato nell'umane tenebre». Egli continua ad immolarsi «perennemente per riedificare/ umanamente l'uomo», per ridargli una dimora, una possibilità di costruzione. Evidente si fa la radice culturale della violenza, «ora che nelle fosse/ con fantasia ritorta/ e mani spudorate/ dalle fattezze umane l'uomo lacera/ l'immagine divina»: entro un orizzonte materialistico, ridotta a brandelli la creaturalità dell'uomo, fatto a immagine e somiglianza del Creatore, la dignità personale non è più adeguatamente fondabile.
Lucidamente la Redenzione viene assunta come principio ermeneutico della storia: «Vedo ora nella notte triste/ Imparo,/ so che l'inferno s'apre sulla terra/ Su misura di quanto/ l'uomo si sottrae, folle/ alla purezza della sua passione»: la carità di Cristo è misura di una socialità buona. Sottrarvisi è follia, principio di una convivenza infernale. Negli anni successivi tornerà sull'argomento, stigmatizzando De Sade per il quale «nulla è vero e tutto lecito», e denunciando come «da Nieztsche a Sartre non pare imprudente di discorrere addirittura di morte di Dio. Sarebbe negare l'uomo».
A Mio fiume anche tu fa seguito Accadrà?: un inno alla Chiesa, «patria» dell'autocoscienza comunionale. Evacuarla, protestantizzare il cattolicesimo, privatizzare la fede è l'inizio della fine. Il profetico ammonimento ungarettiano - datato 1933 - si pone come attualissima sfida: «Quando il Cristianesimo si tarla e la sua funzione religiosa tende a diventare un affare privato come con la Riforma e particolarmente col Giansenismo, il senso del male va assumendo un carattere esclusivamente psicologico e allora va perdendosi nell'individuo il valore della libertà dei propri atti, il valore della volontà, il valore della giustizia fondata sulle opere».

Postato da: giacabi a 21:54 | link | commenti
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