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sabato 25 febbraio 2012

verità2


La verità
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“La mia considerazione personale è che la verità in senso assoluto non la possiamo raggiungere da soli, e quindi c’è un elemento supremo, c’è Dio che viene da noi, che giunge da noi, ci aiuta a comprendere queste cose. Con questa speranza uno va avanti e continua a cercare la verità”
Enrico Bombieri, al meeting di Rimini 2007
 matematico di fama mondiale, è Docente alla School of Mathematics presso l’Institute for Advanced Study di Princeton. Bombieri è considerato una delle massime autorità a livello internazionale nell’ambito della teoria dei numeri. E’ nato a Milano, ha studiato Matematica all’Università di Milano. Dopo aver concluso i suoi studi nel 1963 ha insegnato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e poi si è spostato a Princeton, nel 1977. Nel 1974, giovanissimo, ha ricevuto la Fields Medal (che è il massimo riconoscimento scientifico nell’ambito della matematica, l’analogo del Premio Nobel) per i suoi lavori nella teoria dei numeri, lo studio degli interi e le loro relazioni, le superfici minime e la geometria algebrica. Oltre alla Fields Medal ha ottenuto anche il Premio Feltrinelli ed il Premio Balzan


Postato da: giacabi a 22:29 | link | commenti
verità

venerdì, 01 febbraio 2008

La Verità
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"La Verità fugge via in un attimo, non appena si indebolisce l'intensità del nostro sguardo, e ci lascia però nell'illusione di continuare a seguirla"
  
Aleksandr Solzenicyn

Postato da: giacabi a 13:58 | link | commenti (2)
verità, solzenicyn

mercoledì, 23 gennaio 2008

Il vestito nuovo dell'Imperatore
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C'era una volta un imperatore che amava così tanto la moda da spendere tutto il suo denaro soltanto per vestirsi con eleganza. Non aveva nessuna cura per i suoi soldati, né per il teatro o le passeggiate nei boschi, a meno che non si trattasse di sfoggiare i suoi vestiti nuovi: possedeva un vestito per ogni ora del giorno, e mentre di solito di un re si dice: "È nella sala del Consiglio", di lui si diceva soltanto: "È nel vestibolo".
Nella grande città che era la capitale del suo regno, c'era sempre da divertirsi: ogni giorno arrivavano forestieri, e una volta vennero anche due truffatori: essi dicevano di essere due tessitori e di saper tessere la stoffa più incredibile mai vista. Non solo i disegni e i colori erano meravigliosi, ma gli abiti prodotti con quella stoffa avevano un curioso potere: essi diventavano invisibili agli occhi degli uomini che non erano all'altezza della loro carica, o che erano semplicemente molto stupidi.
"Quelli sì che sarebbero degli abiti meravigliosi!", pensò l'imperatore: con quelli indosso, io potrei riconoscere gli incapaci che lavorano nel mio impero, e saprei distinguere gli stupidi dagli intelligenti! Devo avere subito quella stoffa!".
E pagò i due truffatori, affinché essi si mettessero al lavoro.
Quei due montarono due telai, finsero di cominciare il loro lavoro, ma non avevano nessuna stoffa da tessere. Chiesero senza tanti complimenti la seta più bella e l'oro più brillante, se li misero in borsa, e continuarono a così, coi telai vuoti, fino a tarda notte.
"Mi piacerebbe sapere a che punto stanno con la stoffa!", pensava intanto l'imperatore; ma a dire il vero si sentiva un po' nervoso al pensiero che una persona stupida, o incompetente, non avrebbe potuto vedere l'abito. Non che lui temesse per sé, figurarsi: tuttavia volle prima mandare qualcun altro a vedere come procedevano i lavori.
Nel frattempo tutti gli abitanti della città avevano saputo delle incredibili virtù di quella stoffa, e non vedevano l'ora di vedere quanto stupido o incompetente fosse il proprio vicino.
"Manderò dai tessitori il mio vecchio e fidato ministro", decise l'imperatore, "nessuno meglio di lui potrà vedere che aspetto ha quella stoffa, perché è intelligente e nessuno più di lui è all'altezza del proprio compito".
Così quel vecchio e fidato ministro si recò nella stanza dove i due tessitori stavano tessendo sui telai vuoti. "Santo cielo!", pensò, spalancando gli occhi, "Non vedo assolutamente niente!"
Ma non lo disse a voce alta.
I due tessitori gli chiesero di avvicinarsi, e gli domandarono se il disegno e i colori erano di suo gradimento, sempre indicando il telaio vuoto: il povero ministro continuava a fare tanto d'occhi, ma senza riuscire a vedere niente, anche perché non c'era proprio niente.
"Povero me", pensava intanto, "ma allora sono uno stupido? Non l'avrei mai detto! Ma è meglio che nessun altro lo sappia
! O magari non sono degno della mia carica di ministro? No, in tutti casi non posso far sapere che non riesco a vedere la stoffa!"
"E allora, cosa ne dice", chiese uno dei tessitori.
"Belli, bellissimi!", disse il vecchio ministro, guardando da dietro gli occhiali. "Che disegni! Che colori! Mi piacciono moltissimo, e lo dirò all'imperatore."
"Ah, bene, ne siamo felici", risposero quei due, e quindi si misero a discutere sulla quantità dei colori e a spiegare le particolarità del disegno. Il vecchio ministro ascoltò tutto molto attentamente, per poterlo ripetere fedelmente quando sarebbe tornato dall'imperatore; e così fece.
Allora i due truffatori chiesero ancora soldi, e seta, e oro, che gli sarebbe servito per la tessitura. Ma poi infilarono tutto nella loro borsa, e nel telaio non ci misero neanche un filo. Eppure continuavano a tessere sul telaio vuoto.
Dopo un po' di tempo l'imperatore inviò un altro funzionario, assai valente, a vedere come procedevano i lavori. Ma anche a lui capitò lo stesso caso del vecchio ministro: si mise a guardare, a guardare, ma siccome oltre ai telai vuoti non c'era niente, non poteva vedere niente.
"Guardi la stoffa, non è magnifica?", dicevano i due truffatori, e intanto gli spiegavano il meraviglioso disegno che non esisteva affatto.
"Io non sono uno stupido!", pensava il valente funzionario. "Forse che non sono all'altezza della mia carica! Davvero strano! Meglio che nessuno se ne accorga!" E così iniziò anche lui a lodare il tessuto che non riusciva a vedere, e parlò di quanto gli piacessero quei colori, e quei disegni così graziosi. "Sì, è davvero la stoffa più bella del mondo", disse poi all'imperatore.
Tutti i sudditi non facevano che discutere di quel magnifico tessuto. Infine anche l'imperatore volle andare a vederlo, mentre esso era ancora sul telaio. Si fece accompagnare dalla sua scorta d'onore, nella quale c'erano anche i due ministri che erano già venuti, e si recò dai due astuti imbroglioni, che continuavano a tessere e a tessere... un filo che non c'era.
"Non è forse 'magnifique'?", dicevano in coro i due funzionari; "Che disegni, Sua Maestà! Che colori!", e intanto indicavano il telaio vuoto, perché erano sicuri che gli altri ci vedessero sopra la stoffa.
"Ma cosa sta succedendo?", pensò l'imperatore, "non vedo proprio nulla! Terribile! Che io sia stupido? O magari non sono degno di fare l'imperatore? Questo è il peggio che mi potesse capitare!"
"Ma è bellissimo", intanto diceva. "Avete tutta la mia ammirazione!", e annuiva soddisfatto, mentre fissava il telaio vuoto: mica poteva dire che non vedeva niente! Tutti quelli che lo accompagnavano guardavano, guardavano, ma per quanto potessero guardare, la sostanza non cambiava: eppure anch'essi ripeterono le parole dell'imperatore: "Bellissimo!", e gli suggerirono di farsi fare un abito nuovo con quella stoffa, per l'imminente parata di corte.
"'Magnifique'!, 'Excellent'!", non facevano che ripetere, ed erano tutti molto felici di dire cose del genere.
L'imperatore consegnò ai due imbroglioni la Croce di Cavaliere da tenere appesa al petto, e li nominò Grandi Tessitori.
Per tutta la notte prima della parata di corte, quei due rimasero alzati con più di sedici candele accese, di modo che tutti potessero vedere quanto era difficile confezionare i nuovi abiti dell'imperatore. Quindi fecero finta di staccare la stoffa dal telaio, e poi con due forbicioni tagliarono l'aria, cucirono con un ago senza filo, e dissero, finalmente: "Ecco i vestiti, sono pronti!"
Venne allora l'imperatore in persona, coi suoi più illustri cavalieri, e i due truffatori, tenendo il braccio alzato come per reggere qualcosa, gli dissero: "Ecco qui i pantaloni, ecco la giacchetta, ecco la mantellina..." eccetera. "Che stoffa! È leggera come una tela di ragno! Sembra quasi di non avere indosso nulla, ma è questo appunto il suo pregio!"
"Già", dissero tutti i cavalieri, anche se non vedevano niente, perché non c'era niente da vedere.

"E ora", dissero i due imbroglioni, se Sua Maestà Imperiale vorrà degnarsi di spogliarsi, noi lo aiuteremo a indossare questi abiti nuovi proprio qui di fronte allo specchio!"
L'imperatore si spogliò, e i due truffatori fingevano di porgergli, uno per uno, tutti i vestiti che, a detta loro, dovevano essere completati: quindi lo presero per la vita e fecero finta di legargli qualcosa dietro: era lo strascico. Ora l'imperatore si girava e rigirava allo specchio.
"Come sta bene! Questi vestiti lo fanno sembrare più bello!", tutti dicevano. "Che disegno! Che colori! Che vestito incredibile!"
"Stanno arrivando i portatori col baldacchino che starà sopra la testa del re durante il corteo!", disse il Gran Maestro del Cerimoniale.
"Sono pronto", disse l'imperatore. "Sto proprio bene, non è vero?" E ancora una volta si rigirò davanti allo specchio, facendo finta di osservare il suo vestito.
I ciambellani che erano incaricati di reggergli lo strascico finsero di raccoglierlo per terra, e poi si mossero tastando l'aria: mica potevano far capire che non vedevano niente.
Così l'imperatore marciò alla testa del corteo, sotto il grande baldacchino, e la gente per la strada e alle finestre non faceva che dire: "Dio mio, quanto sono belli gli abiti nuovi dell'imperatore! Gli stanno proprio bene!"
Nessuno voleva confessare di non vedere niente, per paura di passare per uno stupido, o un incompetente. Tra i tanti abiti dell'imperatore, nessuno aveva riscosso tanto successo.
"Ma l'imperatore non ha nulla addosso!", disse a un certo punto un bambino.
"Santo cielo", disse il padre, "Questa è la voce dell'innocenza!". Così tutti si misero a sussurrare quello che aveva detto il bambino.
"Non ha nulla indosso! C'è un bambino che dice che non ha nulla indosso!"
"Non ha proprio nulla indosso!", si misero tutti a urlare alla fine. E l'imperatore rabbrividì, perché sapeva che avevano ragione; ma intanto pensava: "Ormai devo condurre questa parata fino alla fine!", e così si drizzò ancora più fiero, mentre i ciambellani lo seguivano reggendo una coda che non c'era per niente
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Hans Christian Andersen

Postato da: giacabi a 17:14 | link | commenti
perle, fiabe, verità

venerdì, 18 gennaio 2008

La conoscenza
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«L'educazione è una questione di prim'ordine perché la vera conoscenza è sempre una comunicazione tra un cuore che parla e un cuore che ascolta. L'errore radicato nell'intellettualismo è una concezione dell'uomo scisso tra ragione e sensibilità, tra senso e valore. Il vero spirito intellettuale è uno sguardo insieme penetrante, acuto e pieno d'amore, come scriveva Edith Stein. La volontà è primariamente affettiva, sosteneva giustamente Rosmini: è questa che permette al sapiente di gustare il sapore della cosa, di non provare mai noia. Questo è ragionevole, perché la prima percezione di valore la registra la volontà e la volontà è per sua natura esclusivamente affettiva: il cuore parla al cuore in modo univoco. Allora, per tornare all'educazione, bisogna imparare da Dio più che dagli uomini. Le grandi virtù conoscitive per l'uomo sono l'attenzione e la docilità, e non la creazione ex nihilo e l'interpretazione; infatti, se non ci sono sguardo e attenzione sulle cose, è vano il ragionamento. Il metodo in sé, avulso dal reale, non esiste, ma è sempre imposto di volta in volta dall'oggetto.»  
Emilio Komar (filosofo) da: Tracce N. 2 > febbraio 1996

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verità

giovedì, 17 gennaio 2008

Il più grande matematico italiano di fronte al Mistero
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Questo intervento introduce già l’ultima domanda che volevo proporre, che torna sul titolo del Meeting “La verità è il destino per il quale siamo stati fatti”.  Con la scienza indubbiamente, si cerca una verità, si cerca qualcosa di vero. Diceva Weiskoppf: “Ogni vero scienziato intuisce un senso, consciamente o inconsciamente. Se così non fosse, non andrebbe avanti con quel fervore, così come fra gli scienziati, nella ricerca di qualche cosa che egli chiama verità.” D’altra parte noi non siamo mai soddisfatti da risposte parziali, tendiamo inevitabilmente a una verità esauriente. Qual è allora, secondo, voi il rapporto che c’è tra una verità scientifica (matematica, fisica, ecc.), quindi una verità parziale e provvisoria, e il nostro bisogno profondo, ultimo, umano di una verità ultima, di una verità come “destino”?

Enrico Bombieri : 

"Forse il modo migliore, per me, di rispondere a questa difficile domanda è di spiegare le ragioni per cui ho accettato di partecipare a questo incontro. La matematica, per me, è la scienza più bella perché tratta della logica, della ragione. Ma da molti anni mi sono reso conto che la matematica non è tutto quanto, perché ci sono cose molto più importanti.
Noi viviamo sulla Terra, su questo bellissimo pianeta, nella comunità degli uomini e questo viene prima. Perché senza di voi presenti, tutta la matematica che faccio non avrebbe molto significato. Quindi ho deciso di venire e sentire, a imparare, cosa pensano altre persone che stanno passando la loro vita studiando questi problemi, ma in maniera diversa da come li studio io, perché da loro posso imparare qualcosa di nuovo.
La verità scientifica è una cosa che sempre cambia, nel senso che più impariamo, più il nostro concetto di verità cambia. All’inizio, per esempio, si pensava che la Terra fosse piatta, perché se uno non si muove da casa vede un orizzonte piatto. Ma quando ci si comincia a muovere, e si impara di più, ci si accorge che ci sono delle difficoltà con l’idea di una Terra piatta e allora si pensa che sia rotonda; ma poi non è perfettamente rotonda, e così via.  Quindi la conoscenza, la verità scientifica è soggetta a cambiamenti. Quando diventa falsità? Quando uno insiste a non voler accettare quella che è l’evidenza, quando uno si rifiuta di esaminare, di riesaminare quello che sa. A questo punto le cose diventano difficili e la verità sparisce.
Si parla anche della verità in senso assoluto. La mia considerazione personale è che la verità in senso assoluto non la possiamo raggiungere da soli, e quindi c’è un elemento supremo, c’è Dio che viene da noi, che giunge da noi, ci aiuta a comprendere queste cose. Con questa speranza uno va avanti e continua a cercare la verità"
da: . www.meetingrimini.org  edizione.2007

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mistero, verità

domenica, 13 gennaio 2008

La conoscenza di sé
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La conoscenza di sè è una scienza tanto alta e necessaria che senza di essa non vi può essere profitto per le nostre anime. Essa fa' si che il peccatore convertito non possa mai stupirsi abbastanza nel vedere l'amore di Dio tanto grande e smisurato a suo riguardo.
 Venerando Giovanni di Saint Simon
                                                                      grazie  billacorgan..

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perle, verità

lunedì, 03 dicembre 2007

La verità
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Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti.”
Eraclito



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verità

martedì, 27 novembre 2007

Verità marxista
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«C'è una affermazione della critica marxista che contiene elementi di verità: ci sono religioni e pratiche religiose che sono davvero alienanti, che sono manifestamente malsane per l’uomo, che addirittura possono rendergli difficile essere buono, altruista, operoso»
Cardinal Ratzinger



 

Postato da: giacabi a 20:23 | link | commenti
verità, benedettoxvi

martedì, 13 novembre 2007

Il mito della Caverna
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Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».
«Li vedo», disse.
«Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono».
«Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».
«Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?»
«E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?»
«E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?»
«Sicuro!».
«Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?»
«E' inevitabile».
«E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all'ombra che passa?»
«Certo, per Zeus!».
«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».
«è del tutto inevitabile», disse.
«Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall'ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos'è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?»
«E di molto!», esclamò.
«E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?»
«E'così », rispose.
«E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?»
«No, non potrebbe, almeno tutto a un tratto», rispose.
«Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo. Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflesse nell'acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno il sole e la luce solare».
«Certo! »
«Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa nell'acqua o in una superficie non propria, ma così com'è nella sua realtà e nella sua sede».
«Per forza», disse.
«In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare tutto quanto è nel mondo visibile, e che in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano».
«è chiaro», disse, «che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni».
«E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei vecchi compagni di prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di condizione e non avrebbe compassione di loro?»

«Certamente».
«E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più acutamente gli oggetti che passavano e si ricordasse meglio quali di loro erano soliti venire per primi, quali per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse con la più grande abilità quello che stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e invidierebbe chi tra loro fosse onorato e potente, o si troverebbe nella condizione descritta da Omero e vorrebbe ardentemente "lavorare a salario per un altro, pur senza risorse" e patire qualsiasi sofferenza piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere in quel modo
«Io penso», rispose, «che accetterebbe di patire ogni genere di sofferenze piuttosto che vivere in quel modo».
«E considera anche questo», aggiunsi: «se quell'uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal sole?»
«Certamente», rispose.
«E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?»
Platone da "La Repubblica







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platone, verità

martedì, 23 ottobre 2007

La chiarezza
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Ogni uomo, trattando col suo prossimo, ama la chiarezza, lo scambio di idee, l’accordo, l’abolizione di ogni fraintendimento. Desidera sapere in qual misura chi gli sta vicino è d’accordo con lui, e quali siano invece i punti di divergenza. Sente il bisogno di indicare e mettere in chiaro dove si può sorvolare sui dettagli e attenersi ai punti fondamentali. Spesso l’altro, nel corso del colloquio, viene da sé a parlare di un dettaglio, che loda o che biasima.
Il bisogno dell’uomo di parlare con Dio è qualcosa di molto simile. È un bisogno di comprensione, di protezione, di riconoscimento e di messa a punto. Ed è allora Dio che può richiamare l’attenzione sui dettagli.
A. von Speyr, Il mondo della preghiera, a cura di H.U. von Balthasar, Jaca Book,

a P.



 

Postato da: giacabi a 21:54 | link | commenti (3)
amicizia, verità

martedì, 16 ottobre 2007


Il cuore dell’uomo
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«Se è vero, come ha sostenuto Montaigne, che ogni individuo singolare "porta in sé l'intera forma della condizione umana", allora ciascuno, me compreso, deve essere incoraggiato a cercare in se stesso verità di valore universalmente umano».
Edgar Morin

Postato da: giacabi a 16:43 | link | commenti
verità, senso religioso, morin

sabato, 13 ottobre 2007

È pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza
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Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti". La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che "niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano". Questa incondizionata volontà di verità, che cos'è dunque?[ ... ] Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?
(F. Nietzsche :La gaia scienza, 344)
 

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nietzsche, verità, scienza - articoli

giovedì, 11 ottobre 2007

La verità non si cristallizzi in dottrina
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È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un'opera che cresce, di tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché  la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne.
Emmanuel Mounier
 


Postato da: giacabi a 14:05 | link | commenti
verità, mounier

lunedì, 08 ottobre 2007

Cristo Verità viva incarnata
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«Se esaminiamo tutto il contenuto teoretico e morale della dottrina di Cristo nel Vangelo vediamo che l’unica cosa nuova specificamente diversa da tutte le altre religioni è l’insegnamento di Cristo su se stesso, la sua dichiarazione di essere la verità viva incarnata: “Io sono la via, la verità e la vita; chi crede in me avrà la vita eterna”. Perciò se cerchiamo il contenuto caratteristico del cristianesimo nell’insegnamento di Cristo dobbiamo riconoscere che questo contenuto si riduce anche qui a Cristo stesso»
 Vladimir Solov’ev

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verità, gesù, soloviev

sabato, 22 settembre 2007

La verità
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DOMANDA: Il nostro termine "verità" proviene dal latino veritas. Anche il termine greco alètheia viene tradotto con "verità". Si tratta realmente dello stesso concetto espresso con due parole di origine diversa o dietro questa duplicità di forme c'è una differenza di significati?

Da qualche tempo mi vado occupando, anche etimologicamente, di queste cose. Quando vado a tradurre Platone trovo il termine "alètheia", che è il termine con cui gli antichi intendevano la verità. Andando poi al fondo a vedere la cosa, trovo tradotto "alètheia" con "veritas", cominciando da Cicerone e dai traduttori latini. Mi sono reso conto che, se Platone li avesse sentiti, si sarebbe arrabbiato moltissimo.. Infatti il nostro termine "veritas" non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità.
Alètheia, senza voler fare nessun accenno ad Heidegger, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l'alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio.
Nel nostro ambito latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt'altro che verità. Vuol dire, in origine, "fede"; fede nel significato più ampio della parola, tant'è vero che in russo ad esempio vara vuol dire fede. Tutti noi sappiamo benissimo che l'anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede.
Andando avanti nello studio, ci si rende conto che ci troviamo di fronte ad una doppia verità. In ciò che diceva Averroè, che parlava di "doppia verità", vi è una sottilissima visione storica e critico-filologica del significato di verità.
Qual è la doppia verità? Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho fede, per cui l'assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas.
L'altra verità è quella che Leibniz - altrettanto dotto - aveva chiamato la "verità di ragione", per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente, distinta dalla verità di fatto.
Francesco Adorno



 

Postato da: giacabi a 21:02 | link | commenti
verità, adorno

venerdì, 21 settembre 2007

Gesù Cristo,
è la Verità fatta Persona
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«Con acuta conoscenza della realtà umana, sant'Agostino ha messo in evidenza come l'uomo si muova spontaneamente, e non per costrizione, quando si trova in relazione con ciò che lo attrae e suscita in lui desiderio. Domandandosi, allora, che cosa possa ultimamente muovere l'uomo nell'intimo, il santo Vescovo esclama: « Che cosa desidera l'anima più ardentemente della verità? » (2). Ogni uomo, infatti, porta in sé l'insopprimibile desiderio della verità, ultima e definitiva. Per questo, il Signore Gesù, « via, verità e vita » (Gv 14,6), si rivolge al cuore anelante dell'uomo, che si sente pellegrino e assetato, al cuore che sospira verso la fonte della vita, al cuore mendicante della Verità. Gesù Cristo, infatti, è la Verità fatta Persona, che attira a sé il mondo. « Gesù è la stella polare della libertà umana: senza di Lui essa perde il suo orientamento, poiché senza la conoscenza della verità la libertà si snatura, si isola e si riduce a sterile arbitrio. Con Lui, la libertà si ritrova ».


SANTO PADRE BENEDETTO XVI SACRAMENTUM CARITATIS
 

Postato da: giacabi a 17:51 | link | commenti
verità, gesù, benedettoxvi

martedì, 18 settembre 2007

La verità e l’evidenza
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 Mi vado convincendo sempre più che ci sia qualcosa al cui confronto tutte le opinioni, tra cui la mia, svaniscono.
Si tratta di alcune verità, di alcuni fatti che le nostre opinioni non possono far cambiare, né le opinioni possono rendere più vera la verità.
La verità e l'evidenza si impongono
.
Van Gogh, Lettere a Theo


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verità, van gogh

martedì, 28 agosto 2007

Verità nell'arte
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Tratto da Il Foglio del 21 agosto 2007Meeting dell'amicizia 2007 (

(Roger Scruton ha pronunciato ieri questo discorso al Meeting di Rimini, intervenendo a un incontro dal titolo "Verità nell'arte"con monsignor Massimo Camisasca, superiore generale della Fraternità sacerdotale Missionari di san Carlo Borromeo. Traduzione dall'inglese di Elia Rigolio)

Uno dei componimenti più accattivanti di Mozart è l'opera comica "Il ratto dal serraglio", che racconta la storia di Konstanze, rapita e separata dal fidanzato Belmonte e ridotta a servire nell'harem del pascià Selim. Dopo vari intrighi, Belmonte la salva, aiutato dalla clemenza del pascià, che rispetta la castità di Konstanze, rifiutandosi di prenderla con la forza. L'improbabile trama permette a Mozart di esprimere la propria convinzione illuministica, secondo cui la carità è una virtù universale, vera nell'impero Musulmano dei Turchi così come in quello cristiano dell'illuminato Giuseppe II. L'amore fedele di Belmonte e Konstanze ispira la clemenza del pascià. E per quanto l'innocente visione di Mozart manchi di un fondamento storico, la sua fede nella realtà dell'amore disinteressato è sempre espressa e sostenuta dalla musica. Il ratto dal serraglio propone un'idea morale, le sue melodie condividono la bellezza di quell'idea, presentandola in modo persuasivo all'ascoltatore. Nella produzione del 2004 del Ratto alla Comic Opera di Berlino, il produttore catalano Calixto Bieito decise di ambientare l'opera in un bordello berlinese in cui Selim è il protettore e Konstanze una delle prostitute. Anche durante le musiche più tenere, il palco era cosparso di coppie copulanti, e tutte le scuse per rappresentare la violenza, con o senza acme dell'attività sessuale, ampiamente sfruttate. A un certo punto si tortura graziosamente una prostituta e le si staccano i capezzoli in modo sanguinoso e realistico, prima di ucciderla. Le parole e la musica parlano di amore e compassione, ma il messaggio è coperto da scene di dissacrazione, omicidi e sesso narcisistico che ingombrano la scena in un'orchestrazione chiassosa.

E'un esempio di un fenomeno con cui, ne sono certo, avete sviluppato dimestichezza a partire dall'esperienza in ogni àmbito della nostra cultura contemporanea. Non basta che artisti, registi, musicisti e quanti altri operano nel mondo dell'arte siano in fuga dalla bellezza. C'è il desiderio di eliminare la bellezza, di cancellarla. Ovunque essa giaccia in nostra attesa, il desiderio di vanificarla garantisce che sarà coperta da scene di bruttezza e distruzione. Le opere di arte contemporanea creano il poco effetto di cui dispongono somministrando traumi alla nostra fievole fede nella natura umana, come testimonia, ad esempio, il crocefisso sotto urina di quei due ciarlatani di Gilbert e George. Il cinema contemporaneo abbonda di scene di cannibalismo, smembramenti e dolore insensato, tanto che alcuni registi, come Quentin Tarantino, hanno poco altro nel loro repertorio emotivo. La musica pop è stata invasa dal rap, i cui testi e ritmi parlano di una violenza incessante, e che rifiuta la melodia, l'armonia e ogni altro strumento che potrebbe creare un collegamento con l'antico mondo della canzone. La musica seria è stata a sua volta colpita, con l'obbligo di inserire dissonanze e sonorità aspre che impediscono il flusso musicale. Le opere di letteratura indugiano su violenza e trasgressione, dilungandosi morbosamente sulle funzioni corporali una volta considerate troppo private e inviolabili per essere menzionate sulla carta stampata.

Insomma, lo sapete bene. Viviamo
in una cultura di dissacrazione, in cui la vita non è tanto celebrata dall'arte, ma piuttosto presa di mira. Gli artisti si fanno una reputazione costruendo una cornice originale in cui mettere in mostra il volto umano e gettargli addosso del letame. Cosa possiamo farne e come trovare la strada che ci riporti a ciò cui tutti noi aspiriamo, ovvero la visione della bellezza? Forse sembrerà un po'sentimentale parlare in questo modo di una "visione della bellezza". Quello che intendo però non è un'immagine edulcorata, da biglietto natalizio, della vita umana, ma piuttosto i modi elementari in cui gli ideali e il decoro fanno il loro ingresso nel nostro mondo e si fanno conoscere, così come avviene per l'amore e la carità nella musica di Mozart. C'è grande fame di bellezza nel nostro mondo, una fame che l'arte popolare non riesce e riconoscere e a cui l'arte seria sfugge. Poco fa ho usato la parola "dissacrazione"per descrivere quanto trasmetteva la produzione del Ratto di Bieito e i vani sforzi di Gilbert e George di dire qualche cosa. Cosa implica esattamente questa parola? E'collegata, da un punto di vista etimologico e semantico, con sacrilegio e quindi con l'idea della santità e sacralità. Dissacrare significa sprecare quanto altrimenti potrebbe essere messo da parte, nella sfera delle cose sacre. Possiamo dissacrare una chiesa, un cimitero, una tomba; e anche un'immagine sacra, un libro sacro o una cerimonia sacra. Possiamo anche dissacrare un cadavere, un'immagine cara, persino un essere umano vivente, nella misura in cui queste cose contengono, com'è vero, un presagio di una qualche santità originale. La paura della dissacrazione è un elemento vitale di tutte le religioni. E infatti questo era in origine il significato della parola religio: un culto o una cerimonia pensata per proteggere dal sacrilegio un qualche luogo sacro.

Nel diciottesimo secolo, quando le religioni organizzate e la monarchia cerimoniale stavano perdendo autorità nella mente delle persone pensanti, mentre lo spirito democratico metteva in dubbio le istituzioni ereditate dal passato e circolava l'idea che non fosse Dio, ma l'uomo, a fare le leggi per il mondo umano, l'idea del sacro soffrì un'eclissi. Sembrava, ai pensatori dell'illuminismo, che fosse poco più di una superstizione credere che manufatti, edifici, luoghi e cerimonie potessero avere carattere sacro, dato che tutte queste cose erano il risultato di un progetto umano. L'idea che il divino si rivelasse nel nostro mondo e cercasse la nostra venerazione sembrava sia inverosimile di per sé che incompatibile con la scienza.

Contemporaneamente,
filosofi come Kant, Burke e Adam Smith riconoscevano che non guardiamo il mondo solo con gli occhi della scienza. C'è un altro atteggiamento, che non è che di indagine scientifica, ma di contemplazione disinteressata, che rivolgiamo al mondo alla ricerca del suo significato. Quando scegliamo questo atteggiamento mettiamo da parte i nostri interessi, non ci occupano più gli obiettivi e i progetti che ci spingono avanti nel tempo, non siamo più impegnati a spiegare qualcosa o ad accrescere il nostro potere. Lasciamo che il mondo si presenti e traiamo conforto dal suo presentarsi. Questa è l'origine dell'esperienza del bello. Potrebbe essere impossibile far rientrare quell'esperienza nella nostra ricerca ordinaria di potere e conoscenza. Potrebbe essere impossibile assimilarla all'utilizzo quotidiano delle nostre facoltà. Ma è un'esperienza che evidentemente esiste e che ha grandissimo valore per chi la riceve. Quando si verifica quest'esperienza, e cosa significa? Ecco un esempio. Immaginiamo di stare camminando verso casa sotto la pioggia, coi pensieri occupati dai problemi del lavoro. Strade e case sfilano via senza che le notiamo, così come le persone; nulla invade i nostri pensieri, se non i nostri interessi e le nostre ansie. Poi d'improvviso il sole emerge dalle nubi, un raggio di luce illumina un vecchio muro in pietra dall'altra parte della strada, tremolante. Alziamo lo sguardo al cielo, dove le nuvole si diradano e un merlo si mette improvvisamente a cantare da un giardino dietro il muro. Il cuore si riempie di gioia e i nostri pensieri egoisti sono svaniti. Il mondo è davanti a noi, felici semplicemente di guardarlo e lasciare che sia. Forse esperienze del genere sono più rare oggi di quanto non lo fossero nel diciottesimo secolo, quando poeti e filosofi guardavano ad esse come a una nuova strada verso la religione. Forse la fretta e il disordine della vita moderna, le forme alienanti dell'architettura moderna, il rumore e il carattere spoglio delle industrie moderne, forse queste cose hanno fatto dell'incontro con il bello un qualcosa di più raro, più fragile e più imprevedibile per noi. Eppure tutti sappiamo com'è, essere trasportati improvvisamente dalle cose che vediamo, dal mondo ordinario dei nostri appetiti alla sfera illuminata della bellezza. Avviene spesso durante l'infanzia, anche se raramente, allora, viene interpretata. Avviene durante l'adolescenza, quando si concede ai nostri desideri erotici. E avviene in modo smorzato durante l'età adulta, in cui dà forma segretamente ai nostri progetti per la vita e ci offre un'immagine di armonia che noi perseguiamo con le vacanze, la costruzione della casa e i nostri sogni privati.

Ecco un altro esempio: è un'occasione speciale, in cui la famiglia si riunisce per una cena di rito. Prepariamo la tavola, con la tovaglia ricamata pulita sotto i piatti, sistemiamo i piatti, i bicchieri, il pane in un cestino e qualche caraffa di acqua e vino. Lo facciamo con amore, traiamo piacere dall'aspetto, cercando di raggiungere un effetto di pulizia, semplicità, simmetria e calore. La tavola è divenuta simbolo del ritorno a casa, delle braccia tese della madre universale, che invita suo figlio ad entrare. E tutta questa abbondanza di significato e gioia in qualche modo è racchiusa nell'aspetto della tavola. Anche questa è un'esperienza della bellezza. Un'esperienza che incontriamo, in versione magari diverse, ogni giorno della nostra vita. Siamo creature bisognose, e il nostro bisogno maggiore è la casa, il luogo in cui siamo, in cui troviamo protezione e amore. Raggiungiamo questa casa tramite delle rappresentazioni della nostra appartenenza. La raggiungiamo non da soli, ma in unione con gli altri. E tutti i nostri sforzi per far sì che l'ambiente intorno a noi abbia il giusto aspetto, quando decoriamo, riordiniamo, creiamo, sono tentativi di porgere il benvenuto a noi e a quelli che amiamo.

Questo secondo esempio è molto importante per me. Perché
indica che il nostro bisogno umano di bellezza non è semplicemente un'aggiunta ridondante alla lista degli appetiti umani. Non è un qualcosa che potrebbe mancarci e senza cui saremmo comunque appagati in quanto persone. E'un bisogno che nasce dalla nostra condizione metafisica, di individui liberi, che cercano il proprio posto in un mondo obiettivo. Possiamo vagare per il mondo, alienati, risentiti, colmi di sospetto e sfiducia. O possiamo trovare qui la nostra casa, e venire per riposare in armonia con gli altri e con noi stessi. E l'esperienza della bellezza ci guida lungo questo secondo cammino: ci dice che siamo a casa nel mondo, che il mondo è già ordinato secondo le nostre intuizioni, affinché sia un luogo adatto alla vita di esseri come noi. Guardate uno qualunque dei quadri dei grandi pittori di paesaggi, Poussin, Guardi, Turner, Corot, Cézanne, e vedrete quest'idea di bellezza celebrata e fissata nell'immagine. Non è che quei pittori chiudessero gli occhi davanti al dolore, o alla vastità e alla minacciosità dell'universo di cui occupiamo un angolo tanto piccolo. Anzi. I pittori di paesaggi ci mostrano la morte e il decadere nel cuore stesso delle cose: la luce sulle colline è una luce evanescente; i muri delle case sono rattoppati e sgretolati come lo stucco dei paesini di Guardi. Ma quelle immagini indicano la gioia incipiente nella decadenza e l'eterno implicito nel transitorio. Non sorprende sapere che i filosofi siano rimasti sconcertati davanti all'idea di bellezza. L'esperienza della bellezza è così vivida, così immediata, così personale, che sembra difficile che appartenga al mondo ordinario. Eppure la bellezza brilla su di noi dalle cose ordinarie. E'una caratteristica del mondo o una finzione dell'immaginazione? Ci dice qualcosa di reale e vero, per riconoscere il quale basta quest'esperienza? O è solo un momento di sensazioni intensissime, che non ha significato alcuno a parte il piacere della persona che ne fa esperienza? Queste domande sono estremamente urgenti per noi, poiché viviamo in un momento in cui la bellezza è eclissata: un'ombra scura di scherno e alienazione che si è aperta un varco nella superficie prima splendente del nostro mondo, come l'ombra della terra sulla luna. Quando cerchiamo la bellezza, troppo spesso troviamo l'oscurità e la dissacrazione.

L'abitudine attuale di dissacrare la bellezza indica, secondo me, che siamo consci come non mai della presenza delle cose sacre. La dissacrazione è una sorta di difesa contro il sacro, un tentativo di distruggere le sue pretese.
In presenza di cose sacre la nostra vita viene giudicata, e per schivare quel giudizio distruggiamo ciò che sembra accusarci. I Cristiani hanno ereditato da Sant'Agostino e da Platone la visione di questo mondo transitorio come di icone di un ordine altro e immutabile. Vedono nel sacro la rivelazione nel qui e ora del senso eterno del nostro essere. Ma l'esperienza del sacro non è limitata ai Cristiani. Secondo molti filosofi e antropologi, è una caratteristica universale della condizione umana. La maggior parte della nostra vita è organizzata da fini transitori: le preoccupazioni quotidiane delle questioni economiche, la ricerca nel nostro piccolo di potere e agio, il bisogno di divertimento e piacere. Ma di tutto questo, poco è degno di memoria o capace di toccarci. Qui e là però ci sentiamo scossi dal nostro compiacimento e in presenza di qualcosa tanto più significativo che non i nostri interessi e desideri presenti. Percepiamo la realtà di un qualcosa di prezioso e misterioso, che si rivolge a noi con una domanda che in qualche modo non è di questo mondo. Avviene in presenza della morte, e in special modo della morte di una persona amata. Guardiamo con timore reverenziale al corpo umano da cui è sfuggita la vita. Non è più una persona, ma sono "spoglie mortali" di una persona. E questo pensiero ci colma di un inquietante mistero. Siamo riluttanti a toccare il corpo morto; ci sembra che non faccia veramente parte del nostro mondo, quasi come un visitatore proveniente da una qualche altra sfera. Quest'esperienza è paradigmatica del nostro incontro col sacro. E richiede, da parte nostra, una sorta di riconoscimento cerimoniale. Il corpo morto è oggetto di rituali e atti di purificazione, pensati non solo per mandare felicemente il suo precedente occupante nell'aldilà, dato che anche chi non ha fede nell'aldilà sceglie di attenersi a queste pratiche, ma per superare la spaventosa meraviglia, il carattere soprannaturale della forma umana morta. Il corpo è rivendicato da questo mondo tramite quei rituali che riconoscono anche la sua separazione dal mondo stesso.

I rituali, in altre parole, consacrano il corpo, purificandolo così dal suo miasma. Allo stesso modo, il corpo può essere dissacrato, ed è certamente uno degli atti di dissacrazione primari, a cui siamo dediti da tempo immemorabile, come quando Achille trascinò in trionfo il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia. Ci sono altre occasioni in cui siamo distolti a sorpresa dalle nostre preoccupazioni quotidiane dalla presenza di una domanda trascendente. In particolare,
c'è l'esperienza dell'innamoramento. Anche questo è un universale umano, ed è un'esperienza delle più strane. Il volto e il corpo della persona amata sono pervase dalla vita più intensa. Ma da un certo punto di vista, essenziale, sono come il corpo di un morto: sembrano non appartenere al mondo empirico. L'amata guarda all'amante come Beatrice a Dante, da un punto esterno al flusso delle cose temporali. L'oggetto amato esige che lo adoriamo, che ci rivolgiamo a lui con una riverenza quasi rituale. E da quegli occhi e da quelle membra irradia una sorta di pienezza di spirito che rende tutto nuovo. I poeti hanno speso migliaia di parole su quest'esperienza, che nessuna parola sembra essere in grado di cogliere interamente. E' un'esperienza che ha alimentato il senso del sacro nei secoli, ricordando a personaggi tanto diversi come Platone e Calvino, Virgilio e Baudelaire, che il desiderio sessuale non è il semplice appetito che vediamo negli animali, ma la materia prima di una bramosia che non ha soddisfazione semplice o mondana, ma che ci impone niente di meno che di cambiare la nostra vita.
Se osserviamo le brutture coltivate nel mondo odierno, scopriamo che molte di loro si rifanno alle due esperienze che ho indicato. Il corpo negli spasimi della morte; il corpo negli spasimi del sesso: sono cose che ci affascinano facilmente. Ci affascinano dissacrando la forma umana, mostrandoci l'essere umano come soverchiato da forze esterne, lo spirito umano eclissato e inefficace e il corpo umano come mero oggetto tra gli oggetti, invece di un soggetto libero, legato da una legge morale. Ed è su queste cose che l'arte del nostro tempo sembra concentrarsi, offrendoci non solo la pornografia sessuale, ma una pornografia della violenza, in cui l'essere umano è ridotto a un cumulo di carne sofferente, resa pietosa, impotente e disgustosa.

Perché tutto questo può essere diventato normale? Perché, a parte, ovviamente, i soldi che ci si possono fare? La risposta è che si tratta di tentazioni primarie. Tutti noi desideriamo fuggire dagli imperativi di un'esistenza responsabile, in cui ci comportiamo con gli altri in un certo modo perché sono degni di riverenza e rispetto. Tutti noi siamo tentati dall'idea della carne, e dal desiderio di rifare l'essere umano rendendolo pura carne, un automa, obbediente ai desideri meccanici. Per cedere a questa tentazione, però, dobbiamo prima rimuovere l'ostacolo principale al suo raggiungimento, ovvero la natura consacrata della forma umana. Dobbiamo corrompere le esperienze, come la morte e il sesso, che altrimenti ci allontanerebbero dalle tentazioni e ci spingerebbero verso una vita più alta di amore, dovere e soddisfazione. Questa dissacrazione volontaria è anche una negazione dell'amore, un tentativo di rifare il mondo come se l'amore non ne fosse più parte. E questa, certamente, è la caratteristica più importante della cultura postmoderna che ho descritto all'inizio dell'intervento: una cultura priva d'amore, determinata a rappresentare il mondo umano come se fosse qualcosa che non si può amare.

Il che suggerisce un rimedio semplice, ovvero resistere alle tentazioni. Invece di dissacrare la forma umana dovremmo imparare nuovamente a riverirla.
Perché non c'è assolutamente nulla da guadagnare dal tipo di insulti scagliati contro la bellezza da chi, come Calixto Bieito, non sopporta di guardarla in faccia. Certamente, possiamo neutralizzare gli alti ideali di Mozart mettendo in secondo piano la sua musica, facendone mero accompagnamento di un carnevale disumano di sesso e morte. Ma cosa ci insegna tutto questo? Cosa ci guadagniamo, in termini di sviluppo emotivo, spirituale, intellettuale o morale? Nulla, se non ansia. Dovremmo trarre una lezione da questo tipo di dissacrazione: nel tentativo di dimostrare che i nostri ideali umani sono privi di valore, dimostra di essere lei stessa priva di valore. E se un qualcosa dimostra di essere privo di valore, è il caso di disfarsene.

 

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bellezza, verità, scruton

domenica, 26 agosto 2007

La verità si può rifiutare
ma non si può scegliere.
***
 Cesana su: LA VERITÀ È UNA PROPOSTA  24-08-07
da: il quotidiano http://www.meetingrimini.org

 Se la verità è una proposta, significa
che può essere riconosciuta dalla
libertà. La verità chiede la libertà
– incalza Cesana, che poi aggiunge –
la verità si può rifiutare, ma non si
può scegliere. Che la verità implichi
la libertà è un dramma: è un impegno
per chi è chiamato ad accoglierla
e per chi la propone. La verità
coinvolge tutta la vita, è un’attrattiva
che si manifesta attraverso il coinvolgimento
di tutta la persona. L’uomo
riconosce la verità di sé attraverso
l’esperienza di bellezza, di corrispondenza
che essa suscita. È un’attrattiva
totale”. Così il leader di Cl
giunge al cuore della moralità e della
questione educativa, quella che gli
sta più a cuore, soprattutto per quanto
riguarda gli adulti: “Ciò che convince
della verità è la presenza di coloro
che sono disposti a morire per
essa, cioè a donare la vita. Per essere
giovani ci vogliono degli adulti. CL
è un movimento in cui ci sono i giovani
perché è nato da un adulto che
era più giovane dei giovani”.
Così, “i giovani devono trovare adulti
che dicono ‘segui quello che seguo
io, così che tu possa giudicare se
è vero’. Questa è la possibilità che
gli adulti devono dare ai giovani”.
Picchia duro Cesana; parole che,
nella durezza, fanno crescere: “La
debolezza educativa degli adulti è
nel fatto che non si sentono richiamati
loro da ciò a cui richiamano gli
altri; se un adulto non è fecondo non
serve. La verità deve essere un significato
(cioè che mette in rapporto
con le cose) e soddisfacente (deve
dare ragione). È il problema che abbiamo
nell’educazione dei nostri figli”.
E ancora “La verità serve perché
aiuta a vivere: siamo cristiani
perché seguendo Cristo la nostra vita
è migliorata”. Non c’è spazio per gli
sforzi moralistici: “Cosa può ridestare
l’interesse per il vero? Un incontro
– dice citando Giussani – un
tuffo al cuore, qualcosa che ti commuove”.
E la verità si vede nei particolare
della vita: “ Se Dio si è fatto
uomo, non c’è contenuto senza forma.
La verità si vede nelle sfumature”.
Salvatore Ingrassia


 

Postato da: giacabi a 16:52 | link | commenti
verità, cesana

venerdì, 24 agosto 2007

 Il significato della parola"vero"
                     ***
 Oggi in Europa esiste un uso
linguistico relativistico inconciliabile
con il significato della parola “vero” (…)
Solo chi è uscito dal regno polveroso
dell’assurdità, chi ha imparato a prendersi
sul serio, è aperto a una riflessione
che gli faccia fare quel passo oltre se
stesso che Hume riteneva impossibile.
“We never advance one step beyond
ourselves” (...) Non possiamo pensare ad
alcun presente senza un relativo futurum
exactum, ci possiamo pensare presenti
e reali solo se pensiamo a Dio.
Nietzsche aveva quindi ragione quando
scriveva: “Temo che non ci libereremo
di Dio fin quando crederemo alla grammatica”.
Ma anche Nietzsche non poté
fare a meno di affidare i propri pensieri
alla grammatica.
(Robert Spaemann, docente emerito
di Filosofia dell’Università di Monaco,
ha pronunciato ieri questo discorso al
Meeting di Rimini nell’incontro “Verità e libertà"
 

Postato da: giacabi a 20:34 | link | commenti
nichilismo, nietzsche, verità

martedì, 21 agosto 2007

LA VERITA' E' IL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI
***
 
discorso di Don Francesco Ventorino durante l'incontro "La verità è il destino per il quale siamo stati fatti"

Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, «esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale – l’avrei sentita definire poi da don Giussani – ad affermare il significato di tutto» .

1. Ma la vita ha un destino?
Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso.
L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.
A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione.
Dietro questa ostinata negazione di un senso, di una verità e di un destino della vita c’è una paura – l’ha rivelata da tempo Gianni Vattimo –, è la paura che «se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». Perché «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?» .
Non ci sarebbe, dunque, altro fondamento delle leggi etiche e giuridiche se non il consenso sociale.
Oggi dietro la pretesa di equiparare le coppie di fatto, etero ed omo- sessuali, alla famiglia fondata sul matrimonio si nasconde la stessa paura: quella che si possa affermare la natura vera delle cose e la stessa diffidenza nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione voglia difendere «l’oggettività e la “datità” del vero».
Don Carrón agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione di quest’anno, come esempio di questa mentalità, citava Rorty, il quale afferma:
«
Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo, nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, nessuna argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni» .
Niente “dato”, dunque, – concludeva don Carrón – tutto “convenzione”.
Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.
«Proporvi, o imporvi, delle verità – scrivevano quest’anno degli insegnanti di un liceo della mia città, Catania, a degli alunni che avevano chiesto delle certezze per vivere per morire – è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica» .
Questa rinuncia della scuola pubblica, laica e democratica, a proporre delle verità non è recente. Ricordo che quand’ero giovane insegnante di Religione nello stesso Liceo mi sono dovuto opporre, provocando uno scandalo generale, ad un Consiglio di classe, che si era trovato unanime nella decisione di punire in modo esemplare un ragazzo e una ragazza che erano stati sorpresi a baciarsi sullo scalone della scuola, adducendo questa motivazione che chiedevo fosse messa a verbale: «La scuola prima insegna che la morale non è altro che una convenzione sociale e poi vuole punire dei ragazzi che muoiono dalla voglia di baciarsi e che non avrebbero dovuto farlo solo per rispettare una convenzione che domani potrebbe cambiare [come di fatto è accaduto], magari quando loro non ne avranno più né la voglia, né la capacità».
Il Preside, intelligente, avendo intuito che io volevo rovesciare le parti e accusare loro di corruzione di minorenni, ha subito sospeso la seduta, comminando ai quei ragazzi solo la minima sanzione disciplinare.
Non ci si strappi le vesti poi, quando ci si trova – come accade spesso ai nostri giorni – di fronte alla violenza dei giovani contro se stessi e contro gli altri, né ci si affanni ipocritamente a cercare spiegazioni altrove e a trovare affannosamente dei rimedi efficaci.
L’unico rimedio serio sarebbe quello di impedire la corruzione morale derivante da un simile argomentare, che si ammanta arbitrariamente della dignità del pensiero “laico”. Ma il pensiero veramente laico ha tutt’altra profondità e grandezza, come vedremo.
Ci troviamo di fronte ad una dissoluzione dell’uomo caparbiamente perpetrata – come diceva don Giussani – pur di non riconoscere che la sua ragione è strutturalmente apertura al Mistero, grido e domanda di significato e di verità, pur essendo questo «un cammino di ricerca, umanamente interminabile»

2. La domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo
«Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista!», ha gridato una volta don Giussani qui a Rimini agli universitari di Comunione e Liberazione, perché è grande – Dio come è grande! – l’uomo, il giovane, il ragazzo quando guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene [...] un’adorazione. Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha fatti per Sé, cioè per la felicità, che è la bellezza come ha capito Leopardi nell’inno Alla sua donna, che è la verità» .
Perché non ha ragione, dunque, il nichilista? Perché egli andrebbe contro quel meglio di sé che gli viene su dal suo cuore, cioè da quel complesso di evidenze e di esigenze, che lo costituiscono strutturalmente e che gli impediscono di dire che la sua ragazza è un niente; anzi lo spingono ad una adorazione di quella misteriosa promessa che nella bellezza di lei si rende presente.
Il cuore è ciò che Pirandello, un vero laico e mio conterraneo, in Uno, nessuno e centomila, chiama quel “punto vivo” che è dentro di noi e che scatta quando qualcuno o qualcosa lo provoca. Vitangelo Moscarda, che è un banchiere, provocato dal suo amico, che proditoriamente lo accusa di essere un usuraio, e dalla risata cinica con cui sua moglie commenta questa accusa, reagisce così:

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento…: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; […] un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi» .
E più avanti dice:
«Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me… era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo». .

Don Giussani ha insistito per tutta la vita sull’importanza del cuore, di questo criterio oggettivo che abbiamo in noi:
«
la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli» .
Questo è il criterio della verità ed il fondamento della nostra libertà:
«Se non si afferma la verità del nostro cuore, siamo preda degli avvoltoi che dominano il mondo. Ogni uomo è avvoltoio verso l’altro, rapinatore dell’altro; non solo i potenti, ma anche il compagno può essere il rapinatore della tua anima, sfruttatore di te, può tentare di strumentalizzarti. Non possiamo impedire questo, possiamo fare una sola cosa: essere noi stessi, essere il nostro cuore» .

Benedetto XVI, quando era il professore Joseph Ratzinger, in una conferenza pubblicata nel 1972, citava una dichiarazione di Hitler che proclamava il suo proposito di distruggere il cuore di ogni uomo:
«Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale, e dalle pretese di una libertà a autodeterminazione personale, di cui ben pochi sono all’altezza» .
Così Ratzinger la commentava:
«
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. […] La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà»
Il nichilismo dunque, come negazione di questo criterio del vero e del bene, di cui siamo dotati, sarebbe il principio di una vita disumana e della legittimazione di ogni violenza dell’uomo sull’uomo.
Don Giussani, leggendo Nietzsche, ne ha mostrato tutta la contraddizione:
«“Un giorno un viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio...”. Questa è la scelta che ha fatto l’uomo contemporaneo: chiudere la porta alla speranza, all’impeto ideale che gli alita alle spalle, acquattato in fondo al suo cuore, trasmessogli da sua madre e da tutto ciò che lo anticipa nella storia: questo evidente desiderio del vero, del reale, del certo.
L’uomo moderno se ne sente perseguitato come da un aguzzino “tetro e appassionato”, e ad un tempo ammette di essere costituito dal desiderio della verità, mentre si
ribella alla natura del proprio cuore che è profezia di Dio» .
Dante ha stupendamente cantato nel Paradiso:
«
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra,
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’ al sommo pinge noi di collo in collo
» .
Descrive così stupendamente l’esperienza umanissima (“io veggio ben”) dell’esigenza costitutiva del nostro cuore della verità, cui tende in tutto ciò che conosce, con la speranza fondata che essa ci sia e che sia possibile trovarla (“e giugner puollo”), perché altrimenti il nostro desiderio sarebbe un desiderio vano (“se non, ciascun disio sarebbe frustra”).
E l’uomo sarebbe – come è stato detto da Sartre – «una passione inutile» .

3. L’avvenimento della verità
L’uomo è dunque domanda di verità. A questa domanda la realtà stessa si incarica di rispondere: la verità si lascia incontrare, accade: essa è l’imporsi della realtà nella sua evidente presenza!
«
La verità – diceva don Giussani – è come la faccia di una bella donna, non puoi non dire che è bella, non riesci! […] La verità è una cosa che si impone inevitabilmente. Uno ha una frazione di istante per cui il cuore si commuove»
Essa spalanca la coscienza e il cuore dell’uomo e gli fa ritrovare se stesso e la sua libertà. Essa semplicemente è.

Ancora Luigi Pirandello, questo autore che non finisce mai di sorprendermi per la sua apertura ad ogni aspetto dell’umano e per la sua capacità di raccontare l’umana esperienza, nella novella Ciaula scopre la luna narra di un garzone mezzo scemo, costretto a lavorare in una miniera di zolfo, che una notte, portando il suo carico sulle spalle all’esterno di essa, giunto allo stremo delle sue forze, perché «non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora», fece la “scoperta” della luna, della sua «chiaria», della sua bellezza e in quell’avvenimento ritrovò se stesso, la sua umanità.
«La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. […]
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore» .

È una documentazione suggestiva di quanto scrive don Giussani ne Il senso religioso:
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine dell’umana coscienza» .

4. L’avvenimento cristiano.
Ma la persona umana, diceva ancora don Giussani, ha il potere di «fare i capricci di fronte all’essere».
«Il capriccio […] dell’uomo di fronte all’essere è un odio a se stesso e al proprio destino. […] Solo qui si rivela la cattiveria dell’uomo» .
La bellezza del mondo e la grandezza del nostro desiderio non vengono sempre accolti come una testimonianza convincente di Dio.
«È questa carenza atroce – diceva don Giussani – che si nota in voi, come giovani di oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità recettiva della bellezza. L’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi, così che ogni cosa che vi viene davanti è da usare per voi stessi, strumentalizzare» .
Incapaci, dunque di stupore, resistiamo all’estasi, cui tende a portarci la realtà.
Solo nell’esperienza di un grande amore diviene possibile superare questo capriccio di fronte all’essere, questo blocco nella reattività, che alla fine diviene odio a se stessi perché è odio al proprio destino. È in un rapporto, nel quale ci sentiamo affermati più di quanto non riusciamo a fare da noi stessi che rinasce l’amore e la stima per la realtà, a partire da quella per la nostra persona, e la certezza di un destino buono per la nostra vita e per il tutto.

L’uomo ha bisogno di rapporti nei quali il male proprio e quello del mondo non riesce ad insinuare il sospetto di poter essere fregato, perchè in essi si rende manifesta tutta la bontà della realtà e la sua convenienza. È un’esperienza che noi abbiamo fatto e che tutti desidereremmo fare, anche se pensiamo che sia impossibile e perciò vi abbiamo rinunciato.
Tommaso d’Aquino ha scritto pagine mirabili su questo argomento, quando ha affermato
che all’uomo, che tende a Dio come al proprio destino, fu necessario che Dio stesso si facesse uomo per indurlo ad amarlo. Infatti
«nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona: è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile» .

Quasi riprendendo queste parole, Benedetto XVI, rivolgendosi l’anno scorso a Verona a tutta la Chiesa italiana, ricordava come oggi è più che mai necessario che attraverso la testimonianza dei cristiani emerga «soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Questa è la risposta della Chiesa allo scetticismo del mondo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità egli si accompagna a noi ed è possibile incontrarlo anche oggi.

L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! E l’uomo, quando l’incontra, può riconoscerla – come diceva don Giussani – per l’esperienza di corrispondenza con il proprio cuore, cioè di «soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra
» .
Per descrivere efficacemente questa esperienza di corrispondenza e di soddisfazione don Giussani in Perché la Chiesa si è servito della finale della grande opera di René Grousset, Bilancio della storia, la cui lettura consigliava già ai primi giessini.
Questo autore, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «
Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?».
«È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena constato che al di fuori della soluzione cristiana […] ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».

«Accettabile [commenta don Giussani] perché l’umanità intera è ricapitolata in Cristo, senza tagli arbitrari, senza censure e dimenticanze» .
Parlando nel 1983 ad una televisione svizzera, don Giussani era tornato su questo tema:
«
Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede».
Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva ancora il Papa a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene». Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda.

5. La bellezza cristiana è lo splendore della verità
«
L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale» .
È della bellezza cristiana, dunque, dell’attrattiva e dello splendore che la verità assume nell’incontro cristiano, che l’uomo di oggi ha più che mai bisogno perché, come affermava il Papa stesso, quand’era ancora il cardinale Ratzinger, nel suo messaggio per la XXIII edizione di questo Meeting,
«l
a bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo».
Ma riconosceva:
«La paura che […] la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà”, ha angosciato gli uomini del nostro tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori?» .
È necessaria, dunque, una bellezza che regga di fronte all’urlo di mia madre che chiede perché possa accadere che sua figlia muoia a trent’anni per dare la vita ad un figlio che a sua volta muore dopo pochi giorni. È necessaria una bellezza che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come l’uomo ne fa esperienza.
Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale.


Per questo nel suo messaggio Ratzinger poteva dire:
«
Nella passione di Cristo […] l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo [è la stessa parola che aveva usato don Giussani nell’83]. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è “vera”, bensì proprio la verità. […] Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo nell’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza» .
E ancora:
«
Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce» .
Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.
Noi ne sappiamo qualcosa: l’abbiamo vista nel volto di don Giussani
.

lunedì 20 agosto 2007 

Postato da: giacabi a 15:39 | link | commenti
pirandello, verità, senso religioso, ventorino

giovedì, 16 agosto 2007

La verità su Dio
                     ***
"La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori. D'altra parte, dalla conoscenza di questa verità dipende tutta la salvezza dell'essere umano, poiché questa salvezza è in Dio. Per rendere questa salvezza più universale e più certa, sarebbe dunque stato necessario insegnare agli uomini la verità divina con una divina rivelazione".
 S. Tommaso: Summa Theologiae
 

Postato da: giacabi a 21:57 | link | commenti
dio, verità, stommaso

domenica, 12 agosto 2007

La verità  nasca dalla carne
***
“E' dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell'opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza... Occorre soffrire perche la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne".
Emmanuel Mounier Lettere sul dolore.Uno sguardo sul mistero della sofferenza  a cura di D. Rondoni, 5 ediz.BUR, Milano 2005

 

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verità, mounier

lunedì, 16 luglio 2007

La Verità
***
«Il valore di un uomo non risiede nella verità che possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per raggiungerla. Poiché è la ricerca e non il possesso della verità che aumenta la perfettibilità
umana. Il possesso rende quieti e indolenti, mentre nella ricerca soltanto l'uomo trova la possibilità di un progresso costante verso la perfezione»
G.E.Lessing
 

Postato da: giacabi a 15:12 | link | commenti
verità

giovedì, 12 luglio 2007

La Verità
***
"La verità è inseparabile dall'illusione che un giorno dalle figure e dai simboli dell'apparenza possa emergere, nonostante tutto, libera da ogni traccia d'apparenza, l'immagine reale della salvezza".
T. W. Adorno, (1903-1969) Minima moralia. Meditazioni sulla vita sofferta, Ed. Einaudi, Torino 1979


 

Postato da: giacabi a 15:59 | link | commenti
verità, adorno

martedì, 26 giugno 2007

LA VERITÀ
***
“La verità non si pensa, la verità non si immagina, la verità non si sogna, ... la verità si fa”
DON  C. GNOCCHI

Postato da: giacabi a 17:35 | link | commenti
verità

venerdì, 13 aprile 2007

LA BELLLEZZA
E’ SIMBOLO DELLA VERITA’
***
“Ogni artista nel corso della sua permanenza sulla terra trova e lascia dopo di se una particella di verità sulla civilizzazione, sull'umanità. Il concetto stesso di ricerca e oltraggioso per un artista. Assomiglia alla raccolta di funghi in un bosco. Forse ne troveremo o forse no. Picasso diceva addirittura: "io non cerco, trovo". A mio parere, l'artista non procede affatto come un ricercatore, egli non agisce empiricamente in nessuna maniera ("proverò a fare questo, tenterò quest'altro"). L'artista da una testimonianza sulla verità, sulla sua verità del mondo. L'artista deve essere certo che egli e la sua creazione rispondono alla verità. Io rifiuto il concetto di esperimento, di ricerca nella sfera dell'arte. Qualsiasi ricerca in questo ambito, tutto ciò che chiamano pomposamente "avanguardia" e semplicemente menzogna. Nessuno sa che cos'è la bellezza. L'idea che la gente si fa della bellezza, il concetto stesso di bellezza, mutano nel corso della storia assieme alle pretese filosofiche e al semplice sviluppo dell'uomo nel corso della sua vita personale. E questo mi spinge a pensare che, effettivamente, la bellezza e il simbolo di qualcos'altro. Ma di cosa esattamente? La bellezza e simbolo della verità. Non dico nel senso della contraddizione "verità/menzogna", ma nel senso di cammino di verità, che l'uomo sceglie. La bellezza (si intende quella relativa!) ha nelle diverse epoche testimoniato del livello di consapevolezza, che gli uomini di una determinata epoca hanno della verità. Ci fu un tempo in cui questa verità aveva l'aspetto della Venere di Milo. Ne consegue che l'intera collezione di ritratti femminili, diciamo, di un Picasso non ha, a rigor di termini, la minima relazione con la verità. Ma qui non parliamo della capacita di attrazione ne di qualcosa di carino
 parliamo della bellezza armonica, della bellezza nascosta, della bellezza in quanto tale. Picasso, invece di celebrare la bellezza, si e comportato come il suo distruttore, il suo detrattore, il suo sterminatore. La verità, manifestata dalla bellezza, è enigmatica; essa non può essere ne decifrata ne spiegata con le parole, ma quando un essere umano, una persona si trova accanto a questa bellezza, si imbatte in questa bellezza, sta di fronte a questa bellezza, essa fa sentire la sua presenza, almeno con quei brividi che corrono lungo la schiena. La bellezza è come un miracolo, del quale l'uomo diventa involontariamente testimone. Tutto qua. Mi sembra che l'essere umano sia stato creato per vivere. Vivere nel cammino verso la verità. Ecco perché l'uomo crea. In una certa misura l'uomo crea nel cammino verso la verità. Questo e il suo modo di esistere, e l'interrogativo sulla creazione ("Per chi gli uomini creano? Perché essi creano?") e senza risposta. Effettivamente ogni artista non soltanto ha una sua concezione sulla creazione ma ha anche un suo modo personale di interrogarsi su cio'. Questo si collega a quanto io adesso dico sulla verità, alla quale noi tendiamo, alla quale contribuiamo con le nostre piccole forze. Un ruolo fondamentale gioca qui l'istinto, l'istinto del creatore. L'artista crea istintivamente, egli non sa perché proprio in quel momento fa una cosa oppure un'altra, scrive proprio di questo, dipinge proprio questo. Soltanto dopo egli comincia ad analizzare, a trovare spiegazioni, a filosofeggiare e giunge alle risposte che non hanno nulla in comune con l'istinto, col bisogno istintivo di fare, creare, esprimere se stesso. In un certo senso la creazione e rappresentazione dell'essenza spirituale nell'uomo ed è la contrapposizione all'essenza fisica; la creazione è in un certo senso la dimostrazione dell'esistenza di questa essenza spirituale. Nell'ambito delle attività umane non c'è nulla che sarebbe più inutile, più senza scopo, non c'e nulla che sarebbe più a se stante della creazione. Se si esclude dalle attività umane tutto quanto attiene al raggiungimento del profitto, rimarrà soltanto l'arte. Per contemplazione io intendo soltanto dire quello che origina l'immagine artistica o l'idea che noi ce ne facciamo. Questo è assolutamente individuale. L'immagine artistica, il significato dell'immagine artistica possono scaturire soltanto dall'osservazione. Se non si basa sulla contemplazione, l'immagine artistica si trasforma in simbolo, cioè in qualcosa che forse puo essere spiegato dalla ragione, e, allora, l'immagine artistica non esiste: essa infatti non riflette più l'umanità, il mondo. L'autentica immagine artistica deve riflettere non soltanto la ricerca di un povero artista alle prese con i suoi problemi umani, con i suoi desideri e bisogni. Essa deve riflettere il mondo. Ma non il mondo dell'artista ma il cammino dell'umanità verso la verità. Della semplice sensazione del contatto con l'anima, che qui, da qualche parte, al di sopra di noi, dinanzi a noi vive nell'opera d'arte in misura tale da stimarla geniale. In questo e l'impronta originale del genio.
Ci fu un tempo in cui io potevo chiamare miei ex
maestri, le persone che hanno avuto un'influenza su di me. Adesso, nella mia coscienza, si conservano soltanto dei "personaggi", per meta santi, per meta folli. Questi "personaggi" sono forse un po' invasati ma non dal diavolo; si potrebbe dire che sono "i pazzi di dio". Tra i vivi cito Robert Bresson. Tra i morti, Lev Tolstoj, Bach, Leonardo da Vinci... In fin dei conti, tutti costoro erano pazzi. Perché non hanno assolutamente cercato nulla nella loro testa. Hanno creato senza il concorso della testa... Essi mi spaventano e mi ispirano. Non e assolutamente possibile spiegare la loro creazione. Sono state scritte migliaia di pagine su Bach, Leonardo e Tolstoj ma, in conclusione, nessuno ha potuto spiegare nulla. Nessuno, grazie a dio, ha potuto trovare, sfiorare la verità, toccare l'essenza della loro creazione! Questo dimostra ancora una volta che il miracolo è inspiegabile...
Nel senso più alto di questo concetto
 la libertà, soprattutto nel senso artistico, nel senso della creazione, non esiste. Si, l'idea della libertà esiste, e una realtà nella vita sociale e politica. In diverse regioni e paesi gli uomini vivono avendo più o meno libertà; ma vi sono note testimonianze che dimostrano che nelle più orribili circostanze ci sono stati uomini che hanno avuto una inaudita libertà interiore, un mondo interiore, nobiltà. Mi sembra che la libertà non consista nella qualità della scelta: la libertà è una condizione dello spirito. Per esempio, si può essere socialmente, politicamente, completamente "liberi" e non di meno morire per la sensazione di precarietà, di oppressione, di mancanza di futuro. Per cio che concerne la libertà della creazione, di questo non si puo assolutamente discutere. Senza di essa non puo esistere una sola arte. L'assenza della libertà deprezza automaticamente l'opera d'arte, poiché questa assenza impedisce a chi viene per ultimo di rivelarsi nella forma migliore. L'assenza di questa libertà porta a che l'opera d'arte, nonostante la sua esistenza fisica, non esista di fatto. Nella creazione dobbiamo vedere non soltanto la creazione. Purtroppo, nel XX secolo appare predominante la tendenza secondo la quale l'artista
 individualista, invece di tendere alla creazione dell'opera d'arte, se ne serve per evidenziare il proprio "io". L'opera d'arte diventa manifestazione dell'io del suo creatore e si trasforma, possiamo dire, in megafono delle sue minime pretese. Questo vi e noto meglio che a me. Ne ha scritto molto Paul Valery. Al contrario, il vero artista, e a maggior ragione il genio, appaiono schiavi del dono che distribuiscono. Essi sono legati da questo dono agli uomini, al cui nutrimento spirituale e al cui servizio sono stati scelti. Ecco in cosa consiste per me la libertà.”
Andrej Tarkovskij.
Dall’'ultima intervista (inedita in italiano) da lui concessa a"Le Figaro" nell'ottobre 1986

Postato da: giacabi a 19:29 | link | commenti (2)
bellezza, verità, tarkovskij

mercoledì, 17 gennaio 2007

Per arrivare alla Verità
***
Per arrivare alla verità bisogna rinunciare alla propria aseità*, uscire da se stessi e questo ci è decisamente impossibile perché siamo carne. E allora come aggrapparsi alla colonna della verità? Sappiamo soltanto che tra le crepe del raziocinio umano si intravede l'azzurro dell'Eternità; è inattingibile, ma è così. Sappiamo anche che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e non il Dio dei filosofi» e dei dotti viene a noi, viene al nostro letto, ci prende per mano e ci guida in una maniera che non avremmo mai potuto prevedere. «Agli uomini questo è impossibile, ma tutto è possibile a Dio».
 P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità,
*L'"aseità" è la natura o la caratteristica di ciò che ha in sé la causa della del proprio essere. Il termine si contrappone ad "abalietà", che indica la natura o la caratteristica di cio che è ab alio, ossia di un essere, la cui esistenza dipende da un altro o comunque da qualcosa che è al di fuori di sé.
Se l'aseità indica un'esistenza totalmente indipendente, diviene attributo dell'Assoluto, di Dio

Postato da: giacabi a 21:50 | link | commenti
verità, senso religioso, florenskij

martedì, 09 gennaio 2007

La passione per la verità
va di pari passo con
la passione per la libertà
***
«Se mi chiedete qual è il sintomo più generale di questa anemia spirituale (dell’Europa), rispondo esattamente: l’indifferenza verso la verità e verso la menzogna. Oggi, la propaganda dimostra quel che vuole, e la gente accetta più o meno quel che le viene proposto. Certo, questa indifferenza maschera piuttosto una fatica e quasi uno scoraggiamento della facoltà di giudizio. Ma la facoltà di giudizio non potrebbe esercitarsi senza un certo impegno interiore. Chi giudica si impegna. L’uomo moderno non si impegna più perché non ha più niente da impegnare. … L’uomo moderno è sempre capace di giudicare, perché è sempre capace di ragionare. Ma la sua facoltà di giudicare non funziona più, come un motore senza benzina. Al motore non manca alcun pezzo; però non c’è benzina nella riserva. Per molti questa indifferenza verso la verità e la menzogna è più comica che tragica. Ma io la trovo tragica. Essa implica una terribile disponibilità non soltanto dello spirito, ma di tutta la persona, anche della persona fisica. Chi è aperto indifferentemente alla verità e alla falsità è maturo per una tirannia  La passione per la verità va di pari passo con la passione per la libertà (G. Bernanos, Rivoluzione e libertà, Borla Roma 1963                                

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libertà, verità, bernanos

giovedì, 21 dicembre 2006

LA VERITA
Gramsci***
La verità deve essere rispettata sempre qualsiasi conseguenza possa apportare,nella bugia non si costruisce che castelli di vento.
Scritti giovanili  Antonio Gramsci 


Postato da: giacabi a 14:58 | link | commenti
verità, gramsci

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