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mercoledì 31 ottobre 2012

La certezza dell’autocoscienza



la certezza dell’autocoscienza
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Perciò tutte le circostanze per cui il Signore ci fa passare sono per maturare in noi «l’autocoscienza, una percezione chiara ed amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino e dunque capace di affezione a sé vera, liberata dall’ottusità istintiva dell’amor proprio. Se smarriamo questa identità, nulla ci giova» (L. Giussani, «È venuto il tempo della persona», op. cit., p. 12).........
La persuasione di cui parla san Paolo è la certezza dell’autocoscienza. Chi non desidera almeno un grammo di questa certezza? Allora, è solo se noi vediamo all’opera la contemporaneità di Cristo che siamo veramente vittoriosi. Essere vittoriosi non vuol dire «prendere il potere». Essere vittoriosi vuol dire vedere la vittoria di Cristo, anche se siamo spogliati di tutto. Essere vittoriosi significa essere traboccanti della Sua presenza.
Per questo, dobbiamo decidere dove troviamo la risposta al desiderio di felicità che ci scopriamo addosso perché siamo fatti per l’infinito. Solo così potremo collaborare alla missione della Chiesa, che «non è l’accanimento del proselitismo, ma una testimonianza che lascia trasparire l’attrattiva di Gesù, è lo struggimento perché tutti siano salvati» (A. Scola, Alla scoperta del Dio vicino, Centro Ambrosiano, Milano 2012, p. 31), come ci ha ricordato il cardinale Scola nella sua recente lettera pastorale.
  Con negli occhi quella Presenza che l’ha guarito, Gesù lancia il cieco nella mischia, non lo tira fuori. Cioè: Cristo genera un io in grado di vivere il reale, come il cieco che ha la semplicità di riconoscere che prima non ci vedeva e adesso ci vede. La sua coscienza era determinata da quello che gli era successo. Con questa autocoscienza può stare davanti a tutti, non perché sia più potente, ma per questa semplicità nell’aderire a quello che gli è capitato. Questa è la potenza dell’autocoscienza - e nell’ultimo arrivato! -, e tutti i sapienti tra i farisei nulla hanno potuto rispetto a un io che aveva questa autocoscienza.


SANTA MESSA A CONCLUSIONE DELL’INCONTRO
CON IL "RATZINGER SCHÜLERKREIS"

  OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Centro Mariapoli, Castel Gandolfo
Domenica, 2 settembre 2012
 
Cari fratelli e sorelle,
risuonano ancora profondamente in me le parole con cui, tre anni fa, il Cardinale Schönborn ci ha fatto l’esegesi di questo Vangelo: la misteriosa correlazione dell’intimo con l’esterno e quello che rende l’uomo impuro, quello che lo contamina e quello che è puro. Oggi, perciò, non voglio fare anch’io l’esegesi di questo stesso Vangelo, o la farò soltanto marginalmente. Proverò invece a dire una parola sulle due Letture.
Nel Deuteronomio vediamo la «gioia della legge»: legge non come vincolo, come qualcosa che ci toglie la libertà, ma come regalo e dono. Quando gli altri popoli guarderanno verso questo grande popolo - così dice la Lettura, così dice Mosè -, allora diranno: Che popolo saggio! Ammireranno la saggezza di questo popolo, l’equità della legge e la vicinanza del Dio che sta al suo fianco e che gli risponde quando viene chiamato. E’ questa la gioia umile di Israele: ricevere un dono da Dio. Questo è diverso dal trionfalismo, dall’orgoglio di ciò che viene da se stessi: Israele non è orgoglioso della propria legge    come Roma poteva esserlo del diritto romano quale dono all’umanità, come la Francia forse del «Code Napoléon», come la Prussia del «Preußisches Landrecht» ecc. – opere del diritto che riconosciamo. Ma Israele sa: questa legge non l’ha fatta egli stesso, non è frutto della sua genialità, è dono. Dio gli ha mostrato che cos’è il diritto. Dio gli ha dato saggezza. La legge è saggezza. Saggezza è l’arte dell’essere uomini, l’arte di poter vivere bene e di poter morire bene. E si può vivere e morire bene solo quando si è ricevuta la verità e quando la verità ci indica il cammino. Essere grati per il dono che noi non abbiamo inventato, ma che ci è stato dato in dono, e vivere nella saggezza; imparare, grazie al dono di Dio, ad essere uomini in modo retto.
Il Vangelo ci mostra però che c’è anche un pericolo – come si dice pure direttamente all`inizio del brano odierno del Deuteronomio: «non aggiungere, non togliere nulla». Ci insegna che, con il passare del tempo, al dono di Dio si sono aggiunti applicazioni, opere, costumi umani, che crescendo nascondono ciò che è proprio della saggezza donata da Dio, così da diventare un vero vincolo che bisogna spezzare, oppure da portare alla presunzione: noi l’abbiamo inventato!
Ma passiamo a noi, alla Chiesa. Secondo la nostra fede, infatti, la Chiesa è l’Israele che è diventato universale, nel quale tutti diventano, attraverso il Signore, figli di Abramo; l’Israele diventato universale, nel quale persiste il nucleo essenziale della legge, privo delle contingenze del tempo e del popolo. Questo nucleo è semplicemente Cristo stesso, l’amore di Dio per noi ed il nostro amore per Lui e per gli uomini. Egli è la Torah vivente, è il dono di Dio per noi, nel quale, ora, riceviamo tutti la saggezza di Dio. Nell’essere uniti con Cristo, nel «con-camminare» e «con-vivere» con Lui, impariamo noi stessi come essere uomini in modo giusto, riceviamo la saggezza che è verità, sappiamo vivere e morire, perché Lui stesso è la vita e la verità.
Conviene, quindi, alla Chiesa, come per Israele, essere piena di gratitudine e di gioia. «Quale popolo può dire che Dio gli sia così vicino? Quale popolo ha ricevuto questo dono?». Non lo abbiamo fatto noi, ci è stato donato. Gioia e gratitudine per il fatto che lo possiamo conoscere, che abbiamo ricevuto la saggezza del vivere bene, che è ciò che dovrebbe caratterizzare il cristiano. Infatti, nel Cristianesimo delle origini era così: l’essere liberato dalle tenebre dell’andare a tastoni, dell’ignoranza - che cosa sono? perché sono? come devo andare avanti? -, l’essere diventato libero, l’essere nella luce, nell’ampiezza della verità. Questa era la consapevolezza fondamentale. Una gratitudine che si irradiava intorno e che così univa gli uomini nella Chiesa di Gesù Cristo.
Ma anche nella Chiesa c’è lo stesso fenomeno: elementi umani si aggiungono e conducono o alla presunzione, al cosiddetto trionfalismo che vanta se stesso invece di dare la lode a Dio, o al vincolo, che bisogna togliere, spezzare e schiacciare. Che dobbiamo fare? Che dobbiamo dire? Penso che ci troviamo proprio in questa fase, in cui vediamo nella Chiesa solo ciò che è fatto da se stessi, e ci viene guastata la gioia della fede; che non crediamo più e non osiamo più dire: Egli ci ha indicato chi è la verità, che cos’è la verità, ci ha mostrato che cos’è l`uomo, ci ha donato la giustizia della vita retta. Noi siamo preoccupati di lodare solo noi stessi, e temiamo di farci legare da regolamenti che ci ostacolano nella libertà e nella novità della vita.
Se leggiamo oggi, ad esempio, nella Lettera di Giacomo: «Siete generati per mezzo di una parola di verità», chi di noi oserebbe gioire della verità che ci è stata donata? Ci viene subito la domanda: ma come si può avere la verità? Questo è intolleranza! L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità. Sembra essere lontana, sembra qualcosa a cui è meglio non fare ricorso. Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. E’ la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi. Penso che dobbiamo imparare di nuovo questo «non-avere-la-verità». Come nessuno può dire: ho dei figli – non sono un nostro possesso, sono un dono, e come dono di Dio ci sono dati per un compito - così non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra.
Cari amici, vogliamo chiedere al Signore che ci faccia questo dono. San Giacomo ci dice oggi nella Lettura: non dovete limitarvi ad ascoltare la Parola, la dovete mettere in pratica. Questo è un avvertimento circa l’intellettualizzazione della fede e della teologia. E’ un mio timore in questo tempo, quando leggo tante cose intelligenti: che diventi un gioco dell’intelletto nel quale «ci passiamo la palla», nel quale tutto è solo un mondo intellettuale che non compenetra e forma la nostra vita, e che quindi non ci introduce nella verità. Credo che queste parole di san Giacomo si dirigano proprio a noi come teologi: non solo ascoltare, non solo intelletto – fare, lasciarsi formare dalla verità, lasciarsi guidare da lei! Preghiamo il Signore che ci accada questo, e che così la verità diventi potente sopra di noi, e che conquisti forza nel mondo attraverso di noi.
La Chiesa ha posto la parola del Deuteronomio - «Dov`è un popolo al quale Dio è così vicino come il nostro Dio è vicino a noi, ogni volta che lo invochiamo?» - nel centro dell’Officio divino del Corpus Domini, e gli ha dato così un nuovo significato: dov`è un popolo al quale il suo Dio è così vicino come il nostro Dio lo è a noi? Nell’Eucaristia questo è diventato piena realtà. Certo, non è solo un aspetto esteriore: qualcuno può stare vicino al tabernacolo e, allo stesso tempo, essere lontano dal Dio vivente. Ciò che conta è la vicinanza interiore! Dio ci è diventato così vicino che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo! Egli è così vicino che è uno di noi. Conosce l’essere umano, il «sapore» dell’essere umano, lo conosce dal di dentro, lo ha provato con le sue gioie e le sue sofferenze. Come uomo, mi è vicino, vicino «a portata di voce» – così vicino che mi ascolta e che posso sapere: Lui mi sente e mi esaudisce, anche se forse non come io me lo immagino.
Lasciamoci riempire di nuovo di questa gioia: dov’è un popolo al quale Dio è così vicino come il nostro Dio lo è a noi? Così vicino da essere uno di noi, da toccarmi dal di dentro. Sì, da entrare dentro di me nella santa Eucaristia. Un pensiero perfino sconcertante. Su questo processo, San Bonaventura ha utilizzato, una volta, nelle sue preghiere di Comunione, una formulazione che scuote, quasi spaventa. Egli dice: mio Signore, come ha potuto venirti in mente di entrare nella sporca latrina del mio corpo? Sì, Lui entra dentro la nostra miseria, lo fa con consapevolezza e lo fa per compenetrarci, per pulirci e per rinnovarci, affinché, attraverso di noi, in noi, la verità sia nel mondo e si realizzi la salvezza. Chiediamo al Signore perdono per la nostra indifferenza, per la nostra miseria che ci fa pensare solo a noi stessi, per il nostro egoismo che non cerca la verità, ma che segue la propria abitudine, e che forse spesso fa sembrare il Cristianesimo solo come un sistema di abitudini. Chiediamogli che Egli entri, con potenza, nelle nostre anime, che si faccia presente in noi e attraverso di noi – e che così la gioia nasca anche in noi: Dio è qui, e mi ama, è la nostra salvezza! Amen.

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

martedì 30 ottobre 2012

LA BELLEZZA DELLA SAGRADA FAMILIA


LA BELLEZZA DELLA SAGRADA FAMILIA
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Che cosa è la fede?

BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 ottobre 2012
 
L'Anno della fede. Che cosa è la fede?
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Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso, con l'inizio dell'Anno della fede, ho cominciato con una nuova serie di catechesi sulla fede. E oggi vorrei riflettere con voi su una questione fondamentale: che cosa è la fede? Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi? In effetti, nel nostro tempo è necessaria una rinnovata educazione alla fede, che comprenda certo una conoscenza delle sue verità e degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasca da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo, dall’amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne sia coinvolta.
Oggi, insieme a tanti segni di bene, cresce intorno a noi anche un certo deserto spirituale. A  volte, si ha come la sensazione, da certi avvenimenti di cui abbiamo notizia tutti i giorni, che il mondo non vada verso la costruzione di una comunità più fraterna e più pacifica; le stesse idee di progresso e di benessere mostrano anche le loro ombre. Nonostante la grandezza delle scoperte della scienza e dei successi della tecnica, oggi l’uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano; permangono tante forme di sfruttamento, di manipolazione, di violenza, di sopraffazione, di ingiustizia… Un certo tipo di cultura, poi, ha educato a muoversi solo nell’orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani. D’altra parte, però, cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e, nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al suo contrario. In questo contesto riemergono alcune domande fondamentali, che sono molto più concrete di quanto appaiano a prima vista: che senso ha vivere? C’è un futuro per l’uomo, per noi e per le nuove generazioni? In che direzione orientare le scelte della nostra libertà per un esito buono e felice della vita? Che cosa ci aspetta oltre la soglia della morte?
Da queste insopprimibili domande emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. La fede ci dona proprio questo: è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi. Anzi, Dio ha rivelato che il suo amore verso l’uomo, verso ciascuno di noi, è senza misura: sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, ci mostra nel modo più luminoso a che punto arriva questo amore, fino al dono di se stesso, fino al sacrificio totale. Con il mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, Dio scende fino in fondo nella nostra umanità per riportarla a Lui, per elevarla alla sua altezza. La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani.
Attorno a noi, però, vediamo ogni giorno che molti rimangono indifferenti o rifiutano di accogliere questo annuncio. Alla fine del Vangelo di Marco, oggi abbiamo parole dure del Risorto che dice : «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16), perde se stesso. Vorrei invitarvi a riflettere su questo. La fiducia nell’azione dello Spirito Santo, ci deve spingere sempre ad andare e predicare il Vangelo, alla coraggiosa testimonianza della fede; ma, oltre alla possibilità di una risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto del Vangelo, della non accoglienza dell’incontro vitale con Cristo. Già sant’Agostino poneva questo problema in un suo commento alla parabola del seminatore: «Noi parliamo - diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona» (Discorsi sulla disciplina cristiana, 13,14: PL 40, 677-678). Il rifiuto, dunque, non può scoraggiarci. Come cristiani siamo testimonianza di questo terreno fertile: la nostra fede, pur nei nostri limiti, mostra che esiste la terra buona, dove il seme della Parola di Dio produce frutti abbondanti di giustizia, di pace e di amore, di nuova umanità, di salvezza. E tutta la storia della Chiesa, con tutti i problemi, dimostra anche che esiste la terra buona, esiste il seme buono, e porta frutto.
Ma chiediamoci: da dove attinge l’uomo quell’apertura del cuore e della mente per credere nel Dio che si è reso visibile in Gesù Cristo morto e risorto, per accogliere la sua salvezza, così che Lui e il suo Vangelo siano la guida e la luce dell’esistenza? Risposta: noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (Cost. dogm. Dei Verbum, 5). Alla base del nostro cammino di fede c’è il Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di Dio in Cristo, e segna l’ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. Dal Battesimo in poi ogni credente è chiamato a ri-vivere e fare propria questa confessione di fede, insieme ai fratelli.
La fede è dono di Dio, ma è anche atto profondamente libero e umano. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice con chiarezza: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo» (n. 154). Anzi, le implica e le esalta, in una scommessa di vita che è come un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi all’azione di Dio che ci indica la sua strada per conseguire la vera libertà, la nostra identità umana, la gioia vera del cuore, la pace con tutti. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno provvidenziale di Dio sulla storia, come fece il patriarca Abramo, come fece Maria di Nazaret. La fede allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro «sì» a Dio, confessando che Gesù è il Signore. E questo «sì» trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile.
Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine. Grazie.

giovedì 25 ottobre 2012

Schweitzer e padre Carlo: è meglio la santità o la perfezione?

CESBRON/ Schweitzer e padre Carlo: è meglio la
santità o la perfezione?

Giovanni Fighera
giovedì 25 ottobre 2012
Nel 1954 Gilbert Cesbron (1913-1979) scrive il testo teatrale È mezzanotte, Dottor Schweitzer. Teologo
protestante e musicista, partito missionario per l’Africa, Albert Schweitzer è tutto animato da questo desiderio
che la sua vita sia ben vissuta tanto che ha modo di scrivere: «Una vita va spesa e vorrei che la mia fosse spesa, e
poi spesa bene».
Nell’opera di Cesbron diventa il protagonista di una vicenda ambientata nel 1914, dopo lo scoppio della Prima
guerra mondiale, nella giungla vicino a Lambaréné nel Congo francese.
Già nel primo atto Schweitzer appare in
tutta la sua tenacia e laboriosità indefessa. Ha rinunciato a tutto, ad una splendida carriera di musicista, alla
professione di chirurgo, ai soldi, alla famiglia. Giunto in Africa per guarire gli ammalati e per far costruire
ospedali, sta sacrificando la sua vita, ma non è felice. A Maria, sua aiutante infermiera, di notte confida: «Siamo
in piena notte, in piena boscaglia e soli, però non esito a confidarle questa verità che ho messo tanti anni ad
accettare: la felicità non esiste…
Ma se lei è degna di questa felicità, capisce allora che non ne ha diritto: che deve
assumere una parte del fardello del dolore umano… Allora, si abbandona la felicità e si sceglie la gioia».
Rendendosi conto che non è cambiato quasi nulla negli anni trascorsi, il dottore si sente sconfitto.
Al contrario, 
Maria, però, né si accontenta della risposta del dottore (la felicità non esiste), né tanto meno può credere a Padre Carlo quando questi le dice che la felicità è sempre sfuggente perché la possiamo vedere solo quando è passata. Quando si guarda allo specchio alla mattina, si rende conto che vuole essere felice, e presto.
Lei sta attendendo qualcosa proprio lì in Africa.
Padre Carlo le dice che «l’eroismo consiste nel credere ancora
all’idea dopo che si è visto gli esseri miserabili che la incarnano»
. Non si può mai costruire qualcosa di grande quando si opera contro qualcosa (la fame, la povertà, l’ignoranza, …), solo quando si lavora per qualcuno si opera davvero. L’errore dell’uomo è spesso nella sua presunzione che lo porta a voler essere perfetto, buono, e non a desiderare di essere santo.
 

Dopo aver incontrato il vecchio amico, ora comandante Hervé Lieuvin, Padre Carlo lo
riabbraccia. Grande è la sorpresa del comandante che non riesce a credere che un tipo come lui sia ora un uomo
di Dio. Ma Padre Carlo gli spiega che Dio «quando ci impegna per la sua lotta, ci prende come siamo tutti interi: il buono e il cattivo.
Se metti un ceppo al fuoco, tutto brucia: anche i vermi che lo divorano». Padre Carlo fra tutti i missionari è quello
che ha avuto meno conversioni, ma il tempo, lui lo sa bene, non è nostro («Si fa del bene nella misura di ciò che si
è… Occorre che lavori ancora alla mia conversione personale prima di pretendere…»). Sa bene che il significato
del tempo si comprende meglio nella preghiera che nell’azione e che si può rinascere in ogni momento («Questa è
la meraviglia del Cristo»).
Nel secondo atto Maria confessa il proprio amore al comandante Lieuvin. Presa tra due fuochi (anche Leblanc
infatti la ama), incerta se la sua missione abbia un significato, decide che professerà il proprio amore per Lieuvin.
La guerra in Europa è ormai iniziata e sta per portare conseguenze anche lì, nelle lontane regioni africane. Una
notte, Padre Carlo decide di attraversare la boscaglia senza scorta, nonostante le avvisaglie di scontri. Lui,
portatore di amore e denominato dagli indigeni uomo «dalle mani aperte», viene preso e assassinato. La notizia
giunge rapidamente a Maria, a Lieuvin, a Leblanc e al dottor Schweitzer. Il volto di Padre Carlo porta ancora le
tracce della letizia e nelle sue mani viene ritrovato un foglio con la scritta «Vivere come se oggi tu dovessi morire
martire!». Le ultime parole che il Dottore ha ricevuto da Padre Carlo per Maria sono: «Le dica che penso alla sua
anima; mi raccomando, glielo dica, questa notte». Lieuvin tornerà in Europa, mentre a mezzanotte Schweitzer, in
quanto cittadino tedesco, verrà arrestato perché la Francia è in guerra con la Germania.
Padre Carlo è l’uomo che guarda e segue l’ideale che ha incontrato, senza ripensamenti, e non si perde nelle proprie misure, nelle valutazioni sui risultati. Dopo la morte di Charles de Foucauld, quante conversioni e vocazioni ci sono state, quanti diedero vita a comunità differenti che si ispiravano a Gesù. Queste comunità formano oggi, tutte insieme, l’Associazione internazionale «Fratel Carlo di Gesù». I tempi del Signore non sono i  nostri tempi. Nella tradizione cristiana Padre Carlo è il santo. Non è il buono o colui che si sforza di migliorarsi,
non è un superuomo, piuttosto è un uomo vero, perché aderisce alla bellezza e alla verità dell’incntro con Cristo e, come o colui che è trascinato da un grande amore, vive la densità dell’istante tutto preso dalla memoria del suo volto e desidera che anche gli altri possano incontrare la pienezza e il fascino che lui ha visto. Per la tradizione cristiana il santo è, perciò, un uomo vero, riflesso di Cristo, l’unico in cui l’umanità si è compiuta in tutta la sua
potenzialità
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mercoledì 24 ottobre 2012

marija skobcova

Scheda a cura della Fondazione Russia Cristiana



Elizaveta Pilenko nasce nel 1891 a San Pietroburgo in una famiglia di nobili origini; la sua casa è frequentata dai nomi più belli della cultura del tempo, e Elizaveta diventa amica del grande poeta Aleksandr Blok. Dopo un primo matrimonio fallito nel giro di tre anni e una figlia, Elizaveta Pilenko sposa Daniil Skobcov, dal quale ha altri due figli, Jurij e Anastasija. Con la guerra e la rivoluzione ha inizio la sua militanza nel partito dei socialisti rivoluzionari, che la porta persino a diventare sindaco della cittadina di Anapa (la prima donna nella storia russa a svolgere un simile ruolo).

Costretta dalla vittoria definitiva dei bolscevichi a emigrare nel 1920, fino a trasferirsi a Parigi, Elizaveta attraversa un periodo pieno di sofferenze, culminate con la morte per meningite della piccola Anastasija nel 1926. È proprio la tragica perdita della figlia a farle scoprire una dimensione più profonda della maternità, suscitandole il desiderio di diventare «madre di tutti». Decide così di offrire il suo servizio al Movimento degli studenti cristiani russi, di cui nel 1930 diventa segretaria. Una passione senza limiti per l’umanità la porta a cercare nuovi figli là dove la sofferenza è più estrema e disperata: disoccupati, emarginati e malati di mente diventano la sua famiglia.
Nel 1932 Elizaveta ottiene il divorzio religioso e prende i voti, diventando madre Marija. Lei stessa spiega che a muoverla non è la ricerca del sacrificio ma l’amore per ciò che costituisce la verità del mondo, come scrive dopo la morte della figlia: «No, morte, non te amavo. / Ma quanto è di più vivo al mondo: l’eternità. / E quanto v’è di più mortale al mondo: vivere».
Il 27 settembre 1935 madre Marija (insieme ad altri grandi intellettuali russi in esilio come Nikolaj Berdjaev e Sergej Bulgakov) fonda l’«Azione ortodossa», la cui attività spazierà dall’organizzare conferenze all’offrire un lavoro o un piatto di minestra all’ultimo dei vagabondi.
Con la guerra arrivano a Parigi i nazisti e la follia antisemita. Per i cristiani dell’«Azione ortodossa» è del tutto naturale contrapporre alla falsità delle persecuzioni razziali «il mistero dell’autentica comunione umana, che si radica nella comunione della Trinità»; cercano così di soccorrere in ogni modo gli ebrei, fornendo loro rifugi, documenti e soprattutto certificati di battesimo falsi. La repressione non tarda ad arrivare: tra gli altri vengono arrestati e deportati madre Marija, suo figlio Jurij, l’assistente spirituale padre Dimitrij Klepinin. Tutti e tre moriranno in deportazione.
Madre Marija muore nel lager di Ravensbrück il 31 marzo 1945: il giorno prima, venerdì santo, si era offerta di prendere il posto di un’altra donna selezionata per la camera a gas.
Il patriarcato di Costantinopoli l’ha canonizzata il 16 gennaio 2004.


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Marija Skobcova
Publicato da Admin su 14/8/2009 (190 Letto)
Marija Skobcova
L'esilio, la conversione, il lager nazista
Effatà, pp. 96 €. 9,00


In un agile libro di novantacinque pagine dal titolo Marija Skobcova L'esilio, la conversione, il lager nazista,  Effatà Editrice e con uno stile chiaro e scorrevole, Emilia Bea docente di Filosofia del diritto e di  Filosofia politica  presso l’Università di Valencia,  offre al lettore l'opportunità di conoscere e di arricchirsi spiritualmente e culturalmente, attraverso una straordinaria lezione di storia e soprattutto un’appassionante testimonianza di vita cristiana spesa nel servizio di un grande amore per il prossimo.E' la storia di Mat Marija Skobcova, il cui vero nome fu Elizaveta Pilenko, canonizzata dal patriarcato di Costantinopoli il 16 Gennaio del 2004, la quale si può definire, senza timore di essere smentiti, una vera eroina della cristianità nell’esercizio teorico e pratico di una fede pura ed incrollabile.Marija, nacque nel 1891 a Riga da una famiglia benestante Russa, da giovane fu  una rappresentante di un partito socialrivoluzionario, che pur  appartenendo ad una posizione di sinistra, si opponeva alle rigidità ed ai verticismi bolscevichi. Nel 1910 il suo primo matrimonio con il menscevico Kuz’min-Karavaev, che in seguito si convertirà al cattolicesimo ed entrerà a far parte della Compagnia di Gesù. Dopo la separazione dal suo primo  marito, Marija sposò l’ufficiale cosacco Daniil Skobcov, appartenente all’esercito bianco che si opponeva ai comunisti. Si  conobbero nel febbraio 1918, allorquando lei fu nominata  (fatto clamoroso nella Russia dell’epoca),  Sindaco di Anapa, nella Russia meridionale . Fu proprio a causa delle sue opposizioni politiche che Marija fu esiliata a Parigi insieme al marito ed ai figli, mentre nella primavera del 1920 il movimento bianco veniva definitivamente sconfitto a Kuban. In Francia divenne membro attivo della chiesa ortodossa e nel 1932, sotto la guida del pensatore Sergej Bulgakov, prese i voti monastici per seguire una nobile e santa vocazione: aiutare i fratelli più deboli della  società. Nonostante la scarsezza dei mezzi, riuscì a realizzare progetti grandiosi, in particolare il pensionato per bisognosi, emarginati e rifugiati, aperto a Parigi dapprima in via de Saxe e poi in rue de Lourmel.     In virtù della sua naturale propensione al bene e della sua attiva partecipazione alle opere di carità, Mat Marija si scontrò inevitabilmente con il male che in quel periodo si era propagato in Europa, l'ideologia neopagana  del Nazionalsocialismo. In questo cruciale momento storico, ella svolse un ruolo di rilevante importanza  con il suo concreto apporto materiale in difesa dei più deboli, tanto da diventare un simbolo ed un esempio spirituale della cristianità,  perseguendo la sua vocazione di   amare ed aiutare il prossimo con materna premura.Questa straordinaria figura di donna, peraltro eccellente poetessa e pittrice, più volte si espresse in merito alla “questione ebraica”, parlando piuttosto dell’esistenza di una “questione cristiana” ed evidenziando come gli scismi e le divisioni dei popoli, soprattutto quelli causati dalla differenza di  credo, possano aprire le porte ai mali del mondo ed al peggio dell’essere umano, argomento questo tanto attuale nel 1945 quanto oggi. Inoltre non dimenticò di analizzare nel bene e nel male un concetto fondamentale della natura umana, la creatività.   Mat Marija ci indica la via della vera salvezza nell’amore per il prossimo e nell’aiuto reciproco, nella vera fratellanza che contraddistinse gli albori della cristianità quando  la Chiesa era un unico spirito ed un cuore solo di una grande famiglia.Nella sua missione d’amore, di fede e di carità, Mat Marija visse una vita piena di  distacchi, di scelte sofferte, di tentazioni e sacrifici nonché di eventi  fatali nei quali  non si può non intravvedere il progetto della volontà divina su di lei. Nel 1936 morì di tifo la figlia maggiore Gajana, poco dopo la figlia Anastasija e anche quando l’amatissimo figlio Jurij, che aveva seguito l’esempio della madre nel volontariato, venne ucciso prima di lei dai carnefici nazisti, Madre Maria, malgrado questa ennesima sofferenza,  non si arrese. Fu così che per aver accolto ed aiutato i più deboli, tra cui alcuni rifugiati ebrei, per averli protetti nel suo tenero e materno abbraccio presso il centro da lei fondato a Parigi, Mat Marija fu prelevata dalla Gestapo ed imprigionata come sovversiva nel lager nazista di Ravensbrück nel 1943 e immatricolata con il numero 19263. A dispetto di ciò che pensavano i suoi aguzzini, la prigionia non piegò la sua fede  e la  sua volontà di aiutare gli altri, anzi le offrì la possibilità di innalzare il suo amore per il prossimo ad un livello spirituale e materiale sempre più alto; colse l'opportunità di assistere ed aiutare da vicino chi si sentiva disperato e condividerne le sofferenze e la sorte, con uno straordinario slancio cristiano.Nel marzo del 1945 pochi giorni prima della liberazione, Mat Maria morì in una camera a gas, secondo alcune testimonianze si sostituì volontariamente ad una compagna che piangeva di sconforto per l'dea della morte. Il suo estremo sacrificio ha lasciato un indelebile messaggio di carità e di amore,  tanto che a Gerusalemme  sul monumento di Yad  Vashem, il suo nome compare tra quello dei Giusti tra le Nazioni .Nel libro  è narrata, con particolare attenzione all’introspezione,  l’indimenticabile storia di una donna santa, un'autentica testimone del XX secolo, grande lavoratrice e pensatrice, dallo spirito critico e creativo, che tentò nella sua missione di fede e fratellanza di ricercare sempre ciò che ci unisce e non ciò che ci divide.Un libro da consigliare a tutti, grandi e piccoli,  appartenenti a qualsiasi confessione religiosa.
 Marco Spedicato

Chi può salvare l'uomo quando è stanco di se stesso?

CULTURA
RUSSIA/ Chi può salvare l'uomo quando è stanco di se stesso?
Adriano Dell'Asta
giovedì 18 ottobre 2012
In occasione del Convegno annuale, promosso da Russia Cristiana, Est-Ovest: La crisi come prova e
provocazione. Al bivio tra negazione e riscoperta dell’io, che si svolge a Milano il 19-20 ottobre, presentiamo una
sintesi dell’intervento di Adriano Dell’Asta, Direttore dell’Istituto italiano di cultura a Mosca.
Siamo in un campo di concentramento sovietico, un gruppo di prigionieri mutilati sta consegnando gli oggetti
personali; tra questi ci sono le loro protesi; ad un certo punto viene il turno di un detenuto che ha questo scambio
di battute con l’addetto all’operazione: «“Sicché, quello il braccio, quest’altro la gamba, poi un orecchio, una
schiena, e questo qui l’occhio. Finiremo per mettere assieme un corpo intero. E tu cos’hai da darci?”. Ero nudo e
mi esaminò attentamente. “Che cosa consegni? L’anima?”. “No” gli dissi. “L’anima non ve la do”». L’attualità del
concetto di persona che caratterizza il pensiero russo del XX secolo sta tutta in questo passo dei Racconti di
Kolyma di Varlam Šalamov: l’uomo è un essere irriducibile. Non che abbia qualcosa di irriducibile, è lui stesso
irriducibile; non è una cosa o una somma di cose, non vale per qualche virtù particolare o per la somma di tutte le
virtù, ma proprio in quanto persona.

La sconvolgente esperienza di uomini passati attraverso la violenza del totalitarismo è la scoperta, nel proprio
intimo, di una «sorta di nucleo che nulla riesce a toccare», per usare un’espressione del filosofo Nikolaj Berdjaev,
che pure visse nel 1922 l’esperienza del «Terrore rosso», fu sottoposto a interrogatori da Dzeržinskij («l’uomo che
aveva creato la Ceka, era un nome insanguinato che terrorizzava tutta la Russia»), e d’altro canto attestava lui
stesso di avere un’«anima malata», parlando di «turbamenti emotivi»; ebbene, se fra simili contraddizioni
Berdjaev seppe dar prova di tanta fermezza il motivo va evidentemente cercato in qualcosa di diverso rispetto alle
virtù o ai difetti personali.
È il paradosso più volte ricordato da Solženicyn; uno dei suoi personaggi, rivolgendosi a un alto esponente del
regime, osserva: «Voi siete forti soltanto nella misura in cui non togliete agli uomini tutto. Ma un uomo a cui
avete tolto tutto non è più in vostro potere, è di nuovo libero»
. In contrapposizione all’uomo sovietico, che «suona
con orgoglio» (come diceva una canzone propagandistica di regime), queste persone sono degli «scossi» (secondo
un’espressione di un altro autore dell’Europa orientale, il filosofo ceco Jan Patocka): uomini toccati e
profondamente mutati dalla scoperta che l’uomo non è solo, non è padrone e creatore della propria vita e del
mondo, ma ha un «fondamento primo» che è altro da lui e di cui ha «nostalgia»; uomini che, proprio grazie a
questa scoperta, hanno capito che non possono essere schiavi di niente e di nessuno che sia di questo mondo, né
delle proprie voglie, né delle voglie del potere, e quindi resistono; proprio questo scotimento dà alla loro persona
un «io» stabile attraverso tutti i mutamenti.

Madre Marija Skobcova, ortodossa russa emigrata a Parigi che avrebbe dato la vita scambiandosi in un lager nazista con un’altra prigioniera, coglieva la vera vertigine della libertà, dicendo: «A cosa ci impegna il dono dellalibertà che ci siamo trovati addosso?.. 

Nel campo della vita spirituale non c’è posto per il caso, né ci sono epoche
più o meno fortunate, ci sono invece dei segni che bisogna capire e delle vie che bisogna seguire. E noi siamo
chiamati a grandi cose, perché siamo chiamati alla libertà». A uomini simili può essere tolta persino la vita, ma
loro possono disarmare il carnefice facendogli dono del proprio essere. Al suo vertice massimo è l’esperienza del
martire, da Massimiliano Kolbe a madre Marija; come avrebbe detto più tardi Patočka, «esistono cose per cui val
la pena soffrire, e che le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui val la pena vivere», in un’assoluta disponibilità al sacrificio di sé e, continua Patočka, del proprio «giorno». Dove l’uso di questa espressione, il parlare della rinuncia a una dimensione diurna deve farci capire che il sacrificio di cui si sta parlando ha un’estensione molto ampia: va dal sacrificio della vita e della libertà per un detenuto in un campo diconcentramento al sacrificio del benessere e del prestigio sociale per un libero, al sacrificio dei propri progetti per ciascuno di noi; un sacrificio che, precipitandoci nella notte, ci spinge alla ricerca delle stelle.

Una delle tragedie del mondo contemporaneo, invece, ciò che rende la sua vita insopportabile e piena di angoscia – ciò che genera, in definitiva, la crisi − è il fatto che «l’uomo si è stancato di se stesso»; ha sì creduto di potersi affermare meglio e più pienamente liberandosi di Dio, ma in realtà ciò che ha ottenuto è esattamente il contrario.
«Il problema fondamentale dei nostri giorni non è il problema di Dio – come pensano molti, come pensano spesso anche i cristiani che esortano alla rinascita cristiana, – il problema fondamentale dei nostri giorni è innanzitutto il problema dell’uomo», dice Berdjaev, e quindi precisa: «gli uomini hanno rinnegato Dio, ma così  facendo non hanno messo in dubbio la dignità di Dio, bensì la dignità dell’uomo. L’uomo non può tenersi in piedi senza Dio. Per l’uomo Dio è appunto l’idea suprema, − la realtà che edifica l’uomo».
Gli uomini rinnegando Dio non hanno soltanto rinnegato l’uomo, ma hanno finito col distruggere il mondo stesso e la vita. Senza un Dio davanti al quale riconoscere il proprio peccato e dal quale attendere la salvezza, l’uomo non solo è ridotto a un essere inevitabilmente senza speranza, ma i suoi mali e le sue disgrazie restano appese al nulla.

Questa prospettiva cristiana di apertura a un percorso di rinascita e di superamento dei vicoli ciechi in cui sembra
precipitarci ogni crisi è una prospettiva propriamente umanistica, nella quale cioè il riferimento a Cristo è tale da
superare ogni vecchia contrapposizione tra umano e divino, laico e religioso, medioevo e rinascimento, ragione e
fede. La persona irriducibile è tale perché è modellata sulla Persona di Cristo, unità perfetta del divino e dell’umano.
Il convegno dal titolo 'Est-Ovest: La crisi come prova e provocazione. Al bivio tra negazione e riscoperta dell’io',
attraverso due sessioni che avranno luogo rispettivamente a Milano e a Mosca, intende interrogare da vicino due
poli culturali e politici europei su tematiche collegate fra loro ma anche specificamente inerenti al contesto locale.
La prima sessione, milanese, tratterà più globalmente problematiche russe ed europee, lasciando spazio ai
tentativi di individuare la natura della crisi, le sue componenti e prospettive di soluzioni. Nella seconda sessione, a
Mosca, sarà invece in primo piano il rapporto Chiesa-società, attraverso pagine di storia e di attualità tratte dalla
storia occidentale e, in particolare, italiana. Qui il programma del convegno

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martedì 23 ottobre 2012

DIETA ANTI DIABETICA


 DIETA ANTI DIABETICA
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Lo scopo della dieta DIANA, sperimentata ad Attivecomeprima nel 1996, è ridurre gli alti livelli di ormoni sessuali che caratterizzano le donne ad alto rischio di sviluppare un tumore mammario. Si tratta sia di ormoni di tipo maschile (i cosiddetti androgeni), come il testosterone, sia di ormoni femminili (gli estrogeni), come l'estradiolo. Non sono essi stessi la causa del tumore ma ne favoriscono la formazione e lo sviluppo in quanto stimolano la proliferazione delle cellule mammarie.
Gli ormoni sessuali sono prodotti dalle ovaie e dalle ghiandole surrenali, che a loro volta sono stimolate a produrli dagli ormoni dell'ipofisi. La loro azione è moderata da una proteina prodotta dal fegato, la SHBG (in sigla la 'globulina che lega gli ormoni sessuali').
Quanto più è alto il livello di SHBG nel sangue tanto più è basso il rischio di tumore mammario. La produzione della SHBG è regolata soprattutto dall'insulina: quanta più insulina c'è nel sangue tanto meno SHBG viene prodotta dal fegato. L'insulina, inoltre, farebbe aumentare gli androgeni sia stimolando direttamente l'ovaio a produrli sia stimolando l'ipofisi a produrre l'ormone responsabile della produzione ovarica di androgeni, il cosiddetto LH. Con la dieta è possibile da un lato ridurre i livelli di insulina privilegiando gli alimenti integrali rispetto agli zuccheri e alle farine raffinate e ai grassi, e dall' altro contrastare gli ormoni sessuali aumentando il consumo di alimenti vegetali ricchi di sostanze che avendo una debole azione ormonale inibiscono la produzione dei più forti ormoni prodotti dall'organismo e prendendone il posto ne impediscono l'azione. Si tratta dei cosiddetti fitoestrogeni, classificabili in tre grandi gruppi chimici: gli isoflavonoidi, tipici della soia, i lignani, di cui sono ricchissimi i semi di lino ma anche i cereali e i legumi, e alcuni indoli presenti nella famiglia delle crucifere, cui appartengono cavoli e rape. Soia: viene usata nella dieta Diana perché è l'alimento più ricco di isoflavonoidi…….


Nello scheletro di un adulto c'è circa un chilo e mezzo di calcio, ma il calcio
non serve solo per irrobustire le ossa, bensì per innumerevoli funzioni
dell' organismo; lo scheletro in particolare, ha anche la funzione di mantenere
costante il livello di calcio nel sangue, con un valore di circa dieci milligrammi
ogni decilitro: se ce ne fosse di meno o di più ci sentiremmo ipereccitati o, al
contrario, depressi e senza tono, perché il calcio regola la funzionalità dei nervi
e dei muscoli. Per questo il livello di calcio nel sangue viene controllato con
meccanismi di regolazione molto sofisticati, con il concorso della vitamina D e
di vari ormoni: non appena il livello diminuisce subito le ossa ne liberano la
quantità necessaria a ripristinare l'equilibrio, mentre se il livello di calcio au-
menta i reni provvedono ad eliminarlo. Il calcio inoltre è indispensabile per il
funzionamento di molti enzimi, le proteine che controllano il nostro metaboli-
smo, e per la regolazione del livello di acidità del sangue: quando il sangue è
molto acido, ad esempio quando mangiamo troppe proteine animali, le ossa
provvedono a tamponare l'eccesso liberando calcio.
Molti specialisti si occupano di osteoporosi, innanzitutto gli ortopedici e poi
radiologi, che oggi possono diagnosticare il grado di osteoporosi con macchine
sofisticatissime, gli endocrinologi e ancora più spesso i ginecologi, a cui le
donne si rivolgono al passaggio della menopausa. Alla menopausa, infatti,
quando le ovaie smettono di produrre estrogeni, si ha generalmente una spicca-
ta caduta della concentrazione di calcio nelle ossa, perché la fissazione del cal-
cio nelle ossa è favorita dagli ormoni sessuali. …..

Come dovremmo mangiare, dunque, per contrastare l' osteoporosi?
Ovviamente è importante che nella dieta ci sia un sufficiente apporto di calcio,
ma non basta guardare le tavole di composizione degli alimenti e scegliere
l’aumento della  produzione di insulina che che segue un pasto ricco di carboidrati, può attivare una serie di complessi meccanismi biochimici che favoriscono l'obesità e molte malattie croniche del mondo occidentale, dall'aterosclerosi, al cancro, alle demenze. L'insulina ha molteplici funzioni: ogni volta che mangiamo, il pancreas, accorgendosi che il glucosio nel sangue aumenta, produce insulina, che consente l'ingresso del glucosio in tutte le cellule dell'organismo, dove verrà bruciato per produrre l'energia necessaria a tutte le funzioni vitali.
L'insulina può essere immaginata come una chiave che apre le porte del glucosio sulle pareti delle nostre cellule: il glucosio entra nelle cellule e la glicemia si normalizza. Una produzione esagerata di insulina, però, finisce per causare una riduzione esagerata della glicemia, e di conseguenza fame di zuccheri. Più zuccheri si mangiano più aumenta il desiderio di zuccheri. Un altro effetto metabolico importante dell'insulina è quello di attivare gli enzimi predisposti a smontare' i grassi presenti nel sangue per consentirne l'ingresso nel tessuto adiposo. Più l'insulina è alta, quindi, più si ingrassa.
 L'insulina, inoltre, attiva il sistema renina-angiotensina e il sistema nervoso simpatico, favorendo l'ipertensione, stimola la proliferazione delle cellule muscolari lisce dei vasi sanguigni, uno dei meccanismi della formazione della placca aterosclerotica, fa aumentare la produzione o l'attivazione di fattori di crescita, che favoriscono la crescita di tumori, e di fattori dell'azione.
 Da: Alimentare il benessere.  - Franco Angeli Editore

lunedì 22 ottobre 2012

Robert Spaemann: un Anno della fede per ridare forza anche alla ragione

Robert Spaemann: un Anno della fede per ridare forza anche alla ragione

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2012-10-13 Radio Vaticana
Giovedì scorso, al termine della Messa di apertura per l'Anno della fede, il Papa ha consegnato i Messaggi all’umanità del Concilio Vaticano II a varie personalità. A rappresentare gli intellettuali e scienziati, tra gli altri, il filosofo e teologo tedesco Robert Spaemann, amico di Benedetto XVI. Padre Bernd Hagenkord lo ha intervistato:
D. - Uno dei temi più importanti di Benedetto XVI è il legame tra fede e ragione: si può dire, dunque, che l'Anno della fede è anche un anno della ragione?
R. – „Ich glaube ja. Ein Mensch muss letzten Endes mit sich im…
Penso di sì. Una persona deve essere, in ultima analisi, coerente con la sua ragione, e se la sua ragione e la sua fede gli dicono qualcosa di opposto, questo significa che c’è qualcosa che non va. Non può costringersi ad una alternativa al ribasso: “o la fede o la ragione”, ma deve cercare di trovare una unità. L'apostolo Paolo definisce la fede “rationabile obsequium”, ovvero un'obbedienza ragionevole. Lo scientismo di oggi indebolisce la ragione fino a dire che non è capace di raggiungere la verità. Così oggi l'ultima parola dovrebbe essere quella del relativismo che in realtà è incapace di vedere la verità. Ora, paradossalmente, è chi ha fede che oggi difende le capacità della ragione. Se oggi trovate qualcuno che afferma con forza la capacità della ragione di raggiungere la verità, allora si può quasi essere certi che si tratti di un cattolico.
D. – Dunque la fede è grande amica della ragione. Allora la ragione ha bisogno di Dio e della fede?
R. – „Ja. Ich glaube ja. Da wo Gott geleugnet wird…
Sì, è così. Perché dove Dio è negato, alla fine anche la ragione è negata.

giovedì 18 ottobre 2012

SONO FIERO DI CL (E ANCHE DI FORMIGONI)

SONO FIERO DI CL (E ANCHE DI FORMIGONI)

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18 ottobre 2012 / In News
Io sono orgoglioso di far parte di Comunione e liberazione. Voglio dare questa testimonianza oggi che CL sui media sembra diventata una pessima congrega.
E’ invece una luminosa compagnia che fin da quando avevo 15 anni ha suscitato in me entusiasmo e meraviglia: qui ho scoperto il senso della vita.
Cosa sia Comunione e liberazione, anche oggi, non si apprende da ciò che scrivono i giornali. Io lo vedo anzitutto nei volti dei miei figli. L’ho reimparato in questi anni da Caterina.
Dai suoi occhi bellissimi che illuminano il mondo quando ridono insieme a Stefano, a Mira, a Maria, a Laura, a Maria Chiara, a Massimo e Martina, a tutti i suoi amici, che sono suoi fratelli e sorelle e che le fanno sentire la carezza del Nazareno nella sua sofferenza.
E che le danno la forza di una Giovanna d’Arco nella sua battaglia.
L’ho visto anche nel suo sguardo fiammeggiante e indignato quando – giorni fa – le ho raccontato, perché ne stavo scrivendo, i drammi che vivono le giovani ragazze cristiane del Pakistan, sottoposte a causa della fede a ogni forma di violenza.
Per questo lei – Caterina, pur senza poter parlare – ha voluto che mandassimo quanto potevamo, attraverso un’associazione che paga la cauzione per la piccola Rimsha, per permettere ad alcune ragazze cristiane di poter studiare e sottrarsi agli aguzzini.
Lo imparo dal volto entusiasta di mio figlio dalla capigliatura ribelle quando torna dalla caritativa per portare viveri a dei poveri clochard insieme alle suore di Madre Teresa: “Sai babbo, don Andrea ci ha fatto capire che si è veramente felici solo nel donarsi gratuitamente, anche senza sentirsi dire grazie. Ed è proprio vero!”.
Mi accorgo di cosa è CL quando sento la passione dell’altra figlia, per il suo violino e il suo pianoforte. Questo struggimento per la bellezza se l’è trovato dentro il cuore anche lei perché l’abbiamo imparato, assorbito per osmosi da don Giussani che ci ha fatto gustare tutto, dalla Sonata per violino e pianoforte n. 2 di Schubert, al panorama mozzafiato delle Dolomiti, dal mare azzurro e infinito al buon vino del mio amico Michele.
Lo struggimento per la bellezza, il gusto della vita, la fraternità vera (di chi ti accoglie in casa sua anche in piena notte), la fede e la speranza nella sofferenza, la compassione per il mondo intero, l’innamorata passione per Gesù benedetto e l’amore alla sua Chiesa fino al martirio.
Tutto questo miracolo in terra è CL, con tante opere meravigliose che ho scoperto di recente come la splendida Cometa di Como o che conosco da tempo come il Banco alimentare o i nostri medici dell’Avsi che da decenni curano gli ammalati di Aids nell’Africa profonda.
E tanti altri miracoli quotidiani, come la scelta della verginità di giovani di venti anni o l’ “amore vero” fra ragazzi e ragazze di 25 anni che per grazia si amano con eroismo e purezza (un tempo ci prendevano in giro, mentre oggi loro si sentono dire dai coetanei: “vi invidio”).
E’ veramente un’umanità affascinante. Una storia di santità che si porta dietro anche tutti i limiti di noi peccatori, ma la Chiesa stessa è così.
Nel suo cammino attraverso i secoli – scrive Eliot – gli uomini che si lasciano abbracciare da lei – e diventano cristiani – si trovano
“salvati a dispetto del loro essere negativo;
bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima;
Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce.
Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via”.
Questo sono i cristiani. Gente misera, ma in cammino con i santi. La persona che mi ha fatto incontrare CL – Andrea Aziani, che poi è pure il padrino di battesimo di Caterina – incarna questa storia di grazia.
Andrea arrivò a Siena mandato da don Giussani. Era responsabile di CL alla Statale di Milano dove, nel post-68, il movimento subiva tutto l’odio ideologico e la violenza fisica di quegli anni da parte dei vari gruppi estremisti (Andrea era stato spesso aggredito).
E’ impossibile descrivere la sua umanità eccezionale. Aveva l’ardore missionario di san Paolo (del resto era ebreo per parte di madre e suo nonno aveva subito persecuzioni sotto il fascismo prima perché cattolico, militante del Partito popolare, e poi per le leggi razziali).
Andrea da Siena andò in missione in Perù, nelle miserabili bidonville di Lima. E’ vissuto venti anni in quel mare di povertà ed è morto d’infarto, letteralmente consumandosi per Cristo e per i suoi fratelli, nel 2008, a 55 anni.
E’ significativa la testimonianza del suo vescovo, diocesi Carabayllo, periferia nord di Lima, il cappuccino padre Panizza: “l’avevo conosciuto una ventina di anni fa qui a Lima e mi aveva colpito per la sua preparazione e franchezza… Nel 1998 pensai alla necessità di costruire un’università per permettere di studiare alle migliaia e migliaia di giovani che mi circondavano. Lo cercai e la sua disponibilità” confermata da don Giussani “ci permise di iniziare questa grande opera  che è l’Università Cattolica Sedes Sapientiae”.
Il vescovo ricorda che Andrea, insieme ad altri amici di CL, era “l’anima di questa avventura… febbre di vita era il suo motto, e realmente era una febbre di dedizione che lo portava a volte a dimenticarsi di mangiare e di dormire, per non dimenticarsi di Cristo e delle persone”.
“Oggi questa università” prosegue il vescovo “è una realtà di seimila studenti, con succursali nel pieno della foresta amazzonica e in mezzo alle Ande, nate per rispondere anche lì alla necessità di educazione e conoscenza di tanti giovani che vivono in situazioni di povertà”.
L’Università in pochi anni ha permesso a tanti di loro di costruirsi una vita degna. Monsignor Panizza conclude: “E’ difficile descrivere la grandezza della persona di Andrea perché è stato insieme un maestro di migliaia di giovani, un padre attento e discreto per moltissimi, un grande uomo di cultura, un rivoluzionario dei cuori. Ma non posso pensare ad Andrea se non come a un santo di oggi. Infatti, appena saranno passati i cinque anni previsti dal diritto canonico, comincerò la causa di beatificazione, perché l’esperienza che ho vissuto nell’amicizia con lui non si può spiegare senza arrivare alla fonte della sua umanità, alla sua fede in Gesù”.
Forse sarà il primo santo che abbia vissuto il ’68. Monsignor Panizza aggiunge: “Era un ‘Memor Domini’, un laico consacrato… nessuno è potuto rimanere indifferente davanti alla sua testimonianza di passione per le persone, di attenzione ai più bisognosi, di apertura al dialogo con tutti, di lavoro incessante per una società più umana. Non ha vissuto nemmeno un minuto senza dare tutto per il bene degli altri”.
E’ da lui che ho sentito raccontare, da ragazzo, di Roberto Formigoni e di Antonio Simone. Diceva che essendo alti e robusti stavano spesso in prima fila e si prendevano le sprangate con lui durante le aggressioni a CL nella Milano degli anni Settanta.
Anche a loro, al loro coraggio e alla loro testimonianza, devo gratitudine se questa storia, questa carezza del Nazareno, è arrivata fino a me e ai miei figli.
Se hanno fatto errori (come tutti noi) ne risponderanno al confessore oppure agli elettori. Per eventuali reati ai magistrati. E’ certo però che la Lombardia governata da Formigoni – secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa – è stata la regione più prospera, solidale ed efficiente d’Italia. Fra le prime d’Europa.
Usciranno indenni dalle indagini come nel passato? Glielo auguro. Ma anche in questo caso sono certo che porteranno addosso il dolore dei propri limiti che oggi vengono usati dal mondo per picchiare su CL.
Ma la storia cristiana è così. Da duemila anni. E’ fatta di uomini che si sentono umiliati per la propria miseria, ma la cui imperfezione è usata dal Signore dell’universo come piedistallo della Sua gloria.

Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci

 In memoriam di Andrea Aziani
 Da “Libero”, 18 ottobre 2012

mercoledì 17 ottobre 2012

Il mondo per perseguitarci ha un ottimo spunto da noi, nella nostra vita

 Il mondo per perseguitarci ha un ottimo 
spunto da noi, nella nostra vita
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«“Il mondo riderà, e voi piangerete. Il mondo vi deriderà”. È il concetto di persecuzione. Badate che il mondo per perseguitarci ha un ottimo spunto da noi, nella nostra vita. Il mondo prende scandalo da noi, e ha ragione dal punto di vista dello spunto meccanico. La persecuzione ha sempre un ottimo spunto dal nostro comportamento, perciò in questo smarrimento non abbiamo neanche la coscienza a posto. Non possiamo dire: “Sono puro, però ho paura”; “Sono peccatore”, dobbiamo dire nello smarrimento.
In questo smarrimento, ecco lo spartiacque: chi rimane fedele alla propria storia, a ciò che si è visto (“Rinnova, o Signore, la parola nella quale mi hai destato la speranza”), e chi invece, per l’impazienza della canzone di Giuda, perché la promessa non corrisponde all’urgenza come è sentita nel presente, mutua dal mondo quello che lo soddisfi e lo faccia sentire degno di vivere, mutua dal mondo il significato della sua contingenza, mutua dal mondo il significato della storia; e se trattiene l’antico, se trattiene la fede, la trattiene escatologicamente, come un punto lontano, anticipato in gesti strani (i preti in chiesa, la religione dei sacramenti). Operativamente parlando, l’energia del fatto cristiano si riduce a un: “Fa’ il bravo, interessati del mondo”, a un avvertimento di impegno, a un moralismo e basta.
Mentre, di fronte allo smarrimento, chi rimane fedele alla propria storia, avrà un più o meno lungo tempo di martirio, in cui capisce che bisognerebbe fare e non sa cosa fare, e perciò, da una parte, è deriso dal mondo, è calciato dal mondo, dall’altra, gli viene dal di dentro il dubbio sulla sua fede, perciò deve combattere di fronte a tutti, su tutti i fronti. È realmente la prova. Poco o tanto, sarà sempre così, a meno che ci ritiriamo come gattemorte attorno al campanile o nei gruppi di comunione, secondo l’immaturità di cui sopra». 
 (Luigi Giussani, Appunti da una conversazione alla “Scuola quadri” di Comunione e Liberazione, Milano, 27 febbraio 1972)

Intervista con don Luigi Giussani

«Io sono zero, Dio è tutto»

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Tutto per me si è svolto nella più assoluta normalità e solo le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva – e mi accade – davanti agli occhi


di Dino Boffo

Don Luigi Giussani in gita al faro di Portofino con i ragazzi della V ginnasio del liceo Berchet di Milano, settembre 1956
Don Luigi Giussani in gita al faro di Portofino con i ragazzi della V ginnasio del liceo Berchet di Milano, settembre 1956
Lo fissi negli occhi e ti chiedi: qual è il mistero di una vita? Di quelle semplici e di quelle importanti. Ma importanti perché? E in base a che cosa? La notorietà pubblica? Il numero di seguaci? Le opere realizzate? Il sacerdote che incontriamo è certamente famoso. Senza dubbio è destinato a entrare nella storia religiosa del Novecento. Il pensiero che migliaia di persone vorrebbero stargli dinanzi, potergli rivolgere una domanda, anche una sola, mette imbarazzo. Allunghi lo sguardo e scorgi dietro a lui una moltitudine di giovani (e meno giovani ormai), consapevoli, ed entusiasti ad oltranza. E percepisci immediatamente quello che in termini non solo tecnici viene chiamato carisma. Ne ha da vendere, quest’uomo, glielo riconoscono pure quelli che restano scettici sul suo messaggio. Ancor più oggi, vecchio e acciaccato, è un tutt’uno col suo carisma, penetrato e assorto in esso. Spontaneo viene il pensare alla corrente comunicativa che lo lega al suo Dio. Dev’essere una relazione forte e continua. Che poi è la cifra segreta di ogni “fondatore”, specie nelle stagioni di disarmo dalle strutture: attingono alla Fonte quello che è fascinoso e di rinforzo per le anime. Molti di questi movimenti più recenti sono spuntati dal tronco secolare ma giovane e fecondo della cattolicità italiana.
Non suonasse sconveniente, avresti la tentazione di dirgli: don Giussani, non sembra anche a lei di essere più del suo movimento, che il suo sguardo vada oltre, e il suo sogno trasbordi ancora? Che lei sarà certo un maestro, un concentrato dei maestri che ha avuto, ma più ancora è un testimone, nel senso letterale del termine: uno che ha visto, e per questo parla e può parlare a tutti?
Intanto don Luigi – a sua volta – ti fissa, aspettando la prima domanda. Fatalmente diversa da queste.

Ottant’anni. Don Gius, com’è la vita a quell’altezza?
LUIGI GIUSSANI: La vita a quest’altezza è fatta e comunicata per riconoscere il nome di Dio in tutte le cose, e per riconoscere lo Spirito creatore che opera in essa. Così che s’avverino le parole della poesia di Ada Negri
Mia giovinezza: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo / all’essere. Sei tu, ma un’altra sei: / […] più bella. / Ami, e non pensi essere amata: ad ogni / fiore che sboccia o frutto che rosseggia / o pargolo che nasce, al Dio dei campi / e delle stirpi rendi grazie in cuore».
Il senso del tempo che scorre veloce quanto ha inciso nell’opera che ha realizzato? In altre parole: la sua vita si è svolta nel segno dell’urgenza?
GIUSSANI: Spero che la mia vita si sia svolta secondo quel che Dio aspettava da essa. Si può dire che si sia svolta nel segno dell’urgenza perché ogni circostanza, anzi ogni istante per la mia coscienza cristiana è stato ricerca della gloria di Cristo. Il cardinale Tettamanzi, mio vescovo, entrando in Milano, ha detto: «Gli uomini e le donne del nostro tempo, anche se inconsapevolmente, ci chiedono di “parlare” loro di Cristo, anzi di farlo loro “vedere”». Proprio Gesù Cristo, la sua gloria umana nella storia, è nel mondo l’unico segno positivo di un altrimenti assurdo muoversi del tempo e dello spazio. Poiché senza il significato, direbbe Eliot, non c’è tempo. La vita è piena di nullità, di negatività e Gesù di Nazareth è la rivincita. In me questo è chiaro. Così la speranza è la certezza per cui nel presente si può respirare, nel presente si può godere.

C’è stato un momento nei primi decenni della sua vita in cui ha avuto il presentimento di quello che sarebbe scaturito dalla sua iniziativa sacerdotale? Per quanto delicato e personale, ce lo può raccontare?
GIUSSANI: Non riesco a fissare alcun momento particolarmente “istigatore”. Tutto per me si è svolto nella più assoluta normalità e solo le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva – e mi accade – davanti agli occhi. Ho visto il succedere di un popolo, in nome di Cristo, protagonista della storia.

Lei è assai amato dai suoi ragazzi. Quando parla loro, anche in assemblee vastissime, di persona o in video, non si muove una mosca. Si intuisce che per molti lei è un padre, rappresenta l’ideale. La imbarazza?
GIUSSANI: Non mi imbarazza affatto, ma mi fa pregare Dio affinché io sappia sempre dare ragioni e forza per la libertà dei giovani.

Don Giussani è tra le icone pubbliche degli ultimi decenni, eppure in pubblico non è mai apparso molto, si direbbe solo lo stretto indispensabile. Timidezza o civetteria, scelta calcolata o spontanea?
GIUSSANI: Scelta spontanea di un animo teso al vero, pur essendo ben consapevole dei miei limiti.

Dinanzi al suo nome, e quasi a prescindere dalla persona, per anni è stato quasi obbligatorio schierarsi: o decisamente a favore, o contro. Perché secondo lei?
GIUSSANI: Il favore anche ben riconosciuto non mi ha mai fatto dimenticare il prezzo del sacrificio richiesto.

Chi la sta intervistando proviene da un’esperienza ecclesiale ritenuta “opposta” a Cl. Per anni le cronache si sono riempite del conflitto Ac-Cl. Lei pensa che fosse inevitabile o ha qualche rimprovero da fare o da farsi al riguardo?
GIUSSANI: Mi pare che quanto più un gruppo di fedeli cerca di vivere la fede e di educarsi all’apostolato sotto l’influsso di analisi sincere e appassionate tanto più rischia anche di essere parziale nei suoi riferimenti, poiché ogni analisi è impossibile che sia omnicomprensiva. Ma se i rapporti sono mantenuti e svolti nella carità, come Cristo e gli apostoli hanno raccomandato, le distinzioni e le diversità riescono ad essere una collaborazione.

Perdoni l’ingenuità della domanda: che cos’è Cl per don Giussani?
GIUSSANI: È un’amicizia (l’ex rettore dell’Università di Monaco e fondatore dell’Università di Eichstatt, il professore Nikolaus Lobkowicz, ha scritto che incontrando Cl ha scoperto l’amicizia come “virtù”) che assicuri uno sforzo comune di collaborazione nella riflessione sulla fede e nel tentativo di rendere espressione comune la volontà di testimoniare Cristo come ispiratore di pace e di aiuto vicendevole. E nella lettera che mi ha inviato per il ventennale della Fraternità di Cl, Giovanni Paolo II ha scritto che «il movimento ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale» dell’uomo di oggi. E ha aggiunto: «La strada è Cristo… Comunione e liberazione, più che ad offrire cose nuove, mira a far riscoprire la Tradizione e la storia della Chiesa, per riesprimerla in modi capaci di parlare e di interpellare gli uomini del nostro tempo». Esistiamo solo per questo.

Prete, educatore e leader. Non lo neghi: lei è stato ed è un capo a tutto tondo. Qual è la gioia maggiore, ma anche la maggior fatica, nel guidare un popolo di giovani ed ex-giovani?
GIUSSANI: Nel guidare un popolo la gioia maggiore e insieme la fatica maggiore stanno nel chiedere sinceramente e continuamente a Dio, e quindi allo Spirito e alla Madonna, luce per la propria intelligenza e fuoco ardente per la propria carità di fronte a tutti i problemi che scaturiscono nel cuore di ogni uomo davanti agli avvenimenti che il Mistero di Dio permette, problemi che si impongono al cuore e al lavoro di ognuno nel luogo in cui ci si incontra.

Il seme di Comunione e liberazione è ormai sparso in tutti i continenti. Quali criteri indica perché la diffusione avvenga nella fedeltà al disegno originale?
GIUSSANI: La diffusione dei criteri teorici e pratici in tutto il mondo è un dono da chiedere continuamente a Cristo e perciò deve avvenire come oggetto della preghiera al Mistero del Padre, come Cristo ci ha insegnato: nella coerente ricerca dei principi della fede e della carità, nell’obbedienza umile ai pastori del gregge, cioè i vescovi. L’obbedienza all’autorità della Chiesa – innanzitutto al papa, argine stabilito per la sicurezza della nostra fede cattolica – costituisce l’originale e perfetto criterio. In un tale atteggiamento gli anni che passano confermano (cioè motivano la conferma di una promessa compiuta).

Faccio l’indiscreto. Come prega don Giussani? E quale invocazione più frequentemente sale dal suo cuore durante la giornata?
GIUSSANI: La mia preghiera è la liturgia e la continuata ripetizione di una formula:
Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam. Vieni Santo Spirito, vieni per Maria, renditi presente attraverso il ventre, la carne della Madonna. Questa antica giaculatoria è sintesi di tutta la Tradizione e segna il metodo di Dio per farsi conoscere dagli uomini: l’Incarnazione. Tutto il cristianesimo è lì. Nell’inno suo alla Vergine, Dante parla del “caldo” del ventre della Madonna: pensare che di lì si grida il Mistero è veramente la cosa più misteriosa, e solo nell’esperienza di una comunione vissuta si può cominciare a capire qualcosa di questo mistero di Dio. Per cui la preghiera è il gesto più ragionevole che l’uomo ingaggiato nella quotidiana lotta per la vita possa compiere: è l’alfa e l’omega di tutto. Io non ho fatto niente, sono uno zero. L’Infinito fa tutto, e da noi non si farebbe niente se non si fosse donato.
A ottant’anni è inevitabile forse pensare alla successione. Posso sapere cosa si attende da chi raccoglierà il suo testimone?
GIUSSANI: Mi attendo dalla misericordia di Dio e della Madonna un capo che risponda coerentemente ai contenuti delle ultime domande.

(Da Avvenire, domenica 13 ottobre 2002)