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giovedì 28 febbraio 2013

baudelaire

 
 ***

«Quasi tutta la nostra vita è spesa in curiosità sciocche.
 In cambio ci son cose che dovrebbero eccitare al più alto grado la curiosità degli uomini e che, a giudicare dal corso ordinario della loro vita, non gliene ispirano alcuna.  
Dove sono i nostri amici morti? 
Perché siamo qui? 
Veniamo da qualche parte? 
Che cos'è la libertà? 
Può accordarsi la libertà con la legge provvidenziale»?

«Nulla esiste senza scopo: dunque questa esistenza ha uno scopo. 
Quale scopo? Lo ignoro. Dunque non l'ho stabilito io.
 Ma qualcuno più sapiente di me. 
Bisogna dunque pregare questo qualcuno d'illuminarci.
 E' il partito più saggio»?

 Baudelaire da: Diari intimi

esortazione del Papa ai giovani


 
"State uniti, ma non rinchiusi. 

Siate umili, ma non pavidi. 
Siate semplici, ma non ingenui. 
Siate pensosi, ma non complicati. 
Entrate in dialogo con tutti, ma siate voi stessi".

(Papa Benedetto XVI, Incontro con i giovani in piazza Matteotti, Genova, 18 maggio 2008)

mercoledì 27 febbraio 2013

La vera fede

 La vera fede
***
"Mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore. 
Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!"
Papa Benedetto XVI Ultima udienza 27/02/1
 
"Con questo gesto, tanto imponente quanto imprevisto, il Papa ci testimonia una tale pienezza nel rapporto con Cristo da sorprenderci per una mossa di libertà senza precedenti, che privilegia innanzitutto il bene della Chiesa"
 ( Don Carron )

martedì 26 febbraio 2013

Chiara Amirante




IL VERO VOLTO DELLA CHIESA NEL SORRISO DI   UNA      RAGAZZA. CHIARA E IL CONCLAVE
***


I mass media continuano a non capire la Chiesa, anche alla vigilia del prossimo Conclave. Per comprenderne il mistero bisognerebbe – per esempio - leggere un libro straordinario, “Solo l’amore resta” (Piemme), dove Chiara Amirante – 45 anni circa - racconta la sua storia.
I giornali quasi non sanno chi sia Chiara, ma lo sanno benissimo migliaia di persone che per l’incontro con lei sono usciti dal buio e si sono convertiti (a me ricorda un po’ santa Caterina, un po’ Madre Teresa, ma lei respingerebbe con un sorriso e una battuta ironica il paragone).
Anche il Papa conosce bene Chiara (l’ha nominata consultrice del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione) e così pure molti importanti cardinali che la stimano davvero (il cardinale Ruini, da Vicario di Roma, ha aiutato e sostenuto la sua opera fin dall’inizio, quando lei era giovanissima).
Invece i media no. Non capiscono cosa è la Chiesa, sebbene Benedetto XVI non si stanchi di indicare la presenza viva e misteriosa di Gesù Cristo. Ratzinger fin da cardinale continuava ad affermare che la Chiesa è “semper reformanda” (deve essere sempre rinnovata), ma sottolineando che è sempre stata rinnovata non dai riformatori (che hanno fatto disastri), ma dai santi.


LA STORIA INSEGNA

I media non lo capiscono. Se fossero esistiti – per esempio – nel XVI secolo, tv, internet e giornali avrebbero raccontato solo trame, corruttele, nepotismi, prostitute e altre cose simili. E avrebbero diagnosticato che la Chiesa stava morendo. Intervistando ogni giorno Lutero.
In effetti nessuna istituzione umana sarebbe mai sopravvissuta a tanta “sporcizia”.
Invece la Chiesa uscì da quel secolo con una rinnovata giovinezza, con uno slancio e una bellezza travolgente e attraversa i secoli. Perché non è una istituzione umana, ma letteralmente una “cosa dell’altro mondo”.
Per capirlo i media nel XVI secolo avrebbero dovuto spostare i riflettori su una quantità immensa di santi che, proprio in quegli anni, il Signore fece sgorgare nel giardino della sua Chiesa.
Ne cito solo alcuni (ma ognuno di loro è stato un poema e un ciclone): Carlo Borromeo, Filippo Neri, Francesco di Paola, Luigi Gonzaga, Francesco Saverio, Ignazio di Loyola, Giovanni della Croce, Giovanni d’Avila, Teresa d’Avila, Tommaso Moro, Juan Diego, John Fisher, Paolo Miki, Caterina de’ Ricci, Pietro Canisio, Stanislao Kostka, Edmund Campion.
Per questo dico che oggi – per capire qualcosa del futuro della Chiesa – bisognerebbe andare a cercare e a raccontare storie come quella di Chiara Amirante.
Il suo libro è un abisso di luce. Eppure racconta, con una prosa semplice, una storia dei nostri anni, di una ragazza che è ancora oggi una giovane donna, del tutto normale.

CHIARA

Un flash della sua storia. E’ una notte d’inverno del 1991, verso le tre. Una graziosa venticinquenne in motorino, a Roma, parte dalla stazione Termini e percorre un viale verso l’Appia quando viene avvicinata da un furgone che le taglia la strada per farla fermare.
Le intenzioni dell’omaccione non lasciano dubbi e vengono dichiarate alla giovane dal finestrino. Lei, che è – come avrete capito – Chiara, accelera, scappa, cerca di darsi coraggio cantando, dice a se stessa (“ma no, non sono sola, il Signore è con me”).
Poi, alla fine, lo guarda negli occhi e gli dice: “hai trovato la persona sbagliata, perché io ho consacrato la mia vita a Dio”.

Sembrò che il tipaccio avesse avuto una mazzata in testa. Infatti si ferma più avanti con le mani alzate e – quasi intimorito – le dice: “Perdonami. Ma davvero tu hai consacrato la tua vita a Dio? Come è possibile? Una bella ragazza come te… Non ci posso davvero credere”.
Ancor più sconvolto sarebbe stato se avesse saputo da dove veniva Chiara. Perché, così indifesa, o meglio, difesa dagli angeli, stava andando ogni notte nei sottopassaggi della stazione Termini che, in quegli anni, erano davvero gironi infernali, pericolosissimi per chiunque (tanto più per una ragazza sola).

Ma come e perché Chiara si era lanciata in quell’avventura? Lo racconta nel suo libro e tutto sembra semplice e normale, ma in realtà i fatti che mette in fila sono sconvolgenti. Provo a enuclearli alla meglio.

COME DIO CHIAMA

Chiara cresce in una famiglia che vive nel movimento dei Focolari di Chiara Lubich. Fin dall’inizio attorno a lei – anche all’università di Roma – si raccolgono tanti giovani. Poco più che ventenne contrae una malattia gravissima agli occhi – l’uveite – che, oltre a dolori tremendi per quattro anni, secondo la diagnosi di tutti gli specialisti, la porterà presto alla cecità totale.
Nonostante questa prova tremenda il cammino spirituale di Chiara si approfondisce. E perfino la sua gioia. Il suo sobrio racconto fa intuire esperienze che – più che sogni – hanno tutto l’aspetto di esperienze soprannaturali.
Così, mentre matura in lei la vocazione ad andare da sola a cercare gli ultimi, i più derelitti e disperati (e il “popolo della notte” della Stazione Termini è il luogo che ha nel cuore), d’improvviso – dopo un pellegrinaggio al santuario del Divino Amore – le viene donata una guarigione improvvisa, totale e del tutto inspiegabile per i medici.
Una guarigione che lei in fondo non aveva neanche chiesto, ma che interpreta come un segno: deve intraprendere subito la sua strada. E così diventa l’angelo degli inferni metropolitani.
Si aggira col suo sorriso in luoghi pericolosissimi e sempre si sente protetta. Finché decide lei stessa di andare a vivere con questa povera gente, tra tossicodipendenti, malati di Aids, ragazze prostitute, derelitti al limite del suicidio, ex carcerati, gente che aveva frequentato sette sataniste, con tutte le conseguenze…
I fatti che accadono attorno a Chiara sono sconvolgenti. Veramente si rende visibile la potenza dello Spirito Santo.
Sono pagine tutte le leggere. Ma Chiara è chiamata ad andare avanti in quel cammino.

NUOVI ORIZZONTI

Medjugorje è un altro dei suoi luoghi del cuore. E lì s’illuminano i nuovi passi di Chiara. Nasce “Nuovi orizzonti”, l’ideale di una comunità dove si vive con semplicità e integralità il Vangelo.
C’è la freschezza di ogni inizio, in tutti i tempi, dai primi amici di Gesù a Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola…. C’è l’abbandono totale al Signore e la scelta radicale, da parte di Chiara e dei suoi amici, dei voti di povertà, castità, obbedienza e – in seguito – di gioia.
Questo è solo l’inizio dell’avventura di Chiara, ma è nell’origine che si coglie davvero l’essenza di qualunque cosa. Oggi mettere in file i numeri di ciò che è nato da Chiara fa impressione: 174 centri di accoglienza e di formazione, 152 Equipe di servizio, 5 Cittadelle Cielo in costruzione in diversi continenti, più di 250 mila “Cavalieri della luce” che – come dice Chiara – sono impegnati a portare dovunque, nel mondo, “la rivoluzione dell’amore”.
Ma tutto questo – che forse è quello che più interesserebbe i media – in realtà è solo un sovrappiù rispetto all’essenziale. Che è l’intima unione spirituale di Chiara con Gesù, la sua toccante umanità, la sua semplicità, la sua gioia contagiosa (pur dentro sofferenze fisiche tuttora molto pesanti).
I “segni” che accadono attorno a Chiara poi fanno sperimentare davvero la vicinanza del Signore.
Quella “Chiesa gerarchica” che oggi spesso viene messa sulla graticola dai media fin dall’inizio ha accolto Chiara come una figlia amatissima e ha riconosciuto e valorizzato il suo carisma.
Oggi incontrando Chiara, leggendo la sua storia, guardando il suo volto e i tanti giovani che accanto a lei hanno trovato il senso della vita, viene da concludere che i media non raccontano cosa è davvero la Chiesa. Non la capiscono. Forse non la vogliono capire.
Già i primi apologeti cristiani, durante le persecuzioni, dicevano: “i cristiani chiedono solo questo, di essere conosciuti prima di essere condannati”. Anche oggi sembra che non si conoscano i cristiani. Che sono “una cosa dell’altro mondo” in questo mondo.


Antonio Socci
Da “Libero”, 26 febbraio 2013
www.antoniosocci.com

domenica 24 febbraio 2013

Sordi fede

Sordi: 

Verdone, ogni mattina coglieva una rosa per la Madonna

***

Sordi Verdone  ogni mattina coglieva una rosa per la Madonna 

(AGI) - CdV, 23 feb. - La grande fede di Alberto Sordi e in particolare la sua devozione alla Vergine sono rievocate sull'Osservatore Romano dal regista e attore Carlo Verdone, da molti considerato l'erede del grande artista romano. "La mattina - ricorda Verdone citando la sorella di Sordi - prima di recarsi al lavoro, il grande attore si faceva cogliere dal giardiniere una rosa. La prendeva e si recava in un angolo di un vialetto dove era collocata una nicchia che custodiva una Madonnina. Lanciava verso di Lei la rosa, recitava una breve orazione e andava a lavorare". "Questo omaggio - spiega Verdone - lo faceva ogni giorno e nulla glielo poteva far dimenticare. Ma il perche' di questa sua devozione ci e' apparso chiaro dopo aver appreso una storia di Alberto piccolo.
  Stava giocando con le sorelle per San Cosimato, in Trastevere, quando preso da un raptus si mise a correre. Una macchina - racconta Verdone - lo sfioro' per pochi centimetri e si salvo' per miracolo. La reazione della mamma fu immediata: col fiatone lo porto' a Santa Maria in Trastevere e lo mise sull'altare sotto l'immagine di una Madonna. Glielo consacro', in poche parole, per averlo miracolato da una morte quasi certa. Questo episodio sicuramente resto' molto vivo in casa Sordi, tanto da farlo accostare sempre piu' alla fede".

le foibe Cristicchi

Testo Magazzino 18

                           ***

Siamo partiti in un giorno di pioggia
cacciati via dalla nostra terra
che un tempo si chiamava Italia
e uscì sconfitta dalla guerra

Hanno scambiato le nostre radici

con un futuro di scarpe strette
e mi ricordo faceva freddo
l'inverno del '47

E per le strade un canto di morte

come di mille martelli impazziti
le nostre vite imballate alla meglio
i nostri cuori ammutoliti

Siamo saliti sulla nave bianca

come l'inizio di un'avventura
con una goccia di speranza
dicevi "non aver paura"


E mi ricordo di un uomo gigante

della sua immensa tenerezza
capace di sbriciolare montagne
a lui bastava una carezza

Ma la sua forza, la forza di un padre

giorno per giorno si consumava
fermo davanti alla finestra
fissava un punto nel vuoto diceva

Ahhah

come si fa
a morire di malinconia
per una terra che non è più mia

Ahhah

che male fa
aver lasciato il mio cuore
dall'altra parte del mare


Sono venuto a cercare mio padre

in una specie di cimitero
tra masserizie abbandonate
e mille facce in bianco e nero

Tracce di gente spazzata via

da un uragano del destino
quel che rimane di un esodo
ora riposa in questo magazzino

E siamo scesi dalla nave bianca

i bambini, le donne e gli anziani
ci chiamavano fascisti
eravamo solo italiani

Italiani dimenticati

in qualche angolo della memoria
come una pagina strappata
dal grande libro della storia

Ahhah

come si fa
a morire di malinconia
per una vita che non è più mia

Ahhah

che male fa
se ancora cerco il mio cuore
dall'altra parte del mare

Quando domani in viaggio

arriverai sul mio paese
carezzami ti prego il campanile
la chiesa, la mia casetta

Fermati un momentino, soltanto un momento

sopra le tombe del vecchio cimitero
e digli ai morti, digli ti prego
che non dimentighemo

Giovanni Lindo Ferretti sul Papa

Giovanni Lindo Ferretti sul Papa 

 *** 

ATEISMO VOLTAIRE



Gli atei sono per lo piú uomini di scienza coraggiosi, ma sviati nei loro ragionamenti, i quali non potendo comprendere la creazione, l’origine del male e altre difficoltà, ricorrono alla ipotesi dell’eternità delle cose e della necessità.
Gli ambiziosi, gli uomini dediti ai piaceri non hanno gran che tempo per ragionare e quindi non rischiano di abbracciare sistemi errati; essi hanno altro da fare che mettere a confronto le opinioni di Lucrezio con quelle di Socrate. Cosí vanno le cose da noi…
Certo non vorrei aver a che fare con un principe ateo perché, nel caso si mettesse in mente d’avere interesse a farmi pestare in un mortaio, son ben certo che lo farebbe senza esitazione. Nemmeno vorrei, se fossi un sovrano, avere a che fare con cortigiani atei, che potrebbero aver interesse ad avvelenarmi…
Quale conclusione trarremo da tutto ciò? Che se l’ateismo è estremamente pericoloso in quelli che governano, lo è pure negli uomini di studio, per quanto la loro vita possa essere pura, perché le loro idee possono uscire dal chiuso delle biblioteche e raggiungere le piazze; che l’ateismo infine anche se non è cosí funesto quanto il fanatismo, è quasi sempre fatale alla virtú. Va notato soprattutto che il numero degli atei è minore oggi che in qualsiasi altro tempo, da quando cioè i filosofi hanno riconosciuto che non esiste alcun essere vegetante senza germe, alcun germe senza struttura, ecc…
Geometri non filosofi hanno potuto rigettare le cause finali, ma i veri filosofi le ammettono; e, come ha detto un noto autore, il catechismo annuncia Dio ai fanciulli e Newton lo dimostra ai sapienti.
Se esistono atei, a chi farne colpa se non ai grandi mercenari delle anime, che, provocando in noi la rivolta contro i loro meschini espedienti, costringono qualche spirito debole a negare quel Dio che tali mostri disonorano? Quante volte le sanguisughe del popolo, esasperando i cittadini angariati, non li hanno costretti a ribellarsi contro il loro re?

VOLTAIRE Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIV, pagg. 533-534

sabato 23 febbraio 2013

Benigni su Gesù

CRITICA AL POSITIVISMO

CRITICA  AL POSITIVISMO
***


 
Quanto a me, ritenendo sinonimi le parole progresso ed invenzione, mi chiedo in nome di quale nuova scoperta, filosofica o scientifica, si possano estirpare dall'animo umano queste grandi preoccupazioni. Mi sembrano di essenza eterna, perche il mistero che avvolge l'Universo e di cui esse sono emanazione e esso stesso eterno per natura. Si narra che l'illustre fisico inglese Faraday, nelle lezioni che faceva all'Istituzione reale di Londra, non pronunciasse mai il nome di Dio, sebbene fosse profondamente religiose.
Un giorno, eccezionalmente, questo nome gli sfuggì e improvvisamente si manifesto un movimento di simpatica approvazione. Accorgendosene, Faraday interruppe la lezione con queste parole:
«Vi ho sorpreso pronunciando qui il nome di Dio. Se ciò non mi è ancora accaduto, dipende dal fatto che io sono. mentre tengo queste lezioni, un rappresentante della scienza sperimentale. Ma la nozione e il rispetto di Dio arrivano al mio spirito attraverso vie tanto sicure quanto quelle che ci conducono alle verità dell'ordine fisico».
La scienza sperimentale è essenzialmente positivista nel senso che nelle sue concezioni. essa non fa mai intervenire la considerazione dell'essenza delle cose, dell'origine del mondo e del suo destino Non ne ha nessun bisogno. Essa sa che non avrebbe nulla da imparare da nessuna speculazione metafisica. Tuttavia non si priva dell'ipotesi. Al contrario, nessuno più dello sperimentatore ne fa uso; ma è soltanto a titolo di guida e di stimolo per la ricerca e sotto la riserva di un controllo severo. Esso disdegna e respinge le sue idee preconcette, dal momento che la sperimentazione gli dimostra che esse non corrispondono a realtà oggettive.
Littré e Auguste Comte credevano e fecero credere agli spiriti superfidali che il loro sistema si basava sugli stessi princìpi del metodo scientifico di cut Archimede, Galileo, Pascal, Newton, Lavoisier sono i veri fondatori. Da ciò nata l'illusione degli spiriti, favorita anche da tutto ciò che la scienza e la buona fede di Littré garantivano.
A quali errori può portare questa pretesa entità dei due metodi!
Arago aveva detto di Comte: «Non ha titoli matematici, né grandi né piccoli». « È vero, risponde Littré, Comte non ha scoperte geometriche, ma ha scoperte sociologiche». Ahimè, ecco un esempio di scoperta sociologica. Il 10 novembre 1850 Littré scrisse nel «National» un articolo intitolato Pace occidentale, articolo destinato a provare che la sociologia era una scienza. Ci sono due modi, dice di provare la verità di una dottrina: da una parte l'iniziazione diretta il lavoro. lo studio; dall'altra le previsioni dedotte dalla dottrina che convincono e colpiscono tutti gli spiriti: sapere e prevedere.
Ora avvenne che nel 1850, mentre noi godevamo i benefici della pace dal 1815, Littré scriveva: «Ma la pace è prevista da 25 anni dalla sociologia». Purtroppo l'articolo cosi continua: «Ancora oggi, la sociologia prevede la pace per tutto l'avvenire della nostra epoca, alla fine della quale una confederazione repubblicana avrà unito 'occidente e messo fine ai conflitti armati...». Littré fu ben presto disilluso. Quando nel 1878 egli fece ristampare l'articolo del 1850, vi aggiunse delle osservazioni nelle quali, con la sua abituale sincerità, esprime il dolore che prova per la sua ingenua fiducia di una volta. «Queste infelici pagine, dice, mi fanno male; vorrei avere la possibilità di cancellarle. Esse sono in perpetua contraddizione con gli avvenimenti che si sono svolti... Avevo appena affermato, trasportato dal mio puerile entusiasmo, che in Europa non ci sarebbero più state sconfitte militari e che queste, ormai, sarebbero state sostituite da disfatte politiche, quando sopravvennero la disfatta militare della Russia in Crimea, quella dell'Austria in Italia, quella dell’Austria in Germania, quella della Francia a Sedan e a Metz, e molto recentemente quella della Turchia nei Balcani».
L'opera che Littré ha pubblicato nel 1879 con il titolo Conservation, revolution et positivisme è piena degli errori che la dottrina positivista gli ha fatto commettere sia in politica che in sociologia. Perché restarne sorpresi? La politica e la sociologia sono scienze nelle quali la prova e troppo difficile a dare. Troppo alto e il numero dei fattori che concorrono alla soluzione dei problemi che esse agitano. Quando intervengono le passioni umane il campo dell’imprevisto è immenso.
Il positivismo non pecca soltanto per un errore di metodo. Nella trama, in apparenza molto serrata, dei suoi ragionamenti, si rileva una grande lacuna e sono sorpreso che l'acume di Littré non l'abbia messa in luce.
Più volte, cosi definisce il positivismo considerate dal punto di vista tragico: «chiamo positivismo tutto ciò che si fa nella società per organizzarla secondo la concezione positiva, ossia scientifica, del mondo».
Sono pronto ad accettare questa definizione, a condizione che sia regolarmente applicata; ma l'enorme e visibile lacuna del sistema consiste nel fatto che esso non tiene conto, nella concezione positiva del mondo, della più importante delle nozioni positive, quella dell’infinito. 
Al di là di questa volta stellata che cosa c'è? Nuovi cieli stellati. Sia pure! e al di là ancora? Lo spirito umano, spinto da una forza irresistibile non smetterà mai di chiedersi: che cosa c'è al di là? vuole esso fermarsi sia nel tempo, sia nello spazio? Poiché il punto dove esso si ferma è solo una grandezza finita, soltanto più grande di tutte quelle che l'hanno preceduta, non appena egli comincia ad esaminarlo ritorna la domanda implacabile senza che egli possa far tacere il grido della sua curiosità. Non serve a nulla rispondere: al di la ci sono degli spazi, dei tempi o delle grandezze senza limiti. Nessuno comprende queste parole.
Colui che proclama l'esistenza dell'infinito, e nessuno può sfuggirvi, accumula in questa affermazione più sovrannaturale di quanto non ce ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni; poiché la nozione dell'infinito ha la doppia caratteristica di imporsi e di essere insieme incomprensibile. Quando questa nozione si impadronisce dell'intelletto non c'e che da piegarsi. In questo momento di straziante angoscia, bisogna chiedere grazia alla sua ragione: tutte le molle della vita intellettuale minacciano di perdere elasticità e ci si sente vicino all'essere investiti dalla sublime follia di Pascal.
Questa nozione positiva e primordiale e tutte le sue conseguenze nella vita delle società sono gratuitamente scartate dal positivismo.
Io vedo ovunque l'inevitabile espressione della nozione dell'infinito nel mondo. Attraverso essa, il soprannaturale e in fondo a tutti i cuori. L'idea di Dio e una forma dell'idea dell'infinito. Fin tanto che il mistero dell'infinito peserà sul pensiero umano, templi saranno elevati al culto dell'infinito, sia che Dio si chiami Brahama, Allah, Jehova o Gesù. Ai piedi di questi templi vedrete uomini in ginocchio prosternati, stroncati, dal pensiero dell'infinito. La metafisica non fa che tradurre dentro di noi la nozione dominatrice dell'infinito. La concezione dell'ideale non è anche la facoltà, riflesso dell'infinito, che di fronte alla bellezza ci induce ad immaginare una bellezza superiore? La scienza ed il desiderio di comprendere non sono l'effetto dello stimolo del sapere che il mistero dell'Universo infonde nella nostra anima? Dove sono le fonti genuine della dignità umana, della libertà e della democrazia moderna, se non nella nozione dell'infinito di fronte ala quale gli uomini sono tutti uguali?
«L'umanità ha bisogno di un legame spirituale, dice Littré; in sua mancanza nella società non ci sarebbero che famiglie isolate, come delle orde e non una società vera e propria». Il legame spirituale che egli poneva in una specie di religione inferiore nell'umanità, non potrebbe essere altrove che nella nozione superiore dell'infinito e che questo legame spirituale deve essere collegato al mistero del mondo. La religione dell'umanità è una di quelle idee di evidenza superficiale e sospetta che hanno fatto dire ad uno psicologo dallo spirito eccelso: «da molto tempo penso che colui che non avesse che delle idee chiare sarebbe certamente uno sciocco. Le nozioni più preziose, aggiunge, che l'intelligenza umana nasconde sono in fondo alla scena e avvolte in una luce crepuscolare; e intorno a queste idee confuse, il cui legame ci sfugge, che girano le idee chiare per diffondersi, svilupparsi, innalzarsi. Se fossimo tagliati fuori da questo retroscena, le scienze esatte perderebbero la grandezza che traggono dai loro segreti rapporti con altre verità infinite di cui noi abbiamo soltanto il sospetto»
I greci avevano compreso la potenza misteriosa di questo sottofondo delle cose. Sono essi che ci hanno lasciato in eredità una delle parole più belle della nostra lingua, la parola entusiasmo – ’Eν δεóς -  un dio interiore.
La grandezza delle azioni umane si misura dall'ispirazione che le fa nascere. Fortunate chi porta in se un dio, un ideale di bellezza e gli obbedisce: ideale dell’arte, ideale della scienza, ideale della Patria, ideale delle virtù evangeliche. Sono queste le sorgenti vive dei grandi pensieri e delle grandi azioni. E tutte, si illuminano dei riflessi dell'infinito..
 Louis Pasteur (1822-1895): Discorso pronunciato in occasione della sua elezione a membro dell'Accademia di Francia

einstein scienza

Gesù

omosessualità,

Solzenicyn,

Regole per uscire dalla crisi

 Regole per uscire dalla crisi
                      ***                    

"Non si può arrivare alla prosperità scoraggiando l'impresa,
 non si può rafforzare il debole indebolendo il forte,
 non si può aiutare chi è piccolo abbattendo chi è grande, 
non si può aiutare il povero distruggendo il ricco,
 non si possono aumentare le paghe rovinando i datori di lavoro,
 non si può progredire serenamente spendendo più del guadagnato,
 non si può promuovere la fratellanza umana predicando l'odio di classe,
 non si può instaurare la sicurezza sociale adoperando denaro imprestato,
 non si può si può formare carattere e coraggio togliendo iniziativa e indipendenza,
 non si può aiutare continuamente la gente facendo in sua vece quello che potrebbe e dovrebbe fare da sola". (ABRAMO LINCOLN)
"Non si può arrivare alla prosperità scoraggiando l'impresa, non si può rafforzare il debole indebolendo il forte, non si può aiutare chi è piccolo abbattendo chi è grande, non si può aiutare il povero distruggendo il ricco, non si possono aumentare le paghe rovinando i datori di lavoro, non si può progredire serenamente spendendo più del guadagnato, non si può promuovere la fratellanza umana predicando l'odio di classe, non si può instaurare la sicurezza sociale adoperando denaro imprestato, non si può si può formare carattere e coraggio togliendo iniziativa e indipendenza, non si può aiutare continuamente la gente facendo in sua vece quello che potrebbe e dovrebbe fare da sola". (ABRAMO LINCOLN)

la credenza di Dio


Nel ventre di una donna incinta si trovavano due bebè. Uno di loro chiese all'altro:
- Tu credi nella vita dopo il parto?
- Certo. Qualcosa deve esserci dopo il parto. Forse siamo qui per prepararci per quello saremo più tardi.
- Sciocchezze! Non c'è una vita dopo il parto. Come sarebbe quella vita?
- Non lo so, ma sicuramente... ci sarà più luce che qua. Magari cammineremo con le nostre
gambe e ci ciberemo dalla bocca.

- Ma è assurdo! Camminare è impossibile. E mangiare dalla bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale è la via d'alimentazione... Ti dico una cosa: la vita dopo il parto è da escludere. Il cordone ombelicale è troppo corto.
- Invece io credo che debba esserci qualcosa. E forse sarà diverso da quello cui siamo abituati ad avere qui.
- Però nessuno è tornato dall'aldilà, dopo il parto. Il parto è la fine della vita. E in fin dei conti, la vita non è altro che un'angosciante esistenza nel buio che ci porta al nulla.
- Beh, io non so esattamente come sarà dopo il parto, ma sicuramente vedremmo la mamma e lei si prenderà cura di noi.
- Mamma? Tu credi nella mamma? E dove credi che sia lei ora?
- Dove? Tutta in torno a noi! E' in lei e grazie a lei che viviamo. Senza di lei tutto questo mondo non esisterebbe.
- Eppure io non ci credo! Non ho mai visto la mamma, per cui, è logico che non esista.
- Ok, ma a volte, quando siamo in silenzio, si riesce a sentirla o percepire come accarezza il nostro mondo. Sai?... Io penso che ci sia una vita reale che ci aspetta e che ora soltanto stiamo preparandoci per essa...

venerdì 22 febbraio 2013

La profezia del Cardinal Ratzinger

La profezia del Cardinal Ratzinger

***

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Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto. (Joseph Ratzinger, 1969)

Goethe,

:  
"La religione naturale, in realtà, non ha bisogno di una fede, poiché la convinzione, che dietro la natura si nasconda un grande essere creatore che ordina e guida, una tale convinzione è evidente a tutti",nella sua autobiografia
 «L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua madre è il cristianesimo». Goethe,

kant,


 La fede in un Dio e in altro mondo è talmente intessuta col mio sentimento morale, che io non ho da preoccuparmi che la prima possa mai essermi strappata, nella stessa misura in cui non corro pericolo di perdere il secondo”
  (Critic. R. Pura, 537, 2-6) 
 «Il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà»
"solo mediante la critica è possibile rescindere proprio alla radice il materialismo, il fatalismo, l'ateismo, l'incredulità dei liberi pensatori, la stravaganza e la superstizione, che possono essere universalmente dannose"

giovedì 21 febbraio 2013

Fratel Ettore sarà beato. Storia del “folle di Dio”

Fratel Ettore sarà beato. Storia del “folle di Dio” che sapeva che «amare significa non nascondere»

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La Conferenza episcopale lombarda ha dato il via libera all’avvio dell’iter per la causa di beatificazione di fratel Ettore Boschini (1928-2004), il religioso camilliano che per decenni si è preso cura dei senza fissa dimora alla Stazione Centrale di Milano. Tempi ha spesso parlato di questo singolare e vulcanico religioso (l’ultima volta al Meeting di Rimini), la cui opera è oggi portata avanti da Teresa Martino. Per conoscere meglio la figura di fratel Ettore, ripubblichiamo un nostro vecchio articolo uscito nel 2005.
Fratel Ettore
Teresa Martino, la discepola di Fratel Ettore racconta il “folle di Dio” che girava i bassifondi delle città alla ricerca dei senza tetto. «Amare significa non nascondere, perché non c’è nulla che non possa essere redento»

di Emanuele Boffi
Come tutti i santi, Fratel Ettore era matto da legare. Ma come tutti i “folli di Dio” sapeva che «amare significa non nascondere». Non celare l’imperfezione, fosse pure quella di una ragazza malata che fu splendida a vent’anni, fosse pure uno sbaglio, un errore, una maleodorante sgrammaticatura della natura. Non nascondeva in nome di un qualche insano vizio da scopofilo o per esibizione o per buoni sentimenti. Non nascondeva perché, semplicemente, non c’è nulla che non possa essere redento, nemmeno l’immondo, nemmeno l’inguardabile, nemmeno il cadaverico disperato che girovaga con la sua inutile chincaglieria per la città.

Racconta suor Teresa: «Venne una troupe televisiva e alla fine chiesero di poter riprendere qualcuno degli ospiti del rifugio, “ma di spalle”. Fratel Ettore sentenziò che quella era la maggior offesa che si potesse mai fare a uno di loro. Questa finta premura, questa finta discrezione. Perché censurarli? Cosa c’è di più splendente di un derelitto, lavato, profumato, rimesso a nuovo?».
Il 25 gennaio suor Teresa Martino, sua prima discepola e oggi alla guida della comunità, ha annunciato che «a cinque mesi esatti dalla morte, avvenuta il 20 agosto 2004, il prossimo mese di agosto verrà aperto il processo di beatificazione di Fratel Ettore Boschini». Contemporaneamente, è stato presentato uno Statuto al cardinale di Milano per diventare un’associazione privata di fedeli, con un assistente spirituale e la personalità giuridica della Chiesa.

«E anche questa è stata una sua idea», narra la religiosa. Capitò anni fa, alle quattro di notte. Suor Teresa era da dieci giorni a casa Betania a Seveso (Mi), aveva deciso di seguire quello strano camilliano dalle mani gonfie che percorreva Milano vestito solo di una lunga talare nera marchiata da un’enorme croce rossa. Quella notte, Fratel Ettore la svegliò, la portò davanti alla finestra del secondo piano della palazzina e, spiegando il braccio, le disse: «Vedi? Un giorno tu dovrai portare avanti tutto questo».
Sotto quella finestra, ricorda oggi suor Teresa, «non c’era nulla. Solo uno spiazzo polveroso. Fu la prima volta che litigammo. Gli urlai che me ne sarei andata, che era matto. Lui, per tutta risposta, mi rispose che avrei dovuto fondare un ordine religioso». Fratel Ettore era fatto così. «Non era un teologo, uno che aveva studiato. Ma era un mistico, aveva un’immediata comprensione della realtà che gli veniva da una fede rocciosa, senza incertezze, genuina e spavalda. Era questo che mi affascinava di lui. Io avevo solo la vita a posto, lui aveva tutto». Emanava un amore contagioso come una pestilenza. «Anche oggi è così, anche oggi posso dire che ne vale la pena».
Ettore Boschini nacque il 25 marzo 1928 a Roverbella (Mn) da una famiglia di agricoltori. A causa del duro lavoro giovanile soffrì per tutta la vita di violenti mal di schiena tanto che, sul letto di morte, confidò di «non ricordare, sulle due mani, giorni pieni di salute piena». Gioventù da scavezzacollo, ricca di ragazze e bestemmie, tanto che gli amici avevano inventato un gioco per lui: trenta bestemmie, trenta centesimi di premio. Poi la conversione, l’ordine dei camilliani e vent’anni di servizio presso la Casa degli Alberoni al Lido di Venezia, dove, ancora oggi, si ricorda quel curioso personaggio, «quello che portava i bambini distrofici al cinema».

Usa le mie scarpe, se non hai schifo
Fratel Ettore giunse a Milano e qui divenne “il prete dei barboni”, come lo ricordano ancora sotto il Duomo. Il primo gli fu segnalato da uno spazzino, era da giorni riverso sul marciapiede e, né le forze dell’ordine né i volontari, erano riusciti a far sollevare quel corpo pesante come un sacco di farina. Giunse Fratel Ettore ed ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a una «statua della desolazione umana». Dove tutti avevano fallito, il camilliano riuscì. Il barbone si alzò e lo seguì, «lasciando orme di escrementi sulla strada».
Non nascondere l’amore può far male. Fisicamente. Spiega suor Teresa che spesso ci si trova di fronte a persone la cui vita è piena di crepe. «Lavarli, pulirli, significa spesso far loro del male. L’urina fa attaccare i pantaloni alla pelle. Svestendoli, gli si strappa anche quella, inevitabilmente. Peggio ancora avviene a Bogotà, dove abbiamo un altro rifugio. Lì ci sono gli ultimi degli ultimi, persone la cui umanità è al livello elementare. Spesso si presentano con dei lacci legati intorno alle caviglie, perché temono di perdere i lembi di carne incancrenita. Occorre stare attenti: verrebbe voglia di togliere loro quelle stringhe, ma così li si mutilerebbe. Bisogna invece pulire e disinfettare con pazienza e poi chiamare un medico o un infermiere».

Suor Teresa e Fratel Ettore hanno lavato, ripulito, mondato migliaia di disperati in questi trent’anni. Fratel Ettore si decise a dedicare loro la vita la notte di Natale del 1977, quando si recò al dormitorio pubblico in viale Ortles a Milano con bottiglie di spumante e panettoni per festeggiare le feste con i diseredati dallo sguardo sconvolto e le gengive callose. Solo uno se ne stava in disparte. Si avvicinò e vide che aveva i piedi congelati per le scarpe marce e rotte. Non aveva nemmeno le calze. Si sfilò le proprie e le offrì a quel derelitto da bassifondi: «Mettile tu, se non hai schifo». Quella notte se ne tornò a casa con le scarpe luride del barbone, ma dal giorno dopo fu tutto per loro. Fratel Ettore ottenne due saloni sotto i binari della ferrovia. Uno era senza finestre. Vi costruì il primo dei suoi rifugi in cui dava un pasto, lavava e medicava centinaia di quei corpi in aspettativa che, ogni giorno, si rivolgevano a lui. Fece benedire i locali, su un lato pose un altare e, naturalmente, una statua della Madonna. Oggi esistono rifugi in Brianza, ad Affori, a Colle Spaccato di Bucchianico (Ch), a Grottaferrata (Roma) e a Bogotà, in Colombia.
«La carità non è assistenzialismo», dice suor Teresa. «La carità è educazione. Bisogna mettersi al livello dell’altro, non sopra, ma di fianco. E insegnare ad avere loro, per primi, rispetto per se stessi. Perché, come diceva sempre Ettore, bisogna togliere il povero dall’immondizia per farlo sedere tra i capi del regno». Non è sempre facile, a Fratel Ettore è capitato spesso di dover lottare coi suoi poveri. “Lottare”, non in senso metaforico. In molti, vedendolo con qualche occhio tumefatto, capivano subito cosa era accaduto. Ma lui non s’arrendeva, «voleva vivere in modo superlativo, voleva sempre il massimo». Per questo suo slancio è arrivato prima di tanti altri a rendersi conto di molti problemi: la prostituzione delle ragazze dell’Est, l’Aids, i clandestini, gli anziani abbandonati prima di divenire “emergenze sociali” sono stati ospiti di Fratel Ettore.
Ha dovuto combattere spesso contro i pregiudizi, spesso con le resistenze dei suoi stessi collaboratori che, a volte, faticavano a capire come potesse solo immaginare che le sue speranze si realizzassero, come solo potesse pensare che l’asse su cui gira il mondo fosse diverso da quello precostituito. «Aveva una fede incrollabile nella provvidenza e nella Madonna». Si racconta che volle fare un regalo a un camilliano in partenza per l’America del Sud. Fece costruire una statua della Vergine in marmo bianco. Era alta due metri. Tra costo di lavorazione e spedizione, spese dieci milioni di lire. Un’enormità, che non aveva, e che mandò su tutte le furie l’economo di casa: «Ma come, abbiamo un debito di cento milioni e tu ne spendi altri dieci per una statua?». Ma, racconta suor Teresa, «Fratel Ettore rispose solo che “era giusto che quei fratelli avessero una bella immagine di Maria”. Quella sera una donna sconosciuta gli regalò cento milioni». In Colombia, aveva firmato un assegno di cento milioni, che non possedeva, per far costruire il rifugio. Mentre girovagava per la città trovò un povero che teneva uno straccio sul viso. Quando lo tolse, vide che metà del volto era stato mangiato dal cancro. Tentò di farlo ricoverare in qualche ospedale. Invano. «A che serve curarlo? Ha poco da vivere». Lo pulì, gli disinfettò la pelle marcia, lo baciò. Quella sera dall’Italia lo avvisarono di aver ricevuto una donazione pari al costo del rifugio colombiano.
Suor Teresa precisa che «Fratel Ettore non mi ha influenzata, mi ha trasformata. E così ha fatto con tantissimi, tra i primi Sabatino Jefuniello, un fattorino, e Enrica Plebani, una tossicodipendente leoncavallina, divenuti i suoi primi assistenti, entrambi morti giovanissimi, entrambi in causa di beatificazione». Era difficile da non notare, Fratel Ettore. Girava per la città con la sua Uno bianca su cui aveva fatto porre una statua della Madonna di Fatima attorniata da fiori («Senza l’aiuto di Maria, – ripeteva – non avrei potuto combinare nulla») e un megafono da cui gracchiava infiniti rosari. Tanti li recitava presentandosi alle manifestazioni abortiste, o al Gay Pride («convertitevi!», urlava loro), o sul sagrato del Duomo durante la guerra dei Balcani. Una corona di rosario – semplice, di plastica bianca – era sempre presente nelle sue tasche, e spesso finiva nelle tasche altrui, a chiunque esse appartenessero. «Certe volte – racconta suor Teresa – fermava una discussione e diceva: “Preghiamo”. Si inginocchiava e incominciava a sgranare il rosario. E tu che facevi? Pregavi, che alternativa avevi?». Lo faceva anche coi tanti immigrati musulmani che incontrava. «Pregate come sapete», diceva loro. E poi intonava a squarciagola il Salve regina.

Le cambiali della Madonna
Non esistono ostacoli per una fede certa. Ai coristi della Scala in partenza per l’Urss fece recapitare delle Bibbie da portare di nascosto oltre il confine (una anche per il «fratello Michele Gorbaciov»). Una volta irruppe in una galante cena di solidarietà della borghesia milanese con un centinaio di derelitte dell’Est: «Se volete fare qualcosa di buono, assumetele come badanti. Adesso!». Il sindaco di Seveso negli anni Settanta, Francesco Rocca, si ricorda ancora di quella sera in cui il sacerdote si presentò con una pila di cambiali da firmare. «Voglio ampliare il rifugio. Ho bisogno di un garante con le banche – pausa – non vorrai forse dare un dispiacere alla Madonna?». Quello firmò, anche se aveva un mutuo da pagare, anche se erano gli anni della nube tossica dell’Icmesa, anche se pensò di essere rovinato. «Una settimana dopo, Fratel Ettore si presentò con una valigia piena di contanti». I suoi collaboratori ancora oggi si ricordano che ai barboni chiedeva digiuni nei periodi quaresimali, o di seguirlo fino a Pescopagano, in Irpinia, per aiutare i terremotati, o qualche offerta che poi inviava a Giovanni Paolo II accompagnandola con questo biglietto: «Dai poveri per i più poveri del Papa».

Oggi, guardando i “fratelli” del rifugio, suor Teresa si chiede se, dopo i noti fatti di cronaca, non verrà loro il dubbio «di essere un peso. C’è quello con la sclerosi multipla, l’altro immobilizzato. Che penseranno? Eppure finché ci sarà il rifugio ci sarà speranza». Finché ci sarà qualcuno che dirà, come Fratel Ettore, che «tutto quello che ho fatto, ho sempre cercato di farlo sulla scia del mio fondatore: per gli ultimi. Per i tordi».

LA TRISTE LEZIONE DEGLI ANNI DEL CONCILIO

GRANDI MANOVRE DEL CONCLAVE. IL PAPA TEME I MEDIA (LA TRISTE LEZIONE DEGLI ANNI DEL CONCILIO)

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16 febbraio 2013 / In News
E’ possibile che Benedetto XVI tema l’interferenza dei mass media sul prossimo Conclave? Vuol mettere in guardia la Chiesa e specialmente i cardinali dal rischio che siano questi pervasivi strumenti a influenzarli nelle scelte decisive che devono fare?
La domanda sorge considerando gli straordinari interventi che in queste ore sta ci regala Benedetto XVI quasi a voler preparare spiritualmente i porporati alla scelta migliore.
Mi riferisco in particolare alla sorprendente conversazione di giovedì scorso con i parroci romani, durante la quale ha denunciato, pur col suo stile mite, gli effetti devastanti che i media hanno prodotto al tempo del Concilio sulla Chiesa.
IL PRECEDENTE
Rileggiamo le sue parole:
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri.
E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, (…) il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa.
Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo”.
Il Papa ha pure ricordato quali erano (e sono) i caposaldi ideologici dei media:
“C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola ‘Popolo di Dio’, il potere del popolo, dei laici (…). Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire.
E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana (…).
Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio”, ha aggiunto il Pontefice “sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede.
E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via”.
Ed ecco il bilancio tragico che il Papa ha tirato:
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale”.
Naturalmente il Pontefice ha concluso proclamando il fallimento del “Concilio dei media” e ha sottolineato che “la vera forza” e il “vero rinnovamento della Chiesa” si trovano nei testi del Concilio autentico. Perciò ha incitato a non scoraggiarsi: “insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore!”
Tuttavia fa impressione quella diagnosi (“tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata”).
MAGISTERO PARALLELO
Il discorso del Papa ricorda precedenti analisi di grandi personalità cattoliche, come il cardinale De Lubac che parlava di “magistero parallelo”, a proposito di certi teologi e intellettuali.
O la famosa pagina di monsignor Luigi Maria Carli, secondo il quale al Concilio si è poi accompagnata “l’attività del cosiddetto ‘paraconcilio’, cioè di quell’ambiente di persone e di idee che, dopo aver cercato di influire sul Concilio mentre esso si svolgeva, è rimasto in piedi anche a Concilio finito, ingrandendosi e direi quasi istituzionalizzandosi.
Questo paraconcilio, con le sue vittorie e le sue sconfitte, con le sue soddisfazioni e le sue insoddisfazioni, con i suoi propositi e i suoi spropositi” concludeva Carli “è quello che anima la crisi attuale e contrappone la sua opera alla serena fruttificazione delle idee seminate dal Concilio. Il paraconcilio, pretendendo di essere l’autentica vestale dello spirito del Concilio, deve necessariamente abusare dei testi conciliari. Ma di quali mai santissime cose l’uomo non è capace di abusare?”.
E’ facile riconoscere in questo identikit l’intellettualismo  progressista che imperversa sui media. Ma rispetto alle denunce di De Lubac e Carli, il discorso di Benedetto XVI, giovedì scorso, ha sottolineato soprattutto l’azione perniciosa dei media, gli stessi che potrebbero interferire nelle scelte del prossimo Conclave.
CHI ELEGGE IL PAPA?
Benedetto XVI dunque cerca di difendere la Chiesa Cattolica dalla “chiesa catodica”. Ma come si può temere una simile “interferenza”, obietterà qualcuno, se i credenti sostengono che è lo Spirito Santo a eleggere i Successori di Pietro?
Diversamente da quanto molti pensano (e scrivono) a eleggere il Papa, per la dottrina della Chiesa, non è affatto (automaticamente) lo Spirito Santo, ma sono gli uomini, vestiti di porpora, che si trovano riuniti nella Cappella Sistina.
Papa Benedetto lo sa bene: lo Spirito Santo, che viene invocato in Conclave, dà la sua ispirazione, ma poi i prelati sono liberi di ascoltarlo o invece di far prevalere altri loro interessi. Per questo San Vincenzo di Lérins diceva che “Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”.
Poi, una volta eletto regolarmente, qualunque Papa, per la dottrina cattolica, riceve l’assistenza straordinaria dello Spirito Santo. Dio saprà scrivere diritto anche su righe storte.
Ma gli errori degli uomini di Chiesa e le resistenze all’ispirazione divina, anche nella scelta dei pontefici, provocano comunque guai immensi, tragedie e sofferenze, per la Chiesa e per il mondo.
Come appare chiaro dalla storia della Chiesa stessa e da alcuni pontificati che ben difficilmente si possono considerare “decisi” dallo Spirito Santo.
Non a caso un grande principe della Chiesa (e valentissimo teologo) come il cardinale Siri, proprio nell’omelia dei novendiali per la morte di Paolo VI, nel 1978, rivolgendosi ai cardinali elettori, che presto si sarebbero riuniti in Conclave, disse: “mi pare doveroso che io mi rivolga ai Venerati Confratelli del Sacro Collegio e ricordi loro come il compito al quale ci accingiamo non sarebbe decorosamente accolto dicendo: ‘ci pensa lo Spirito Santo!’. Ed abbandonandoci senza lavoro e senza sofferenza al primo impulso, alla irragionevole suggestione”.
Come le facili suggestioni mediatiche. Colpisce e commuove rileggere adesso quella straordinaria omelia del cardinal Ratzinger alla Messa “Pro eligendo romano pontefice” del 18 aprile 2005, la stessa in cui denunciò la “dittatura del relativismo” che è il grande dramma di oggi e che suscitò il dissenso di tanti media.
Il suo pontificato sta in queste parole:
l’amore, l’amicizia di Dio” disse Ratzinger “ci è stata data perché arrivi anche agli altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno.
L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore.
Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio”.

INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA

INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Aula Paolo VI
Giovedì, 14 febbraio 2013

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Eminenza,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!

E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

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