CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


mercoledì 30 ottobre 2013

LA TRADIZIONE

 LA TRADIZIONE
***
«Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi, quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia».
Cesare Pavese:

L'assurda illusione smascherata da Camus



PDF Stampa E-mail
L'assurda illusione smascherata da Camus



copertina CaligolaA cent'anni dalla nascita, Albert Camus, romanziere e filosofo francese, resta un autore straordinariamente attuale. Ha saputo cogliere, con impietosa lucidità, l'assurda illusione dell'uomo di saziare da sé il proprio desiderio di felicità infinita.

Romanziere e filosofo francese, autore di opere celeberrime come Lo straniero, Il mito di Sisifo, La peste, Albert Camus è il più giovane letterato a essere insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1957 a soli quarantaquattro anni. Tre anni più tardi morirà per un incidente stradale (1960). Quest’anno si celebrano i cent’anni dalla nascita (7 novembre 1913).

Ogni epoca si è sempre considerata moderna, troppo moderna per il passato. «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo» scrive Albert Camus. «La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga». Questa è la descrizione che fa  Camus negli anni Cinquanta riguardo alla sua generazione.

Oggi l’eterno mito dell’uomo di sostituirsi a Dio e di ricreare un mondo migliore, quel mito che Camus descriveva morto negli anni Cinquanta, forse perché era ancora vivo nella mente l’abominio della Seconda guerra mondiale, forse perché gli erano chiare le violenze perpetrate nel mondo dai regimi comunisti, è ritornato vivo più che mai, in mezzo ad una miriade di ideologie che sorgono proprio là dove Dio non è riconosciuto. La situazione culturale in cui si affermano queste ideologie è, in realtà, in parte simile a quella che descrive lo scrittore francese nelle opere appartenenti alla trilogia dell’assurdo, Lo straniero (1942), Caligola (rivisitato dal 1937 al 1958) e il Mito di Sisifo (1942). In particolar modo, in quest’ultima opera Camus identifica in Sisifo la situazione dell'uomo. Sisifo è stato condannato dagli dei a far risalire su un monte un macigno, ma  proprio quando sta per arrivare in cima il macigno ricade giù. Egli riprende, così, in eterno la sua fatica, senza sosta. Non c’è nulla di più assurdo che lavorare e faticare senza ottenere mai alcun esito dalle proprie azioni. Camus reinterpreta il mito considerando Sisifo addirittura felice: «Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua […]. L’uomo assurdo, quando contempla il suo tormento, fa tacere gli altri idoli […]. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».

Perché, ci chiediamo noi, Sisifo dovrebbe essere felice?
Per il suo sterile lavoro, perché è cosciente del suo destino, perché opera in maniera indefessa senza uno scopo? Potremmo più facilmente rispondere che l’assenza di una ragione per cui lavorare, faticare e alzarsi al mattino può solo rendere la vita disperata e tragica. Aveva giustamente scritto Cesbron che «tutto l’errore della vita è che l’uomo vuole essere perfetto e non santo», cioè felice. Nonostante la sua titanica fatica, Sisifo non giungerà mai neppure alla perfezione, cioè al compimento, perché la sua opera non si concluderà mai. Ecco perché, sostiene Camus, la reazione più naturale a tale condizione esistenziale è quella della rivolta, della ribellione. Sappiamo bene dove porterà di lì a pochi anni questa teorizzazione.

Non c’è, infatti, sforzo umano che possa saziare quel desiderio infinito di felicità che Camus descrive così bene nell’opera teatrale Caligola. L’opera, incentrata sui deliri di onnipotenza dell’Imperatore Caligola che resse l’Impero romano tra il 37 e il 41 d. C., fu rielaborata più volte dal 1937 al 1958. La grandezza dell’uomo autentico consiste nel non recedere dal desiderio infinito di felicità, continuando a desiderare quello che sembrerebbe impossibile, ma che anche solo una volta è stato sperimentato e, di conseguenza, è diventato possibile. Nel dialogo con l’Imperatore Caligola Elicone cerca di informarlo  sulla congiura che è stata tramata contro di lui. L’Imperatore non se ne cura e continua imperterrito a manifestare  il desiderio del suo cuore. Nell’Atto III (scene III e IV) Caligola vuole la Luna che ha già ha avuto nella vita: «Io l’ho avuta completamente. Soltanto due tre volte, è vero. Ma insomma sì, l’ho avuta. […] Io voglio soltanto la luna, Elicone. So bene in che modo morirò. Non ho ancora esaurito tutto ciò che può alimentare la  mia vita. Perciò voglio la luna […]. Se qualcuno ti portasse la luna sarebbe  tutto diverso, non è così? L’impossibile diventerebbe possibile e qualsiasi cosa cambierebbe, così d’un colpo. E perché poi Elicone non dovrebbe portarti la Luna».

Altrove, nel celeberrimo romanzo La peste, Camus descrive la vita dell’uomo nella iperbolica e paradigmatica condizione della città di Orano, dove si diffonde gradualmente il morbo mietendo morte senza che nessuna autorità voglia riconoscerlo. Il male e la distruzione devastano quelle che sembravano isole di felicità mostrando all’uomo il volto di un destino cui non ci si può contrapporre. Unica posizione umana auspicabile è quella del dottor Rieux che combatte in maniera energica non per sé, ma per tutti, fino a che il morbo non è debellato. La solidarietà appare l’unica risposta possibile all’assurdità dell’esistenza, al dolore e alla sofferenza. È una posizione che in parte richiama quella di Leopardi nella Ginestra (1836). Ma è una vittoria momentanea.

Senza un senso e un Mistero che possano dare significato a tutto, anche al male, alla sofferenza e al dolore, anche la lotta più indefessa assume i contorni di un titanico agire contro una forza più grande di noi. Così, alla fine, si assiste al trionfo dell’assurdo, perché non c’è sforzo umano che possa dare consolazione da solo di fronte alla morte.
 (pubblicata su La nuova bussola quotidiana del 17-3-2013)

L’unico modo per guarire dalla depressione è una sana compagnia

L’unico modo per guarire dalla depressione è una sana compagnia 

***

Invia per Email Stampa
maggio 13, 2012 Aldo Trento

Voglio ritornare sul tema della depressione, perché ricevo molte lettere e incontro molte persone non solo in Italia, ma ovunque vada, che soffrono di questa malattia. Le tre lettere descrivono molto bene il dramma, o la disperazione, che colpisce tante persone e sono un grido di aiuto pieno di domande. Quelle domande che mi hanno torturato per anni senza che io vedessi una possibilità di risposta. È terribile sopportare la vita quando tutto offusca la mente e i fantasmi sembrano impadronirsene provocando un effetto di panico, angustia e disperazione. Tutte le malattie sono dolorose, ma quella che ti toglie la voglia di vivere è peggiore.
Molti mi chiedono: «Come guarire? Come sopportare? Esiste la libertà anche quando uno si trova incapace di scegliere? Cosa è la libertà in questa situazione?». Non pretendo di rispondere, né di dare ricette che non esistono, come sanno bene anche gli “esperti” della mente. Voglio solo offrire alcuni punti fermi in questo cammino che sto ancora percorrendo e che per me è il cammino che porta ad abbandonarmi ogni giorno al mio dolce e tenero Gesù. Quel Tu per il quale vivo e che ha manifestato il suo volto buono, misericordioso proprio dentro una storia carica di dolore, di rabbia, di disperazione. Dal primo momento in cui mi sono trovato sdraiato nella mia stanza senza nessuna voglia di vivere, l’unica cosa che la mia libertà è riuscita a fare è stata gridare come un pazzo: «Signore non ti vedo più, non sento più la tua voce, la tua tenerezza, abbi pietà di me». In quei momenti più tragici, passando anni senza dormire, mentre schiacciavo rabbioso la testa contro il cuscino gridavo: «Signore dove sei? Perché tanto dolore? Signore non ce la faccio più, prendimi per piacere». Era un grido apparentemente inutile, assurdo, un parlare contro la parete.
Dentro questa rabbia disperata, però, non ho mai messo da parte i due Sacramenti fondamentali del cammino della conversione: la Confessione e l’Eucarestia. La Confessione settimanale o più volte alla settimana e la Messa quotidiana. Nel tempo mi sono accorto che questi due sacramenti sono stati la risposta precisa e concreta al mio grido. Non solo, ma la fedeltà alla Confessione e all’Eucarestia è stata la modalità attraverso cui Dio, in modo discreto, manifestava il Suo volto, fino a diventare familiare, determinando la mia vita quotidiana. L’esperienza del «Io sono Tu che mi fai» è stata il punto drammatico di questa paziente attesa che il Mistero manifestasse il Suo volto.
Il secondo punto essenziale che mi ha permesso e che mi permette di vivere questo dolore, che oggi definisco una grazia (oggi dopo un lungo e duro cammino, dopo una decina e mezza di anni a “mordere la pietra”), è stata la compagnia di padre Alberto.
Una compagnia nella quale la visibilità di Cristo era limpida come l’acqua che scende dalle Dolomiti. Un’amicizia che ogni mattina bussava alla porta della mia stanza quando non volevo vedere il giorno e mi chiamava cantandomi, con la sua voce priva di alcuna tonalità, una filastrocca che i suoi genitori gli cantavano la mattina quando era bambino. Ricordo ancora le parole in dialetto romagnolo: «Un bigatin, do bigatin, tri bigatin… Che buon brodo farà».
Gli intellettualoidi forse rideranno di una compagnia umana tra due sacerdoti che sono arrivati a tanto “infantilismo”. Ma la coscienza che lui aveva di Cristo gli permetteva di farsi, come direbbe san Paolo, bambino tra i bambini, debole tra i deboli. Una compagnia reale, non virtuale, una compagnia che non ha mai anteposto gli impegni di Comunione e liberazione o della parrocchia alla mia umanità distrutta. È stato un abbraccio quotidiano. Un abbraccio difficile, perché convivere con un depresso è un’impresa complicata: un giorno uno deve usare il bastone e l’altro giorno una carezza. Quante volte per risvegliarmi dall’abitudine di piangermi addosso, caratteristica del vittimismo dei nevrotici, ha perso la pazienza! Finché un giorno l’ho persa anche io. È stato un miracolo dopo anni di passività. Finalmente il mio io cominciava a reagire, ad arrabbiarsi con lui. La mia libertà, che prima era solo un grido disperato, cominciò a riconoscere in padre Alberto questo «Io sono Tu che mi fai». Vedendo come lui mi aveva trattato e come aveva donato tutti i suoi anni (10) di missionario in Paraguay per farmi compagnia, come don Giussani gli aveva chiesto, ho pazientemente preso coscienza della tenerezza con la quale il Mistero mi guardava. Senza la tenerezza di padre Alberto, senza il suo sguardo forte e dolce, come Gesù con Zaccheo, non sarebbe stato possibile il miracolo. Grazie a questa compagnia, come afferma don Giussani nel libro "Ciò che abbiamo di più caro", ho potuto nel tempo non scandalizzarmi della mia “pazzia”, ma accettarla. Grazie all’abbraccio di un uomo il cui cuore vibrava per Cristo.
Non conosco altra strada per convivere ironicamente con questa malattia che una compagnia sacramentale. Inoltre mi ha aiutato, e mi aiuta, pensare a Gesù che nel Getsemani e sulla croce è stato un esempio di come vivere la depressione e come trasformarla in grazia. Cosa ha permesso a Gesù di percorrere questo cammino drammatico? La compagnia del Padre!
La cosa interessante è stato il fatto che ha cercato la compagnia degli amici, ma loro, come succede in questi casi, “avevano sonno” o come molti ai quali chiediamo aiuto e ci rispondono che non hanno tempo o ci rimandano agli specialisti. Quanti religiosi o preti ho incontrato in questa situazione di abbandono da parte dei loro superiori che, avendo sempre molto da fare, invece di tenerli al loro fianco hanno preferito isolarli. E poi parliamo di carità sacerdotale o religiosa! I depressi prima di tutto hanno bisogno di una compagnia umana come quella di Gesù con i suoi discepoli, una compagnia quotidiana con la quale condividere tutto. Senza questa compagnia non esiste guarigione ed è impossibile percepire la depressione come una grazia.

paldo.trento@gmail.com

martedì 29 ottobre 2013

se lo chiamo verrà

se lo chiamo verrà
  ***
-Dio che non esisti ti prego che almeno su questa grande nave che mi porta via le cabine siano ... siano ben areate
 - Ma se non esiste perché lo preghi? 
- Non esiste fintantoché io non ci credo finché continuo a vivere come viviamo tutti desiderando, desiderando ma se io lo chiamo ...  
- Troppo tardi ... 
 - Per la forza terribile dell'anima mia, forse vile, trascurabile in sé, però anima nella piena portata del termine, se lo chiamo verrà. Dino Buzzati, Diario di Belluno

lunedì 28 ottobre 2013

SANTA MESSA PER LA GIORNATA DELLA FAMIGLIA, IN OCCASIONE DELL' ANNO DELLA FEDE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sagrato della Basilica Vaticana
Domenica, 27 ottobre 2013

Le Letture di questa domenica ci invitano a meditare su alcune caratteristiche fondamentali della famiglia cristiana.
1. La prima: la famiglia che prega. Il brano del Vangelo mette in evidenza due modi di pregare, uno falso – quello del fariseo – e l’altro autentico – quello del pubblicano. Il fariseo incarna un atteggiamento che non esprime il rendimento di grazie a Dio per i suoi benefici e la sua misericordia, ma piuttosto soddisfazione di sé. Il fariseo si sente giusto, si sente a posto, si pavoneggia di questo e giudica gli altri dall’alto del suo piedestallo. Il pubblicano, al contrario, non moltiplica le parole. La sua preghiera è umile, sobria, pervasa dalla consapevolezza della propria indegnità, delle proprie miserie: quest’uomo davvero si riconosce bisognoso del perdono di Dio, della misericordia di Dio.
Quella del pubblicano è la preghiera del povero, è la preghiera gradita a Dio che, come dice la prima Lettura, «arriva fino alle nubi» (Sir 35,20), mentre quella del fariseo è appesantita dalla zavorra della vanità.
Alla luce di questa Parola, vorrei chiedere a voi, care famiglie: pregate qualche volta in famiglia? Qualcuno sì, lo so. Ma tanti mi dicono: ma come si fa? Ma, si fa come il pubblicano, è chiaro: umilmente, davanti a Dio. Ognuno con umiltà si lascia guardare dal Signore e chiede la sua bontà, che venga a noi. Ma, in famiglia, come si fa? Perché sembra che la preghiera è sia una cosa personale, e poi non c’è mai un momento adatto, tranquillo, in famiglia … Sì, è vero, ma è anche questione di umiltà, di riconoscere che abbiamo bisogno di Dio, come il pubblicano! E tutte le famiglie, abbiamo bisogno di Dio: tutti, tutti! Bisogno del suo aiuto, della sua forza, della sua benedizione, della sua misericordia, del suo perdono. E ci vuole semplicità: per pregare in famiglia, ci vuole semplicità! Pregare insieme il “Padre nostro”, intorno alla tavola, non è una cosa straordinaria: è facile. E pregare insieme il Rosario, in famiglia, è molto bello, dà tanta forza! E anche pregare l’uno per l’altro: il marito per la moglie, la moglie per il marito, ambedue per i figli, i figli per i genitori, per i nonni … Pregare l’uno per l’altro. Questo è pregare in famiglia, e questo fa forte la famiglia: la preghiera.
2. La seconda Lettura ci suggerisce un altro spunto: la famiglia custodisce la fede. L’apostolo Paolo, al tramonto della sua vita, fa un bilancio fondamentale, e dice: «Ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Ma come l’ha conservata? Non in una cassaforte! Non l’ha nascosta sottoterra, come quel servo un po’ pigro. San Paolo paragona la sua vita a una battaglia e a una corsa. Ha conservato la fede perché non si è limitato a difenderla, ma l’ha annunciata, irradiata, l’ha portata lontano. Si è opposto decisamente a quanti volevano conservare, “imbalsamare” il messaggio di Cristo nei confini della Palestina. Per questo ha fatto scelte coraggiose, è andato in territori ostili, si è lasciato provocare dai lontani, da culture diverse, ha parlato francamente senza paura. San Paolo ha conservato la fede perché, come l’aveva ricevuta, l’ha donata, spingendosi nelle periferie, senza arroccarsi su posizioni difensive.
Anche qui, possiamo chiedere: in che modo noi, in famiglia, custodiamo la nostra fede? La teniamo per noi, nella nostra famiglia, come un bene privato, come un conto in banca, o sappiamo condividerla con la testimonianza, con l’accoglienza, con l’apertura agli altri? Tutti sappiamo che le famiglie, specialmente quelle giovani, sono spesso “di corsa”, molto affaccendate; ma qualche volta ci pensate che questa “corsa” può essere anche la corsa della fede? Le famiglie cristiane sono famiglie missionarie. Ma, ieri abbiamo sentito, qui in piazza, la testimonianza di famiglie missionarie. Sono missionarie anche nella vita di ogni giorno, facendo le cose di tutti i giorni, mettendo in tutto il sale e il lievito della fede! Conservare la fede in famiglia e mettere il sale e il lievito della fede nelle cose di tutti i giorni.
3. E un ultimo aspetto ricaviamo dalla Parola di Dio: la famiglia che vive la gioia. Nel Salmo responsoriale si trova questa espressione: «i poveri ascoltino e si rallegrino» (33/34,3). Tutto questo Salmo è un inno al Signore, sorgente di gioia e di pace. E qual è il motivo di questo rallegrarsi? E’ questo: il Signore è vicino, ascolta il grido degli umili e li libera dal male. Lo scriveva ancora san Paolo: «Siate sempre lieti … il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Eh … a me piacerebbe fare una domanda, oggi. Ma, ognuno la porta nel suo cuore, a casa sua, eh?, come un compito da fare. E si risponde da solo. Come va la gioia, a casa tua? Come va la gioia nella tua famiglia? Eh,date voi la risposta.
Care famiglie, voi lo sapete bene: la gioia vera che si gusta nella famiglia non è qualcosa di superficiale, non viene dalle cose, dalle circostanze favorevoli… La gioia vera viene da un’armonia profonda tra le persone, che tutti sentono nel cuore, e che ci fa sentire la bellezza di essere insieme, di sostenerci a vicenda nel cammino della vita. Ma alla base di questo sentimento di gioia profonda c’è la presenza di Dio, la presenza di Dio nella famiglia, c’è il suo amore accogliente, misericordioso, rispettoso verso tutti. E soprattutto, un amore paziente: la pazienza è una virtù di Dio e ci insegna, in famiglia, ad avere questo amore paziente, l’uno con l’altro. Avere pazienza tra di noi. Amore paziente.  Solo Dio sa creare l’armonia delle differenze. Se manca l’amore di Dio, anche la famiglia perde l’armonia, prevalgono gli individualismi, e si spegne la gioia. Invece la famiglia che vive la gioia della fede la comunica spontaneamente, è sale della terra e luce del mondo, è lievito per tutta la società.
Care famiglie, vivete sempre con fede e semplicità, come la santa Famiglia di Nazaret. La gioia e la pace del Signore siano sempre con voi!

© Copyright - Libreria Editrice Vaticana

Fa splendere il Tuo volto su noi

 Fa splendere il Tuo volto su noi
***
«Quando si è visto una volta sola lo splendore della felicità sul viso di una persona che si ama, si sa che per un uomo non ci può essere altra vocazione che suscitare questa luce sui visi che lo circondano ... e ci si strazia al pensiero dell'infelicità e della notte che gettiamo, per il solo fatto di vivere, nei cuori che incontriamo».
 Camus

sabato 26 ottobre 2013

CRISTO è LA VERITA'


CRISTO è LA VERITA'
***
 Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! Ciononostante Iddio mi manda talora degl'istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegl'istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl'istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credete che non c'è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c'è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità. Fëdor Dostoevskij in "Lettere sulla creatività"

Bellezza

Bellezza
***
Non è la bellezza che rende il volto piacevole, ma l'affetto di chi lo guarda.
  (San Giovanni Crisostomo)

venerdì 25 ottobre 2013

LA CHIESA

LA CHIESA
***
Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!
Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo!
Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza.
Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità!
Nulla ho visto al mondo di più oscurantista, più compresso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello.
Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porte della mia anima, quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure.
No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te.
E poi, dove andrei?
A costruirne un'altra?
Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo. Sono abbastanza vecchio per capire che non sono migliore degli altri. L'altro ieri un amico ha scritto una lettera ad un giornale: "Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi, non è più credibile". Mi fa pena!
O è un sentimentale che non ha esperienza, e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri.
Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra...
La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo.
Forse che la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse che la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?
Quando Paolo arrivò a Gerusalemme portando nel cuore la sua sete di universalità, forse che i discorsi di Giacomo sul prepuzio da tagliare o la debolezza di Pietro che si attardava con i ricchi di allora e che dava lo scandalo di pranzare solo con i puri, poterono dargli dei dubbi sulla veridicità della Chiesa, che Cristo aveva fondato fresca fresca, e fargli venire la voglia di andarne a fondare un'altra ad Antiochia o a Tarso?
Forse che a Santa Caterina da Siena, vedendo il Papa che faceva una sporca politica contro la sua città, poteva saltare in capo l'idea di andare sulle colline senesi, trasparenti come il cielo, e fare un'altra Chiesa più trasparente di quella di Roma cosi spessa, così piena di peccati e così politicante?
...La Chiesa ha il potere di darmi la santità ed è fatta tutta quanta, dal primo all'ultimo, di soli peccatori, e che peccatori!
Ha la fede onnipotente e invincibile di rinnovare il mistero eucaristico, ed è composta di uomini deboli che brancolano nel buio e che si battono ogni giorno contro la tentazione di perdere la fede.
Porta un messaggio di pura trasparenza ed è incarnata in una pasta sporca, come è sporco il mondo.
Parla della dolcezza dei Maestro, della sua non-violenza, e nella storia ha mandato eserciti a sbudellare infedeli e torturare eresiarchi.

Trasmette un messaggio di evangelica povertà, e non fa' che cercare denaro e alleanze con i potenti.
Coloro che sognano cose diverse da questa realtà non fanno che perdere tempo e ricominciare sempre da capo. E in più dimostrano di non aver capito l'uomo.
Perché quello è l'uomo, proprio come lo vede visibile la Chiesa, nella sua cattiveria e nello stesso tempo nel suo coraggio invincibile che la fede in Cristo gli ha dato e la carità dei Cristo gli fa vivere.
Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo Papa. Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che avere fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nella umiltà e nella coscienza della propria fragilità.
No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una roccia così debole, perché ne fonderei un'altra su una pietra ancora più debole che sono io.
...E se le minacce sono così numerose e la violenza del castigo così grande, più numerose sono le parole d'amore e più grande è la sua misericordia. Direi proprio, pensando alla Chiesa e alla mia povera anima, che Dio è più grande della nostra debolezza.
E poi cosa contano le pietre? Ciò che conta è la promessa di Cristo, ciò che conta è il cemento che unisce le pietre, che è lo Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo è capace di fare la Chiesa con delle pietre mai tagliate come siamo noi!...
E il mistero sta qui.
Questo impasto di bene e di male, di grandezza e di miseria, di santità e di peccato che è la Chiesa, in fondo sono io...
Ognuno di noi può sentire con tremore e con infinito gaudio che ciò che passa nel rapporto Dio-Chiesa è qualcosa che ci appartiene nell'intimo.
In ciascuno di noi si ripercuotono le minacce e la dolcezza con cui Dio tratta il suo popolo di Israele, la Chiesa. A Ognuno di noi Dio dice come alla Chiesa: "Io ti farò mia sposa per sempre" (Osea 2, 21), ma nello stesso tempo ci ricorda la nostra realtà: "La tua impurità è come la ruggine. Ho cercato di toglierla, fatica sprecata! E' così abbondante che non va via nemmeno col fuoco" (Ezechiele 24, 12).
Ma poi c'è ancora un'altra cosa che forse è più bella. Lo Spirito Santo, che è l'Amore, è capace di vederci santi, immacolati, belli, anche se vestiti da mascalzoni e adulteri.
Il perdono di Dio, quando ci tocca, fa diventare trasparente Zaccheo, il pubblicano, e immacolata la Maddalena, la peccatrice.
E' come se il male non avesse potuto toccare la profondità più intima dell'uomo. E' come se l'Amore avesse impedito di lasciar imputridire l'anima lontana dall'amore.
"Io ho buttato i tuoi peccati dietro le mie spalle", dice Dio a ciascuno di noi nel perdono, e continua: "Ti ho amato di amore eterno; per questo ti ho riservato la mia bontà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine Israele" (Geremia 3 1, 3-4).
Ecco, ci chiama "vergini" anche quando siamo di ritorno dall'ennesima prostituzione nel corpo, nello spirito e nel cuore.

In questo, Dio è veramente Dio, cioè l'unico capace di fare le "cose nuove".
Perché non m'importa che Lui faccia i cieli e la terra nuovi, è più necessario che faccia "nuovi" i nostri cuori.
E questo è il lavoro di Cristo.
E questo è l'ambiente divino della Chiesa...
 

(Carlo Carretto)

Il Papa: i cristiani prendano sul serio la propria fede, non vivano "all'acqua di rosa"

Il Papa: i cristiani prendano sul serio la propria fede, non vivano "all'acqua di rosa"

***

2013-10-24 Radio Vaticana
Tutti i battezzati sono chiamati a camminare sulla strada della santificazione, non si può essere “cristiani a metà cammino”. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Pontefice ha affermato che sempre nella nostra vita c’è un prima e un dopo Gesù, sottolineando che Cristo ha operato in noi “una seconda creazione” che noi dobbiamo portare avanti con il nostro modo di vivere. Il servizio di Alessandro Gisotti:
Prima e dopo Gesù. Papa Francesco ha svolto la sua omelia, prendendo spunto dal passaggio della Lettera ai Romani incentrato sul mistero della nostra redenzione. L’Apostolo Paolo, ha osservato il Papa, “cerca di spiegarci questo con la logica del prima e dopo: prima di Gesù e dopo di Gesù”. San Paolo considera il prima “spazzatura”, mentre il dopo è come una nuova creazione. E ci indica “una strada per vivere secondo questa logica del prima e dopo”:
“Siamo stati ri-fatti in Cristo! Quello che ha fatto Cristo in noi è una ri-creazione: il sangue di Cristo ci ha ri-creato. E’ una seconda creazione! Se prima tutta la nostra vita, il nostro corpo, la nostra anima, le nostre abitudini erano sulla strada del peccato, dell’iniquità, dopo questa ri-creazione dobbiamo fare lo sforzo di camminare sulla strada della giustizia, della santificazione. Utilizzate questa parola: la santità. Tutti noi siamo stati battezzati: in quel momento, i nostri genitori - noi eravamo bambini - a nome nostro, hanno fatto l’Atto di fede: ‘Credo in Gesù Cristo”, che ci ha perdonato i peccati’. Credo in Gesù Cristo!”.
Questa fede in Gesù Cristo, ha proseguito, “dobbiamo riassumerla” e “portarla avanti col nostro modo di vivere”. E ha aggiunto: “vivere da cristiano è portare avanti questa fede in Cristo, questa ri-creazione”. E con la fede, ha detto, portare avanti le opere che nascono da questa fede, “opere per la santificazione”. Dobbiamo portare avanti, ha ribadito, “la prima santificazione che tutti noi abbiamo ricevuto nel Battesimo”:
“Davvero noi siamo deboli e tante volte, tante volte, facciamo peccati, imperfezioni… E questo è sulla strada della santificazione? Sì e no! Se tu ti abitui: ‘Ho una vita un po’ così, ma io credo in Gesù Cristo, ma vivo come voglio’… Eh, no, quello non ti santifica; quello non va! E’ un controsenso! Ma se tu dici: ‘Io, sì, sono peccatore; io sono debole’ e vai sempre dal Signore e gli dici: ‘Ma, Signore, tu hai la forza, dammi la fede! Tu puoi guarirmi!’. E nel Sacramento della riconciliazione ti fai guarire, sì anche le nostre imperfezioni servono a questa strada di santificazione. Ma sempre questo è: prima e dopo”.
“Prima dell’Atto di Fede, prima dell’accettazione di Gesù Cristo che ci ha ri-creati col suo sangue – ha ripreso il Papa – eravamo sulla strada dell’ingiustizia”. Dopo, invece, “siamo sulla strada della santificazione, ma dobbiamo prenderla sul serio!” E, ha soggiunto, per prenderla sul serio, bisogna fare le opere di giustizia, opere “semplici”: “adorare Dio: Dio è il primo sempre! E poi fare ciò che Gesù ci consiglia: aiutare gli altri”. Queste opere, ha rammentato, “sono le opere che Gesù ha fatto nella sua vita: opere di giustizia, opere di ri-creazione”. “Quando noi diamo da mangiare a un affamato”, ha detto, “ri-creiamo in lui la speranza. E così con gli altri”. Se invece “accettiamo la fede e poi non la viviamo – ha avvertito - siamo cristiani soltanto a memoria”:
“Senza questa coscienza del prima e del dopo della quale ci parla Paolo, il nostro cristianesimo non serve a nessuno! E più: va sulla strada dell’ipocrisia. ‘Mi dico cristiano, ma vivo come pagano!’. Alcune volte diciamo ‘cristiani a metà cammino’, che non prendono sul serio questo. Siamo santi, giustificati, santificati per il sangue di Cristo: prendere questa santificazione e portarla avanti! E non si prende sul serio! Cristiani tiepidi: ‘Ma, sì, sì; ma, no, no’. Un po’ come dicevano le nostre mamme: ‘cristiano all’acqua di rosa, no!’. Un po’ così… Un po’ di vernice di cristiano, un po’ di vernice di catechesi… Ma dentro non c’è una vera conversione, non c’è questa convinzione di Paolo: ‘Tutto ho lasciato perdere e considero spazzatura, per guadagnare Cristo e essere trovato in Lui’”.
Questa, ha detto, “era la passione di Paolo e questa è la passione di un cristiano!” Bisogna, ha proseguito, “lasciare perdere tutto quello che ci allontana da Gesù Cristo” e “fare tutto nuovo: tutto è novità in Cristo!”. E questo, è stato l’incoraggiamento del Papa, “si può fare”. Lo ha fatto San Paolo, ma anche tanti cristiani: “non solo i santi, quelli che conosciamo; anche i santi anonimi, quelli che vivono il cristianesimo sul serio”. La domanda che, dunque, oggi possiamo farci, ha detto, è proprio se vogliamo vivere il cristianesimo sul serio, se vogliamo portare avanti questa ri-creazione. “Chiediamo a San Paolo – ha concluso Papa Francesco – che ci dia la grazia di vivere come cristiani sul serio, di credere davvero che siamo stati santificati per il sangue di Gesù Cristo”.

mercoledì 23 ottobre 2013

Il Papa ai cappellani delle carceri: non è un'utopia una giustizia dalle porte aperte Il Papa ai cappellani delle carceri: non è un'utopia una giustizia dalle porte aperte

Il Papa ai cappellani delle carceri: non è un'utopia una giustizia dalle porte aperte 

***



Dio non resta fuori dalle celle dei carcerati, ma è dentro anche Lui con loro: è quanto ha detto il Papa stamani ricevendo nell’Aula Paolo VI in Vaticano, prima dell’udienza generale, i circa 200 partecipanti al Convegno nazionale dei cappellani delle carceri Italiane promosso a Sacrofano, nei pressi di Roma, sul tema “Giustizia: pena o riconciliazione. Liberi per liberare”. Il servizio di Sergio Centofanti:RealAudioMP3

E’ un grazie caloroso quello che Papa Francesco rivolge ai cappellani che lavorano nelle carceri di tutta Italia, chiedendo loro di far arrivare il suo saluto a tutti i detenuti:

“Per favore dite che prego per loro, li ho a cuore, prego il Signore e la Madonna che possano superare positivamente questo periodo difficile della loro vita. Che non si scoraggino, non si chiudano”.

Occorre saper dire loro – afferma il Papa - che il Signore è vicino:
Ma dite con i gesti, con le parole, con il cuore che il Signore non rimane fuori, non rimane fuori dalla loro cella, non rimane fuori dalle carceri, ma è dentro, è lì. Potete dire questo: il Signore è dentro con loro; anche lui è un carcerato, ancora oggi, carcerato dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, di tante ingiustizie, perché è facile punire i più deboli, ma i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro”.

“Il suo amore paterno e materno arriva dappertutto”, ha proseguito il Papa, che prega “perché ciascuno apra il cuore a questo amore del Signore”. Quindi, ricorda che i suoi contatti con alcuni carcerati che visitava a Buenos Aires continuano. Continua a ricevere lettere da loro e li chiama per telefono:
“Qualche volta li chiamo, specialmente la domenica, faccio una chiacchierata. Poi quando finisco penso: perché lui è lì e non io che ho tanti e più motivi per stare lì? Pensare a questo mi fa bene: poiché le debolezze che abbiamo sono le stesse, perché lui è caduto e non sono caduto io? Per me questo è un mistero che mi fa pregare e mi fa avvicinare ai carcerati”.

Papa Francesco prega anche per i cappellani, per il loro ministero, “che non è facile”, ma è “molto impegnativo e molto importante” perché “esprime una delle opere di misericordia” e rende “visibile quella presenza del Signore nel carcere”:
“Voi siete segno della vicinanza di Cristo a questi fratelli che hanno bisogno di speranza. Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche di una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti. Questa non è un'utopia, si può fare. Non è facile, perché le nostre debolezze ci sono dappertutto, anche il diavolo c'è dappertutto, le tentazioni ci sono dappertutto, ma bisogna sempre provarci”.

Infine, eleva la sua preghiera alla Madonna: Lei – conclude - è la Madre di tutti i carcerati.

Papa Francesco, in questi primi mesi di Pontificato, ha ricevuto oltre 500 lettere dai detenuti italiani. I cappellani delle carceri del Paese sono 233, al servizio di circa 64.mila carcerati, senza contare le persone agli arresti domiciliari. Durante l’udienza è stata donata al Papa una borsa da viaggio fabbricata per lui dalle detenute del carcere femminile di Rebibbia.

lunedì 21 ottobre 2013

L'attaccamento ai soldi distrugge persone e famiglie, usiamo i beni che Dio ci dà per aiutare gli altri

L'attaccamento ai soldi distrugge persone e famiglie, usiamo i beni che Dio ci dà per aiutare gli altri

***

del . Pubblicato in Omelie a Casa Santa Marta
santamarta98La cupidigia, l’attaccamento ai soldi, distrugge le persone, distrugge le famiglie e i rapporti con gli altri: è quanto ha detto il Papa stamani durante la Messa a Santa Marta. L'invito non è quello di scegliere la povertà in se stessa, ma di utilizzare le ricchezze che Dio ci dà per aiutare chi ha bisogno. 
Commentando il Vangelo del giorno, in cui un uomo chiede a Gesù di intervenire per risolvere una questione di eredità con suo fratello, il Papa sviluppa il problema del nostro rapporto con i soldi:
“Questo è un problema di tutti i giorni. Quante famiglie distrutte abbiamo visto per il problema di soldi: fratello contro fratello; padre contro figlio… E’ questo il primo lavoro che fa questo atteggiamento dell’essere attaccato ai soldi, distrugge! Quando una persona è attaccata ai soldi, distrugge se stessa, distrugge la famiglia! I soldi distruggono! Fanno questo, no? Ti attaccano. I soldi servono per portare avanti tante cose buone, tanti lavori per sviluppare l’umanità, ma quando il tuo cuore è attaccato così, ti distrugge”.
Gesù racconta la parabola dell’uomo ricco, che vive per accumulare “tesori per sé” e “non si arricchisce presso Dio”. L’avvertimento di Gesù è quello di tenersi lontano da ogni cupidigia:
“E’ quello che fa male: la cupidigia nel mio rapporto con i soldi. Avere di più, avere di più, avere di più… Ti porta all’idolatria, ti distrugge il rapporto con gli altri! Non i soldi, ma l’atteggiamento, che si chiama cupidigia. Poi anche questa cupidigia ti ammala, perché ti fa pensare soltanto tutto in funzione dei soldi. Ti distrugge, ti ammala… E alla fine - questo è il più importante - la cupidigia è uno strumento dell’idolatria, perché va per la strada contraria a quella che ha fatto Dio con noi. San Paolo ci dice che Gesù Cristo, che era ricco, si è fatto povero per arricchire noi. Quella è la strada di Dio: l’umiltà, l’abbassarsi per servire. Invece la cupidigia ti porta per la strada contraria: tu, che sei un povero uomo, ti fai Dio per la vanità. E’ l’idolatria!”.
Per questo – prosegue il Papa - Gesù dice cose “tanto dure, tanto forti contro questo attaccamento al denaro. Ci dice che non si può servire due padroni: o Dio o il denaro. Ci dice di non preoccuparci, che il Signore sa di che cosa abbiamo bisogno” e ci invita “all’abbandono fiducioso verso il Padre, che fa fiorire i gigli dal campo e dà da mangiare agli uccelli”. L’uomo ricco della parabola continua a pensare solo alle ricchezze, ma Dio gli dice: “Stolto, questa notte ti sarà richiesta la tua vita!”. “Questa strada contraria alla strada di Dio – conclude il Papa - è una stoltezza, ti porta lontano dalla vita, distrugge ogni fraternità umana”:
“Il Signore ci insegna qual è il cammino: non è il cammino della povertà per la povertà. No! E’ il cammino della povertà come strumento, perché Dio sia Dio, perché Lui sia l’unico Signore! No l’idolo d’oro! E tutti i beni che abbiamo, il Signore ce li dà per fare andare avanti il mondo, andare avanti l’umanità, per aiutare, per aiutare gli altri. Rimanga oggi nel nostro cuore la Parola del Signore: ‘Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede’”.
 
(Fonte: Sergio Centofanti per Radio Vaticana del 21 ottobre 2013)

sabato 19 ottobre 2013

Lettera alla Fraternità di CL

Lettera alla Fraternità di CL

***

Dal sito ufficiale di CL
Cari amici,
venerdì 11 ottobre ho avuto la grazia di essere ricevuto in udienza privata da papa Francesco. Ho sperimentato di persona quello che da mesi vediamo ogni volta che compare in pubblico: l’estrema familiarità del suo entrare in rapporto con il singolo, anche quando si trova in mezzo a folle enormi.
Ho potuto così raccontargli il cammino che abbiamo fatto in questi anni, da quando è mancato don Giussani. Ho sottolineato che tutto il nostro tentativo è stato ed è in funzione della personalizzazione della fede, come unica condizione per poter vivere nella realtà quotidiana quella novità di vita che ci ha affascinato.
A queste parole il Papa è subito andato su quella che costituisce la sua preoccupazione fondamentale: che ogni uomo, qualsiasi sia la situazione in cui si trova, possa essere raggiunto dall’annuncio cristiano, dalla misericordia e dalla tenerezza di Cristo. Perciò ha insistito sul bisogno della testimonianza, sulla necessità cioè di andare incontro agli altri, di fronte alla tentazione di chiudersi su posizioni difensive, incapaci di rispondere all’urgenza della trasmissione della fede, osservando che non sarà la pura “restaurazione” di forme del passato che potrà rendere attuale il cristianesimo per l’uomo di oggi.
Mi ha stupito leggere questa settimana, nel discorso alla plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, alcune delle preoccupazioni del Papa che erano emerse nel dialogo avuto e che vorrei condividere con voi.
1) Innanzitutto, papa Francesco richiama tutti al fatto che «nuova evangelizzazione» significa «risvegliare nel cuore e nella mente dei nostri contemporanei la vita della fede. La fede è un dono di Dio, ma è importante che noi cristiani mostriamo di vivere in modo concreto la fede, attraverso l’amore, la concordia, la gioia, la sofferenza, perché questo suscita delle domande, come all’inizio del cammino della Chiesa: perché vivono così? Che cosa li spinge? Sono interrogativi che portano al cuore dell’evangelizzazione che è la testimonianza della fede e della carità. Ciò di cui abbiamo bisogno, specialmente in questi tempi, sono testimoni credibili che con la vita e anche con la parola rendano visibile il Vangelo, risveglino l’attrazione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio C’è bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura».
2) Quindi è passato al secondo aspetto: «L’incontro, l’andare incontro agli altri. La nuova evangelizzazione è un movimento rinnovato verso chi ha smarrito la fede e il senso profondo della vita. Questo dinamismo fa parte della grande missione di Cristo di portare la vita nel mondo, l’amore del Padre all’umanità. Il Figlio di Dio è “uscito” dalla sua condizione divina ed è venuto incontro a noi. La Chiesa è all’interno di questo movimento, ogni cristiano
è chiamato ad andare incontro agli altri, a dialogare con quelli che non la pensano come noi, con quelli che hanno un’altra fede, o che non hanno fede. Incontrare tutti, perché tutti abbiamo in comune l’essere creati a immagine e somiglianza di Dio. Possiamo andare incontro a tutti, senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza».
3) Infine ha invitato a riconoscere che «tutto questo, però, nella Chiesa non è lasciato al caso, all’improvvisazione. Esige l’impegno comune per un progetto pastorale che richiami l’essenziale e che sia ben centrato sull’essenziale, cioè su Gesù Cristo. Non serve disperdersi in tante cose secondarie o superflue, ma concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, con la sua misericordia, con il suo amore e l’amare i fratelli come Lui ci ha amato» e che «ci spinge anche a percorrere vie nuove, con coraggio, senza fossilizzarci! Ci potremmo chiedere: com’è la pastorale delle nostre diocesi e parrocchie? Rende visibile l’essenziale, cioè Gesù Cristo?».
Vi prego di accogliere come rivolta a noi − specialmente a noi che siamo nati solo per questo, come testimonia tutta la vita di don Giussani − la domanda di papa Francesco: ciascuno di noi, ogni comunità del nostro Movimento, «rende visibile l’essenziale, cioè Gesù Cristo?».
Papa Francesco mi ha confidato di avere conosciuto il Movimento a Buenos Aires agli inizi degli anni Novanta e che questa scoperta fu per lui «aria fresca». E questo lo portò a leggere spesso i testi di don Giussani, perché trovava in lui quello che serviva alla sua vita cristiana. Immaginate la commozione nel sentirmi dire queste cose da chi oggi è il Vescovo di Roma!
Il Papa ci incoraggia a vivere personalmente, nella comunione tra noi, la natura del nostro carisma, perché un movimento come il nostro è chiamato a rispondere alle urgenze di questo momento della vita della Chiesa e del mondo.
Dalla vicinanza e familiarità di papa Francesco nasce per me e per tutti noi, amici, una nuova responsabilità davanti a Dio e alla Chiesa.
Dopo avergli fornito alcuni dati sulla nostra realtà, per esempio sulla presenza in università, nella scuola e nei diversi ambienti di vita e di lavoro, sui tanti tentativi di rispondere con gesti di carità ai bisogni che intercettiamo, sulla grazia delle vocazioni tanto al sacerdozio quanto alla vita consacrata nelle sue diverse forme, ci siamo salutati, non senza prima avermi chiesto di pregare per lui.
Ovviamente, questo invito era rivolto a me e a tutto il Movimento. Per questo, vi prego di prendere sul serio la sua richiesta, nell’offerta e nella preghiera di tutti i giorni per papa Francesco, perché Dio continui a dargli la grazia necessaria per guidare la Sua Chiesa.
E per ciascuno di noi domandiamo al Signore la semplicità di cedere costantemente alla Sua voce, che ci ha raggiunto attraverso l’accento unico del nostro carissimo don Giussani e che continua a chiamarci con l’intensità di papa Francesco.
Un abbraccio a ciascuno pieno di affetto
don Julián Carrón

«Sono omosessuale e dico no ai figli in provetta per i gay. Sono omofobo?»

Francia, portavoce Manif al ministro: «Sono omosessuale e dico no ai figli in provetta per i gay. Sono omofobo?» 

***

Invia per Email Stampa
ottobre 18, 2013 Benedetta Frigerio
Lettera di Jean-Pierre Delaume-Myard al ministro della Famiglia Bertinotti: «È un diritto del bambino avere una mamma e un papà. E le donne non sono galline che fanno le uova»
HOMO PAS GAY«Io sono omosessuale e sono contro le nozze fra persone dello stesso stesso, perché è un diritto fondamentale del bambino avere un padre e una madre come gli altri». Lo ha scritto Jean-Pierre Delaume-Myard, portavoce della Manif pour tous, al ministro della Famiglia francese Dominique Bertinotti. Sono mesi che la Manif chiede di incontrare il ministro per avere risposte «su una serie di temi come la liberalizzazione della tecnica della fecondazione assistita».
«NON SIAMO OMOFOBI». Dopo il matrimonio gay, infatti, il governo di François Hollande intende aprire la fecondazione assistita alle coppie gay. I deputati socialisti hanno già annunciato che proporranno un emendamento ad hoc al disegno di legge sulla famiglia, che sarà discusso a gennaio. «Ma la signora Bertinotti non si degna di riceverci», continua Delaume-Myard, che è anche portavoce del gruppo HomoVox: «Siamo uomini e donne omosessuali e ci siamo rimasti molto male per quello che lei ha detto al Journal du Dimanche nel dicembre 2012: “Tutti i contrari” [al matrimonio gay] sentono il bisogno di dire che non hanno nulla contro gli omosessuali, ma nello stesso tempo gli rifiutano i loro stessi diritti”. E ancora: “Quando non si danno gli stessi diritti agli omosessuali e agli eterosessuali, non si tratta di omofobia?”».
taubira-bertinotti-ayraultORA TOCCA ALLA FECONDAZIONE. Delaume-Myard spiega di avere 50 anni e di convivere con un uomo dall’età di 24, ma di essere contrario al «matrimonio fra persone dello stesso sesso per via del diritto fondamentale del bambino ad avere un padre e una madre come gli altri. Signor ministro, pensa per questo che io sia un omosessuale omofobo?». Il portavoce della Manif ricorda poi quando Hollande promise che la legge Taubira avrebbe resa legale l’adozione gay, ma non si sarebbe spinta oltre: «Sulla maternità surrogata il presidente si è detto chiaramente contrario. E lei ministro vorrebbe sconfessarlo? Sa bene che ora che il matrimonio gay è stato approvato una coppia di lesbiche potrà rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e chiedere di accedere alla fecondazione assistita, ponendo fine alla discriminazione tra coppie eterosessuali e coppie gay. Ciò avrà l’effetto di istituzionalizzare la perdita del padre per i figli». Per di più, visto che anche gli omosessuali potranno richiedere la fecondazione e la maternità surrogata, «oltre alla mercificazione delle donne, trattate come galline che fanno le uova, sarà istituzionalizzata anche la privazione della madre per i figli».
«MINISTRO, CI RICEVA». Per questo motivo, a nome di centinaia di migliaia di francesi, il portavoce della Manif ha chiesto che il ministro «ci riceva» per darci precisazioni sul nuovo disegno di legge sulla famiglia. Lo scorso maggio Delaume-Myard aveva già scritto così al presidente Hollande: «Mi batto perché dopo questi mesi tutti abbiamo capito che la legge Taubira non è che l’inizio della strada che porta alla fecondazione assistita e alla maternità surrogata e perché questa legge in realtà non ha nulla a che vedere con gli omosessuali. Se fossi stato eterosessuale, mi sarei battuto comunque al fianco [della Manif], cioè dalla parte della ragione».

Holodomor, il genocidio per fame dei contadini ucraini e le morti per deportazioni nell'Unione Sovietica di Stalin

Holodomor, il genocidio per fame dei contadini ucraini e le morti per deportazioni nell'Unione Sovietica di Stalin 

***




In un articolo del 30 Novembre 2012 sul sito de The economist, è apparso un articolo dal titolo "L'Ucraina ricorda l'Holodomor" (http://www.economist.com/blogs/easternapproaches/2012/11/ukraines-tragic-history). L'Holodomor è stato il genocidio per fame causato dai progetti di Stalin che aveva deciso di esportare il grano prodotto dall'Ucraina per ottenere in cambio i soldi per ammodernare il paese ed avviarlo all'industrializzazione. Molti storici infatti concordano sul fatto che quella fu una carestia artificialmente creata (vedi ad esempio http://www.worldaffairsjournal.org/blog/alexander-j-motyl/was-holodomor-genocide).

Si tratta di un numero difficilmente quantificabile di vittime ma sicuramente enorme; le stime vanno da 3 a 10 milioni di persone morte di fame, cui andrebbero sommate tutte le vittime ucraine delle deportazioni, sicuramente si tratta di un numero di vittime molto maggiore degli ebrei morti nei campi di concentramento nazisti. Le vittime furono i cosiddetti "kulaki" disprezzati dal regime sovietico, additati come "nemici della rivoluzione", ma che erano semplicemente contadini che si opponevano alla collettivizzazione della terra imposta dal regime sovietico e che furono per questo prima additati al pubblico disprezzo, quindi deportati in massa nelle tundre gelate della Russia europea e nelle zone disabitate della Siberia (dove pare ne morirono circa 15 milioni), e poi fatti oggetto di  sorta di "soluzione finale". 
Vedi anche il video qui sotto.



La fame fu così tremenda da generare episodi di cannibalismo a volte anche nella stessa famiglia, quando a volte il membro più fragile e debilitato della famiglia veniva ucciso e cucinato per sfamare gli altri, come riporta il libro Bloodlands - Europe between Hitler and Stalin di Timothy Snyder.


Questa orribile vicenda fu passata sotto silenzio dai corrispondenti dei media che ottennero l'accreditamento al Cremlino solo in cambio del loro silenzio. L'unico che fece eccezione fu il giornalista gallese Gareth Jones che morì giovanissimo durante un viaggio in Mongolia, quasi sicuramente ucciso da agenti dei servizi segreti sovietici.



L'articolo della BBC http://www.bbc.co.uk/news/uk-wales-south-east-wales-18691109 spiega infatti come durante il suo viaggio in Mongolia egli si fosse affidato (inconsapevolmente) ad agenti della NKVD (l'antenato del KGB, il servizio segreto sovietico).
Da notare che, mentre il nuovo leader dell'Ucraina Viktor Yanukovych (come ci informa l'articolo su The Economist) ha tolto la partecipazione statale alla commemorazione dell'Holodomor, lo stato del Quebec ha indetto il giorno della memoria per le vittime di tale genocidio avvenuto nel biennio 1932-1933 (http://ukemonde.blogspot.it/2009/11/bill-390-act-to-proclaim-ukrainian.html).

E' il caso di notare che l'Unione Sovietica vendette sottocosto il grano dell'Ucraina a Gran Bretagna, Germania e Italia e che Mussolini il 2 settembre 1933 stipulò con l’Unione Sovietica un Patto di amicizia, non aggressione e neutralità. Questo per far capire che nel ricordo dell'Holodomor la colpa ricade un po' su tutti i governi dell'epoca, governi totalitari fascisti e comunisti nonché stati cosiddetti "democratici".
 

Certamente fu il governo sovietico ad emanare la legge del 7 agosto 1932, detta «delle cinque spighe», che comminava la fucilazione o la detenzione superiore ai dieci anni per chi fosse sorpreso a rubare beni appartenenti ai kolchoz (nel 1934 il primo segretario del partito ucraino Kosior scriverà a Stalin che un milione di contadini era stato condannato in conformità a questa legge) ma le corresponsabilità sono equamente distribuite, come del resto è successo in occasione di altri genocidi generalmente (e colpevolmente) dimenticati.

Circa due milioni di armeni sterminati in Turchia tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, circa due milioni di indonesiani sterminati dal dittatore Suharto (armato e sostenuto da Gran Bretagna ed USA) sul finire degli anni '60 del secolo scorso, per non parlare del mezzo milione di bambini uccisi dall'embargo imposto dall'ONU all'Iraq ed amministrato da USA e Gran Bretagna e si potrebbe continuare ancora.

Di fronte a ciò, e proprio mentre lo stato di Israele opprime gli arabi che vivono nella striscia di Gaza, entrando con l'esercito in mezzo al loro territorio, distruggendo le loro case e trattandoli di fatto da subumani, aggredendo militarmente le navi dei pacifisti che si muovono in loro soccorso a portare beni di prima necessità, assistiamo ancora annualmente ad un'ipocrita "giornata della memoria" che forse andrebbe rinominata "giornata delle memoria corta".

Come mai di fronte alle cifre enormi dei massacri sovietici non si celebra una giornata del ricordo dei morti nelle deportazioni nei gulag (i lager dell'URSS) e nell'Holodomor? Come mai di fronte ad un crimine molto più recente ed attuale non si celebra una giornata del ricordo dei morti dell'Indonesia? Come mai durante la giornata della memoria non si ricorda come le vittime di un tempo siano diventate oppressori dei palestinesi?
La risposta è molto semplice: per giustificare il progetto sionista dell'occupazione del territorio palestinese occorreva una sorta di "giustificazione". Ma da quando in qua l'avere subito un torto in tempi passati è una scusa plausibile per perpetrare simili violenze a propria volta? Lo stesso storico e scrittore ebreo Norman G. Finkelstein denuncia in un suo libro quella che egli chiama l'industria dell'olocausto, ovvero lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei.





Per approfondimento vedi anche:


http://www.homolaicus.com/teorici/stalin/kulaki.htm

http://www.coc.ilcannocchiale.it/?TAG=genocidio

venerdì 18 ottobre 2013

INIZIO DI UNA CONOSCENZA NUOVA

   INIZIO DI UNA CONOSCENZA NUOVA
                                        ***
È soltanto se una Presenza così potente invade la nostra vita che non abbiamo bisogno di mettere il braccio davanti al volto per difenderci dai colpi delle circostanze e così poter vivere. Eppure tante volte noi siamo talmente feriti dal contraccolpo delle circostanze che si blocca il cammino della conoscenza, e allora tutto diventa veramente soffocante, perché è come se vedessimo la realtà soltanto per il buco della ferita. Come Maria, che guardava la realtà attraverso il suo pianto e non vedeva più altro: neanche riconosce Gesù! Allora appare Lui, la chiama per nome, e riapre la partita, le consente di riconoscerLo, di cominciare a guardare la realtà diversamente, perché la Sua presenza è più potente di ogni ferita e di ogni pianto, e allora ci spalanca di nuovo lo sguardo per poter vedere la realtà nella sua verità. «Fu guardato e allora vide», diceva sant’Agostino di Zaccheo (Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4). Amici, come sarebbe diversa la vita se ciascuno di noi lasciasse entrare quello sguardo, qualsiasi fosse la nostra ferita!
È per questo che Giussani insiste sul fatto che Gesù è entrato nella storia per educarci a una conoscenza vera del reale, perché noi pensiamo di sapere già che cosa sia la realtà, ma senza di Lui ci assale la paura, ci blocchiamo e quindi soffochiamo nelle circostanze. Invece con Gesù tutto si riapre, è come se Lui ci dicesse: «Guardate che io sono venuto per educarvi al vero rapporto con il reale, a quell’atteggiamento giusto che vi consente uno sguardo nuovo sul reale». Se noi non facciamo esperienza di questo, lasciando entrare in continuazione il Suo sguardo, la Sua presenza, viviamo la realtà come tutti. È soltanto se Gesù entra e rende possibile la conoscenza nuova che noi possiamo introdurre nel mondo una modalità diversa di stare nella realtà. Tutte le circostanze ci vengono date per questo, per provocarci a questa conoscenza nuova, per vedere che cosa è Gesù: una Presenza che ci consente di vivere il reale in un modo diverso, nuovo. E questo ci fa scoprire che tutte le circostanze non sono una obiezione, come tante volte noi le guardiamo, perché non siamo in grado di vedere l’attrattiva che hanno dentro, tanto siamo definiti dalla ferita; le abbiamo già ridotte perché noi pensiamo già di sapere che cosa sia la circostanza, pensiamo già di sapere che non c’è niente di nuovo da scoprire dentro di essa, che c’è solo da sopportare e che ci resta solo il tentativo moralistico di vedere se siamo all’altezza di sopportare quel soffocamento.
E invece soltanto se riaccade una Presenza come quella accaduta alla Maddalena, il percorso della conoscenza non si blocca, lo sguardo si spalanca, perché noi abbiamo molto di più del «sapere» le risposte a tutte le obiezioni o a tutte le sfide, noi abbiamo «la» risposta; ma la risposta non consiste, come noi pensiamo, nell’avere le istruzioni per l’uso per vivere, perché l’istruzione per l’uso è diventata carne, è una Presenza, è il Verbo, il contenuto è una presenza, il contenuto è un Tu, il Tu che ha raggiunto Maria. Per questo se la verità è slegata, priva di questa relazione, non si capisce. Come ha scritto papa Francesco a Eugenio Scalfari: «La verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!» (Francesco, «Lettera a chi non crede», op. cit., p. 2). Come è per il bambino: il bambino sa di non sapere tante cose, ma una cosa la sa: che ci sono il papà e la mamma che le sanno, allora che problema c’è? Se io sono certo (questo è il valore della certezza di cui parlava Davide Prosperi) di questa Presenza che invade la vita, posso affrontare qualsiasi circostanza, qualsiasi ferita, qualsiasi obiezione, qualsiasi contraccolpo, qualsiasi attacco, perché tutto questo mi spalanca ad aspettare la modalità con cui il Mistero si farà vivo per suggerirmi la risposta - per accompagnarmi a entrare perfino nel buio -, che avverrà secondo un disegno che non è il mio.
Che diversità nel modo di stare nel reale quando uno ha delle domande, quando uno ha delle questioni aperte, perché è lì, quando recita le Lodi o quando fa silenzio o quando ascolta un amico o quando prende il caffè o quando legge il giornale, che è tutto teso a scoprire, a intercettare qualsiasi briciola di verità che possa venirgli incontro! Così tutto diventa interessante, perché se io non avessi la domanda, se io non avessi la ferita, se io non avessi un’apertura totale, nemmeno potrei rintracciarla, non me ne renderei neanche conto. Per questo il nostro è un «cammino umanissimo», non fatto di allucinazioni o di visioni, ma come partecipazione a una «avventura di conoscenza» che ci fa scoprire sempre di più l’attrattiva che c’è dentro qualsiasi limite, dentro qualsiasi difficoltà, perché qualsiasi obiezione o qualsiasi circostanza, pur dolorosa, ha sempre dentro qualcosa di vero, altrimenti non ci sarebbe.

CHE COSA STIAMO A FARE AL MONDO?
È da qui, da un’esperienza così del vivere che possiamo rispondere alla domanda: «Che cosa stiamo a fare al mondo?». Noi stiamo capendo sempre di più, non malgrado le circostanze, ma proprio attraversando le circostanze, quale è il nostro compito. Come è successo, tra l’altro, sempre nella vita del movimento, ce lo ricorda don Giussani, e adesso possiamo capire molto meglio quanto ci diceva nel ’76, perché il ’76 era stato l’esito di avere attraversato momenti della vita del movimento in cui era venuto a galla che cosa significasse il nostro essere nel mondo; allora diceva che ci sono due possibilità di essere presenti nel reale: come «presenza reattiva», cioè che viene fuori da una nostra reazione, o come «presenza originale», cioè che nasce da quello che ci è capitato.
«Reattiva significa determinata dai passi di ciò che non è noi: porsi [nel reale] con iniziative, utilizzare discorsi, realizzare strumenti non generati come modalità totale dalla nostra personalità nuova, ma suggeriti dall’uso di parole, dalla realizzazione di strumenti, dalla modalità di atteggiamento e di comportamento degli avversari». Siccome «giochiamo ancora sul terreno degli altri», definito dagli altri, allora «una presenza reattiva non può che cadere in due errori: o diventa una presenza reazionaria, attaccata cioè alle proprie posizioni come “forme”, senza che i contenuti [...] siano così chiari da essere resi vita [...]; oppure [è soltanto un’] imitazione degli altri». Invece, «una presenza originale [è] una presenza secondo la nostra originalità» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza. 1975-1978, Bur, Milano 2006, pp. 52, 65). Cioè, presenza è realizzare la comunione con Cristo e tra di noi. Ciò che Maria, Matteo, Zaccheo introducono nel reale è una posizione definita da quella comunione con Lui che ha generato la Sua commozione, comunicata nel dire il loro nome. E quando questo succede a ciascuno di noi, la comunione tra di noi si esprime come presenza secondo la nostra originalità.

UNA PRESENZA ORIGINALE
«Una presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza della propria identità e dall’affezione a essa, e in ciò trova la sua consistenza» (Ibidem, p. 52), perché è ciò che soddisfa veramente la vita, come ci ha detto sempre Giussani citando san Tommaso: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la più grande soddisfazione» (Summa Theologiae, IIa, IIae, q. 179, a. 1 co.). La consistenza della vita è lì dove noi troviamo la più grande soddisfazione.
Qual è, dunque, la nostra identità? «Identità è sapere chi siamo e perché esistiamo, con una dignità che ci dà il diritto a sperare dalla nostra presenza “un meglio” per la nostra vita e per la vita del mondo». E chi siamo noi? «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete immedesimati con Cristo. Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (cfr. Gal 3,26-28). Ma quello che è successo nel Battesimo, per noi si è reso storicamente e consapevolmente percepibile nell’incontro con il movimento; solo allora abbiamo capito la portata di quello che era accaduto, di quella lotta che Cristo ha cominciato con noi nel Battesimo per conquistarci, come vir pugnator. Noi abbiamo preso consapevolezza di essa quando, incontrando il movimento, siamo stati conquistati attraverso quella modalità con cui è stato detto il nostro nome. E allora abbiamo capito che cosa vuol dire san Paolo quando scrive: «Voi che siete stati afferrati, vi siete immedesimati con Cristo» (cfr. Gal 3,27).
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). «È una scelta oggettiva che non ci strappiamo più di dosso, è una penetrazione del nostro essere che non dipende da noi e che non possiamo più cancellare [questa è la nostra identità]. [...] Non esiste niente [dice don Giussani] di culturalmente più rivoluzionario di tale concezione della persona, il cui significato, la cui consistenza è una unità con Cristo, con un Altro, e, attraverso questa, una unità con tutti coloro che Egli afferra, con tutti coloro che il Padre Gli dà nelle mani» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 53-54). È questo che noi dobbiamo capire perché, lo vediamo nel piccolo della nostra vita, questa concezione della nostra persona - che è tale soltanto perché c’è Uno che ridice il nostro nome, altrimenti saremmo ancora lì a piangere per il fatto di vivere - non è un’astrazione, è un’esperienza prima che una concezione; e proprio da questo scaturisce un’autocoscienza di noi che è come quella nata in Maria, che non ha potuto più guardare a se stessa come prima, ma tutta determinata da quel «Maria!».
«La nostra identità è l’essere immedesimati con Cristo. L’immedesimazione con Cristo è la dimensione costitutiva della nostra persona. Se Cristo definisce la mia personalità, voi, che siete afferrati da Lui, entrate necessariamente nella dimensione della mia personalità. [...] [Per questo] sia che mi trovi da solo nella mia stanza, sia che ci troviamo in tre a studiare in università, in venti alla mensa [...], dovunque e comunque questa è la nostra identità. Il problema è perciò l’autocoscienza, il contenuto della coscienza di noi stessi: “Vivo, non io, sei Tu che vivi in me” [Perciò la nostra identità si manifesta in questa autocoscienza nuova]. Questo è il vero uomo nuovo nel mondo - l’uomo nuovo che fu il sogno di Che Guevara e il pretesto mentitore di rivoluzioni culturali con cui il potere ha tentato e tenta di aver in mano il popolo, per soggiogarlo secondo la propria ideologia -; e nasce innanzitutto non come coerenza, ma come autocoscienza nuova».
«La nostra identità si manifesta in un’esperienza nuova dentro di noi [nel modo di vivere qualsiasi circostanza e qualsiasi sfida del reale] e tra di noi: l’esperienza dell’affezione a Cristo e al mistero della Chiesa, che nella nostra unità trova la sua concretezza più vicina. L’identità è l’esperienza viva dell’affezione a Cristo e alla nostra unità».
«La parola “affezione” è la più grande e comprensiva di tutta la nostra espressività. Essa indica molto più un “attaccamento” che nasce dal giudizio di valore - dal riconoscimento di quello che c’è in noi e tra di noi - che una facilità sentimentale, effimera, labile come foglia in balìa del vento. E nella fedeltà al giudizio, cioè nella fedeltà alla fede, con l’età, tale attaccamento cresce, diventa più turgido, vibrante e potente».

UN FATTO DENTRO IL QUALE NAUFRAGARE
«Questa esperienza viva di Cristo e della nostra unità è il luogo della speranza, perciò della scaturigine del gusto della vita e del fiorire possibile della gioia - che non è costretta a dimenticare o a rinnegare nulla per affermarsi -; ed è il luogo del recupero di una sete di cambiamento della propria vita, del desiderio che la propria vita sia coerente, muti in forza di quello che essa è al fondo, sia più degna della Realtà che ha “addosso”».
«Dentro l’esperienza di Cristo e della nostra unità vive la passione per il cambiamento della propria vita [non della giustificazione dei nostri errori!]. Ed è il contrario del moralismo: non una legge cui essere adeguati, ma un amore cui aderire, una presenza da seguire sempre di più con tutto se stessi [mamma mia!], un fatto dentro il quale realmente naufragare [per essere avvolti tutti da questo amore senza fondo e senza limiti: «un fatto dentro il quale realmente naufragare»]. [...] Il desiderio del cambiamento di sé, pacato, equilibrato, e nello stesso tempo appassionato, diventa allora una realtà quotidiana [il desiderio di essere Suoi, di appartenerGli di più, di cercarLo in continuazione] - senza ombra di pietismo o di moralismo -, un amore alla verità del proprio essere [di ricercatore della persona amata], un desiderio bello e scomodo come una sete» (Ibidem, pp. 54-56).
Ma tutto questo deve diventare maturo, perché siamo ancora confusi, dice sempre don Giussani. Se questo inizio piccolo, embrionale, non diventa maturo, alla prima tempesta è travolto. Noi non potremo più resistere «se quell’accento iniziale non diventa maturo: non possiamo più portare da cristiani l’enorme montagna di lavoro, di responsabilità e di fatiche a cui siamo chiamati. Non si coagula, infatti, la gente con delle iniziative [non è questo che dà consistenza]; ciò che coagula è l’accento vero di una presenza, che è dato dalla Realtà che è tra noi e che abbiamo “addosso”: Cristo e il Suo mistero reso visibile nella nostra unità».
«Proseguendo nell’approfondimento dell’idea di presenza - continua don Giussani -, occorre allora ridefinire la nostra comunità. La comunità non è un coagulo di gente per realizzare iniziative [1976!], non è il tentativo di costruire una organizzazione di partito [1976!]: la comunità è il luogo della effettiva costruzione della nostra persona, cioè della maturità della fede. [Ciascuno deve decidere se seguire don Giussani o seguire le proprie idee riguardo a quello che dice Giussani]».
«Scopo della comunità è generare adulti nella fede. È di adulti nella fede che il mondo ha bisogno, non di bravi professionisti o di lavoratori competenti, perché di questi la società è piena, ma tutti sono profondamente contestabili nella loro capacità di creare umanità».
«Il metodo con cui la comunità diventa luogo di costruzione di maturità della fede per la persona è [...]: “seguire”. [...] Seguire vuol dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede, [attenzione!] coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit, tradizione) il suo dinamismo e il suo gusto dentro di noi [questo è il naufragare in un’esperienza viva, in un fatto]. Questo dinamismo e questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al termine di una logica, ma quasi per pressione osmotica [guardate!]: è un cuore nuovo che si comunica al nostro, è il cuore di un altro che incomincia a muoversi dentro la nostra vita [altro che istruzioni per l’uso o fare soltanto quello che dicono gli altri! Ma il cuore di un Altro che comincia a vibrare dentro il nostro cuore]».
«Da qui sorge l’idea fondamentale della nostra pedagogia dell’autorità: veramente autorevoli per noi sono le persone che ci coinvolgono con il loro cuore, con il loro dinamismo e con il loro gusto, nati dalla fede. Ma autorevolezza reale è allora la definizione dell’amicizia».
«L’amicizia vera è la compagnia profonda al nostro destino [...] [per questo mi viene sempre in mente l’immagine a noi così familiare di Pietro e Giovanni, con gli occhi spalancati mentre corrono al sepolcro, insieme tesi al destino. Ciascuno può fare il paragone con il concetto solito di amicizia che vive. Insieme tesi al destino. Non “non amicizia”, ma che amicizia!]. E non è questione di temperamento [...]: l’amicizia vera si sente nel cuore della parola e nel gesto della presenza» (Ibidem, pp. 57-59). È necessario che tutto entri nella vita così, «la fede come “reagente” sulla vita concreta, in modo tale che siamo condotti a vedere l’identità tra la fede e l’umano reso più vero [possiamo verificare così che, vivendo la vita nella fede del Figlio di Dio che ha dato la Sua vita per noi, tutto diventa più vero] - nella fede l’umano diventa più vero [e questo o è un’esperienza nostra sempre più vera, che si avvera sempre di più, o noi possiamo continuare a “rimanere” nel movimento e il nostro cuore essere spostato altrove, e non per cattiveria, ma semplicemente perché non ci riesce a prendere]».
«Tutto ciò deve diventare vero in noi, ed è per questo che il tempo ci è dato. La ricerca del vero è l’avventura per cui il tempo è reso storia», acquista il suo valore come tempo. Altrimenti - dice - noi soccombiamo alla «tentazione dell’utopia» cioè a riporre, a scivolare riponendo «la nostra speranza e la nostra dignità in un “progetto” generato da noi» (Ibidem, pp. 61-62).

CIÒ CHE SALVA L’UOMO
A questo punto don Giussani fa l’elenco di tutti i passi della storia del movimento e dice: «Noi non siamo entrati nella scuola cercando di formulare un progetto alternativo per la scuola [fate attenzione, adesso]. Vi siamo entrati con la coscienza di portare Ciò che salva l’uomo anche nella scuola». E lo stesso possiamo dire di tutto. Poi racconta di quando questo cominciò ad annebbiarsi nel ’63 e nel ’64 e poi nel ’68. Ma guardate cosa dice: che cosa tradirono quelli che andarono via, quelli che non furono leali, fedeli a quell’inizio originale? Che cosa tradirono? La presenza. Che cosa tradiamo noi? La presenza, se noi non siamo radicati nell’inizio. Non la «non presenza», perché possiamo riempirci la vita di cose, come loro la riempivano di iniziative. Che cosa avevano tradito? Che cosa tradiamo noi? La presenza, non l’assenza. «Il progetto aveva sostituito la presenza» (Ibidem, pp. 63-64). Adesso lo capiamo bene. Noi abbiamo visto ciò che abbiamo guadagnato assecondando certi schieramenti, ma cominciamo solo ora a renderci conto di quanto abbiamo perso, in termini di presenza, di presenza originale, della nostra originalità. Dobbiamo decidere se diventare una fazione oppure una presenza originale. Questo non vuol dire che per essere di tutti occorra non essere di nessuno. Anzi. Per essere di tutti occorre essere di Uno, perché solo Lui può darci quella soddisfazione di cui parlava Davide, che ci rende liberi per essere veramente noi stessi, per essere una presenza originale e non reattiva.
Che cosa stiamo a fare al mondo? «La novità è la presenza [prosegue don Giussani] come consapevolezza di portare “addosso” qualcosa di definitivo - un giudizio definitivo sul mondo, la verità del mondo e dell’umano -, che si esprime nella nostra unità. La novità è la presenza come consapevolezza che la nostra unità è lo strumento per la rinascita e per la liberazione del mondo» (Ibidem, p. 65). Non possiamo sostituire questo con qualsiasi immagine o progetto che abbiamo in testa noi. Come ha scritto il cardinale Scola nella sua ultima Lettera pastorale: «Non si tratta di un progetto, tanto meno di un calcolo. Pieni di gratitudine i cristiani intendono “restituire” il dono che immeritatamente hanno ricevuto e che, pertanto, chiede di essere comunicato con la stessa gratuità» (A. Scola, Il campo è il mondo, Lettera pastorale, Centro Ambrosiano, Milano 2013, p. 40).
Perché ci viene la tentazione di sostituire la fede con un progetto? Perché pensiamo che la fede, la comunità cristiana come presenza, non sia abbastanza incidente, non sia in grado di cambiare la realtà e per questo crediamo di dover aggiungere noi qualcosa, non come espressività di quello che noi siamo - è inevitabile che ci si esprima -, ma come aggiunta perché mancherebbe qualcosa alla fede per essere concreta, come se a Gesù mancasse qualcosa e dovesse aggiungere qualcosa d’altro alla testimonianza di Sé; lo hanno pensato tutti coloro che credevano che il cristianesimo vissuto nella tradizione non bastasse per essere presenti, e noi pensiamo che il movimento a volte non basti. Perciò questa è un’occasione preziosa per approfondire la questione: che cosa siamo? Che cosa stiamo a fare al mondo?
«La novità - dice sempre don Giussani - è la presenza di questo avvenimento di affezione nuova e di nuova umanità, è la presenza di questo inizio del mondo nuovo che noi siamo. La novità non è l’avanguardia, ma il Resto d’Israele, l’unità di coloro per i quali ciò che è accaduto è tutto [non un pezzo a cui occorre aggiungere qualcosa d’altro; ciò che è accaduto è tutto!] e che aspettano solo il manifestarsi della promessa, il realizzarsi di quello che è dentro l’accaduto. La novità non è, dunque, un futuro da perseguire, non è un progetto culturale, sociale e politico: la novità è la presenza. [Che peso acquistano, adesso, queste parole! Lo vediamo testimoniato ogni giorno da papa Francesco: non ha bisogno d’altro del fatto di porsi, lui disarmato, davanti a tutti perché] essere presenza non vuol dire non esprimersi: anche la presenza è un’espressività» [ma è una cosa ben diversa] (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 65-66).
La differenza risiede nella diversità dell’espressività.
«L’utopia ha come modalità di espressione il discorso, il progetto e la ricerca ansiosa di strumenti e di forme organizzative. La presenza ha come modalità di espressione un’amicizia operante, gesti di una soggettività diversa che si pone dentro tutto, usando di tutto (i banchi, lo studio, il tentativo di riforma dell’università, eccetera), e che risultano prima di tutto gesti di umanità reale, cioè di carità. Non si costruisce una realtà nuova con dei discorsi o dei progetti organizzativi, ma vivendo gesti di umanità nuova nel presente». Ciascuno di noi, ogni comunità deve pensare a questo: come possiamo porre nel reale gesti di umanità reale, cioè di carità. Non è, dunque, «l’abolizione di una responsabilità», ma è una modalità diversa di concepire la responsabilità. «Ho indicato ciò che deve accadere affinché noi abbiamo a lavorare di più, a incidere di più nella realtà, e in una letizia sempre più grande, non in un logorio e in una amarezza che ci dividono gli uni dagli altri. Il compito che ci aspetta è l’espressione di una presenza consapevole, capace di criticità e di sistematicità. Tale compito implica un lavoro. Il lavoro è il porsi della nostra identità dentro la materialità del vivere. La mia identità, in quanto penetra la materialità del vivere, cioè in quanto è dentro la condizione esistenziale, lavora e mi fa reagire» (Ibidem, pp. 66, 69).
Tutte queste cose ce le diceva nel ’76, ma negli anni ’90 don Giussani insiste di nuovo, e arriva a radicalizzare ancora di più la questione: «Dall’Equipe del 1976, il cui titolo era Dall’utopia alla presenza è stato fatto un cammino che ci spinge ora a sfondare e sfrondare la parola presenza: bisogna sfondarla e sfrondarla [...] perché la presenza è nella persona, solo ed esclusivamente nella persona, in te [cioè nella creatura nuova]. La presenza è un argomento che coincide con il tuo io. La presenza nasce e consiste nella persona. [...] E quello che definisce la persona come attore e protagonista di una presenza è la chiarezza della fede [lo vediamo bene in papa Francesco], è quella chiarezza della coscienza che si chiama fede, quella chiarezza della coscienza che naturalmente si chiama intelligenza, perché la fede è l’aspetto ultimo dell’intelligenza, è l’intelligenza che raggiunge il suo orizzonte ultimo, che identifica il suo destino, identifica ciò di cui tutto consiste, identifica la verità delle cose, identifica dove stia il giusto e il bene, identifica la grande presenza, quella grande presenza che permette la manipolazione trasfigurante delle cose, per cui le cose diventano belle, le cose diventano giuste, le cose diventano buone e tutto si organizza nella pace. La presenza è tutta quanta consistente nella persona, nasce e consiste nella persona e la persona è intelligenza della realtà fino a toccare l’orizzonte ultimo» (L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo. 1990-1991, Bur, Milano 2013, pp. 142-143).
È per questo che le due domande - «Come si fa a vivere?» e «Cosa stiamo a fare al mondo?» - vanno insieme. Il fattore che le unisce è la persona, perché possiamo illuderci riempiendo la vita di iniziative per evitare di convertirci a Lui. Ma come è diverso quando le iniziative sono espressione di questa conversione, della nostra appartenenza a Lui. Come ci ricorda don Giussani, «la presenza di Cristo, nella normalità del vivere, implica sempre di più il battito del cuore: la commozione della Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende dolce il tenore della vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di inutile, non c’è niente di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al tuo destino, e perciò non c’è niente a cui non ci si possa affezionare [non: sopportare, ma: affezionare!], a tutto ci si affeziona, nasce un’affezione a tutto, tutto, con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai, di precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta, di tenacia nel perseguire il suo fine; diventi più instancabile». Come dice un pezzo del profeta Isaia: «Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Ibidem, pp. 103-104, VII).

UNA LETIZIA GENERATIVA
Quando questo penetra fino nel fondo del nostro essere, riempie la vita di letizia. E questa è la cartina ultima di tornasole che ci lascia don Giussani. Quante persone conosciamo veramente liete? Perché senza letizia, non c’è generazione, non c’è presenza. È la letizia che lega le due domande, «Come si fa a vivere?» e «Cosa stiamo a fare al mondo?», perché senza una risposta per la prima, non c’è risposta neppure per la seconda; e quindi non c’è letizia. Don Giussani insiste che la condizione del generare è la letizia: «La letizia è il riverbero della certezza della felicità, dell’Eterno, e si forma di certezza e di volontà di cammino [una certezza che ci mette in cammino], di coscienza del cammino che si sta compiendo [...]. “Con questa letizia è possibile guardare con simpatia tutto” [con la letizia, con questa letizia è possibile generare diversamente le cose] [...], perché guardare con simpatia uno che è antipatico è generare una cosa nuova nel mondo, è generare un avvenimento nuovo. La letizia è la condizione per la generazione, la gioia è la condizione per la fecondità. Essere lieti è condizione indispensabile per generare un mondo diverso, una umanità diversa. Ma abbiamo una figura in questo senso che dovrebbe esserci di consolazione o di consolante sicurezza, che è Madre Teresa di Calcutta. [...] La sua è una letizia generativa, feconda: non muove un dito, senza cambiare qualche cosa. E la sua letizia non sono zigomi che si rattrappiscono in un riso forzoso, artificioso, no, no, no! È tutta profondamente attraversata dalla tristezza delle cose, come la faccia di Cristo [...]. [Ma] la tristezza essendo condizione passeggera [è] condizione del cammino [...] [perciò] perfino il nostro male non [ci] può togliere la letizia; [...] la letizia è come il fiore del cactus, che nella pianta piena di spine genera una cosa bella» (Ibidem, pp. 240-241).