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mercoledì 30 aprile 2014

Essere vulnerabili

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Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili.Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi.  Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessu­no, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scri­gno - al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto - esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile impenetrabile, irredimibile.
L’alternativa al rischio di una tragedia è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno.

C.s:Lewis, da I quattro amori

martedì 29 aprile 2014

Ma l'altro PELLICO era gesuita

Ma l'altro PELLICO era gesuita
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Gesuita anti-risorgimentale, cappellano di corte del re di Sardegna Carlo Alber­to, strenuo difensore dei diritti della Chiesa ma anche – come era definito a­mabilmente tra le mura domestiche dal fratello Silvio – «il teologo»... È la storia di Francesco Pellico (1802-1884), fratello minore dello scrittore, poeta e patriota italiano Silvio, l’autore delle immortali
Le mie prigio­ni.
E di questo originale figlio di sant’Ignazio (di cui ri­corrono oggi i 130 anni dalla morte) rimangono ancora vivi, seppur impolverati dal tempo e dall’inevitabile o­blio, l’eredità, l’apostolato e lo zelo. Lo testimonia l’im­ponente biografia, pubblicata nel 1933 dal gesuita Ila­rio Rinieri, in cui emerge la figura di un sacerdote dai tratti eccezionali che si trovò a difendere i diritti della Chiesa, a sopportare l’espulsione del suo Ordine dal­l’amato Piemonte durante i moti del 1848, ad essere il bersaglio di feroci polemiche anticlericali ma anche a coltivare sempre un rapporto di amicizia, affetto e pietà cri­stiana mai venuto meno con il suo più noto fratello Silvio, il «prigioniero dello Spielberg».

Nell’Italia pre-unitaria la vi­cenda dei fratelli Pellico, come ha ben sottolineato lo storico Pietro Pirri, non fu l’unico ca­so in cui il fattore «Risorgi­mento » rappresentò una vera e propria «causa di famiglia»: gesuiti, negli stessi anni, erano Luigi Taparelli D’Azeglio (fra­tello dello statista Massimo), Giuseppe Bixio (fratello del ge­nerale garibaldino Nino) e Lui­gi Ricasoli (cugino del leggen­dario «barone di ferro» Betti­no). Di 13 anni più giovane di Silvio, il futuro gesuita nacque a Torino il 2 febbraio 1802 e gli fu imposto dalla madre Mar­gherita il nome di Francesco in onore del santo vescovo di Gi­nevra (Francesco di Sales); il ra­gazzo ebbe i primi rudimenti dell’istruzione proprio dal fra­tello maggiore («Francesco era scolaro di Silvio», si legge nelle memorie della sorella Giusep­pina) e giovanissimo entrò nel seminario di Torino per diven­tare prima sacerdote secolare (1823) e poi gesuita (1834). 

Strano a pensarsi però – nono­stante le iniziali titubanze – Sil­vio Pellico (che era peraltro ter­ziario francescano) sosterrà per tutta la vita il fratello nella scelta, in un certo senso «con­trocorrente », di farsi gesuita. Ma è nella metà degli anni Quaranta dell’Ottocento che il nome di padre Pellico comin­cerà a imporsi sulla scena pub­blica:
prima come assistente dell’allora provinciale dei gesuiti piemontesi, il futuro e focoso polemista de La Civiltà Cattolica Antonio Bresciani, e poi nel 1845 quan­do diventerà uno dei principali bersagli (assieme al confratello Carlo Maria Curci) dei libelli (Il primato , I prolegomeni e soprattutto Il gesuita moderno) dell’a­bate Vincenzo Gioberti contro la Compagnia di Gesù. Toccherà infatti al giovane gesuita rispondere al suo an­tico compagno di studi in teologia all’università di To­rino, alle accuse contro il suo ordine di essere il primo nemico della “modernità” e del “liberalismo” con il fa­moso scritto
A Vincenzo Gioberti Francesco Pellico d.C.d.G. 
Un testo che troverà il plauso pubblico del grande teologo piemontese Luigi Guala, del fratello Silvio e del re Carlo Alberto. (Nel 1852, alla morte di Gio­berti, avvenuta senza sacramenti e condannato dalla Chiesa, padre Francesco pregherà per la salvezza e in suffragio del suo «antico nemico»). 

Il vero annus horribilis per padre Pellico sarà comun­que il 1848: da provinciale dei gesuiti piemontesi do­vrà subire l’espulsione dell’ordine dal Regno di Sarde­gna, la consegna di tutti i beni appartenu­ti alla Compagnia (tra cui la gloriosa chiesa dei Santi Martiri) allo Stato sabaudo e la conseguente disper­sione dei suoi confra­telli; pur ridotto a vi­vere in clandestinità a Torino, come annota il biografo Rinieri, padre Francesco si adopererà per evitare, qua­si in modo eroico, la «secolarizzazione» e l’uscita di tanti gesuiti dall’ordine e condannare, in una seppur inascoltata lettera di protesta indirizzata al Parlamen­to di Torino, i torti subiti dalla Compagnia e i «diritti violati» della Chiesa. 

Con la fondazione nel 1850 a Napoli de La Civiltà Cat­tolica padre Pellico, nella sua veste di assistente del­l’allora generale della Compagnia Roothaann e di cen­sore, offrirà alla neonata pubblicazione due impor­tanti suggerimenti: quello di rimanere «sempre una rivista popolare» e di stare soprattutto «attenti solo sul­le cose del Papa». Sempre in questi anni e fino alla scomparsa di Silvio, avvenuta a Torino il 31 gennaio 1854, il gesuita Pellico, seppur dalla lontana Lione, intratterrà un rapporto di gran­de intimità ed affetto con l’autore de Le mie prigioni e di Francesca da Rimini, offrendogli attraverso lettere e preghiere un sostegno spi­rituale (come il suggerimento della recita del «Rosario Vivente» per guadagnarsi qualche «in­dulgenza » per la vita eterna); il tramite provvidenziale di questo rapporto speciale sarà, per i due fratelli, la sorella Giuseppina.

Dal 1854 padre Francesco diventerà, in un certo sen­so, il custode della memoria dell’illustre parente (tra cui un carteggio con Ugo Foscolo, ritenuto dal gesui­ta «poco religioso e poco cattolico» per il tenore degli argomenti trattati); sempre a lui verranno consegnati il crocefisso, i breviari e la Bibbia usati da Silvio, nel corso della sua vita, con il famoso motto del poeta: Sursum corda.
Come ultimo sopravvissuto dei fratelli Pellico, molti anni dopo, l’anziano gesuita renderà o­maggio (recitando il De Profundis seguito dalle laco­niche parole «Preghiamo per l’anima sua») a Saluzzo (paese natale di Silvio) alla sta­tua eretta dall’amministrazio­ne comunale in onore dello scrittore e patriota del Risorgi­mento. Sempre padre France­sco si impegnerà poi con il col­legio degli scrittori della rivista che i manoscritti (tra cui mol­te lettere private) e le pubbli­cazioni del fratello Silvio fosse­ro acquistati e conservati dall’archivio de La Civiltà cattolica.

Pochi anni dopo la morte del congiunto, nel 1859, pa­dre Pellico si troverà a Bologna appena occupata dai piemontesi e sotto il governo di Massimo D’Azeglio, ma continuerà indisturbato a svolgere i ministeri di sa­cerdote grazie all’intelligente sotterfugio di apporre sul cappello da prete «una coccarda tricolore»... Nel 1870 ritroviamo il gesuita a Roma, quasi per caso al mo­mento della presa di Porta Pia: i suoi occhi «incredu­li » vedranno l’uscita dolorosa e forzata di tanti suoi confratelli dalla chiesa del Gesù e dal Collegio Roma­no. Il resto della vita di questo religioso di razza, con­siderato forse a torto figlio dell’Ancien Regime, sarà de­dicato alla cura delle anime e alla pratica degli Eserci­zi Spirituali. Concluderà il ministero nel luogo dove a­veva incominciato la sua avventura di gesuita: nel no­viziato di Chieri, all’età di 83 anni. E a 130 anni dalla morte rimangono forse ancora attuali le parole che gli furono tributate dall’allora preposito generale della Compagnia di Gesù, il belga Pietro Beckx: «Fu un uo­mo degno della lode di tutte le virtù».

Filippo Rizzi

La santità del laico nel pensiero di Luigi Giussani e Divo Barsotti

La santità del laico nel pensiero di Luigi Giussani e Divo Barsotti

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Paolo Prosperi
Documenti
Proponiamo l’intervento di Paolo Prosperi, sacerdote della Fraternità dei missionari di San Carlo Borromeo, al convegno “La funzione e il ruolo del laico nella Chiesa e nel mondo, nel pensiero di don Divo Barsotti” organizzato dalla Comunità dei Figli di Dio. Bologna, Basilica di San Domenico, 6 maggio 2006

Don Giussani, come noto, è il fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione. Don Divo della Comunità dei figli di Dio. Lo scopo che qui mi prefiggo non può essere, per forza di cose, un confronto esaustivo delle loro personalità e della loro opera. Più modestamente, vorrei mettere in luce alcuni elementi che avvicinano queste due grandi figure del nostro tempo molto più profondamente di quanto uno sguardo superficiale potrebbe notare. Giussani, anima espansiva e vulcanica, è infatti soprattutto noto come l’animatore di un movimento cattolico fortemente impegnato nell’azione sociale a tutti i livelli, finanche a quello politico. Barsotti, uomo di leggendaria riservatezza, benché anch’egli grande carismatico, è invece noto come uno dei più grandi uomini spirituali del nostro tempo; esegeta geniale e non inquadrabile in nessuno schema, scrittore mistico e fondatore di una comunità contemplativa aperta a tutti, che punta a rendere accessibile la pienezza della santità anche a chi vive nel mondo, impegnato nel lavoro e nella vita familiare. Cosa trovare di comune tra i due? In realtà molto, se non troppo.
1. Il santo è l’uomo vero
Il primo aspetto che vorrei evidenziare è quello che già il titolo enuncia: l’attenzione data da entrambi al cosiddetto laicato, la capacità, propria di entrambi, di suscitare il fuoco della radicalità cristiana negli ambienti normali della vita di tutti, anche al di fuori di chiese e chiostri. Va notato che tale fenomeno, tanto in Giussani come in Barsotti, si afferma assai prima che il Concilio Vaticano II mettesse a tema il “laico”. E ciò dimostra, oltre che il genio profetico dei due, la loro totale mancanza di progetti in merito. Sia Giussani che Barsotti hanno, infatti, più volte dichiarato, con espressioni curiosamente simili, di non aver mai voluto fondare niente, di aver semplicemente seguito ciò che lo Spirito faceva accadere attorno a loro. Penso di non sbagliare affermando che mai Giussani e Barsotti si siano proposti, con la loro opera, di mettere in maggiore risalto la figura del laico. Erano forse più semplicemente mossi da zelo apostolico, e da una convinzione tanto rivoluzionaria quanto antica: che la santità cristiana non è un mestiere per pochi. È bensì la vocazione normale di tutti, di ogni battezzato.
Ma ciò ci spinge a porci una domanda più radicale e difficile: cosa è la santità? È proprio nella risposta a questa domanda che va ricercata forse la consonanza più profonda tra i due sacerdoti: «Vi è una accezione della parola santità - scrive don Giussani - la quale si rifà ad una immagine di eccezionalità che una aureola esprime.
Eppure il santo non è né un mestiere di pochi né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. (…) Il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero. Il santo è un vero uomo perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore».1
Il santo non è dunque un uomo che compie necessariamente imprese clamorose.
Il santo è piuttosto l’uomo che compie, nel silenzio di ogni istante, direbbe Ignazio di Antiochia, l’impresa più clamorosa: vivere la verità di sé. Quale è la verità dell’uomo? Che non si fa da sé, che dipende da un Altro, da Dio. Il santo è semplicemente l’uomo che vive, istante dopo istante, consapevolmente e amorosamente, questa dipendenza: «Tutta la virtù cristiana - scrive don Divo - consiste in fondo nel rendersi conto di quello che egli è davanti a Dio (…). Se noi vivessimo questo avremmo già raggiunto la santità più pura e più grande».2
Se c’è un’intuizione base comune ai due, in tema di santità, penso sia proprio questa:
il santo non è un eroe, e neanche un uomo che non sbaglia mai. Il santo è l’uomo vero, in quanto è colui che tende a vivere la coscienza della propria dipendenza da Dio in ogni istante: «Vivere il nostro rapporto con Dio nella verità vuol dire renderci conto, istante per istante, che tutto abbiamo da Lui, e che in noi non vi è alcuna ragione di essere, capacità di esistere, nessuna potenza di agire. Noi non siamo che quello che Lui vuole e quello che Lui ci fa, istante per istante».3
2. L’uomo è sete di Dio
Ma dire che il santo è l’uomo vero è un’affermazione più provocatoria di quel che possa sembrare: significa infatti affermare che
solo l’uomo che vive intensamente il rapporto col Dio può godere del rapporto con la realtà mondana in modo autentico. Significa attaccare frontalmente quel sottile dualismo tra valori mondani e valori spirituali, tra naturale e soprannaturale, tra mondo e Dio, in cui molto cattolicesimo moderno ha sempre più rischiato di lasciarsi intrappolare. «Dio se c’è, non c’entra»: così Cornelio Fabro riassume la tentazione moderna. Non c’entra con la vita di tutti i giorni, non c’entra con la moglie, non c’entra col lavoro, coi soldi, con gli alberi, con il vino, con l’arredamento della mia camera. Per Giussani invece, se Dio non c’entra, sono proprio la moglie e il lavoro che perdono sapore. Se Dio non c’è, è l’uomo che perde, direbbe don Divo, ogni potere: «La nostra volontà di strapparci a questa dipendenza assoluta da Dio, questa volontà di autosufficienza, di indipendenza da Dio che è l’essenza del peccato è una volontà che ci precipita nel nulla e ci toglie la vita e ogni potere. È l’inferno».4 Senza Dio è l’uomo stesso che si sfalda, che si frammenta in mille pezzi, e perde, per contrappasso, la capacità di possedere e gustare la vita di questo mondo: «Il rapporto con Dio - scrive ancora don Giussani - è l’ipotesi di lavoro più adeguata all’incremento e alla realizzazione dell’unità della personalità. Per questo il mondo ha ancora, anzi soprattutto oggi, bisogno dello “spettacolo della santità”. (…) Vivere il mistero della comunione con Dio in Cristo fa imparare a vedere tutte le cose come riferite ad un valore unico (…). Da questa ricchezza prima più profonda scaturisce una visione della vita di una semplicità grandissima: una sola Realtà come criterio e misura e modi investe della sua luce tutte le cose; per cui l’io si sente uno con tutte le cose e in tutte le cose (…) non ha bisogno di dimenticare o di rinnegare nulla: tanto meno, starei per dire, la morte».5
Vi è quindi un primo aspetto che definirei antropologico nella concezione della santità cristiana, tanto in Giussani quanto in Barsotti. Antropologico perché dipende da come entrambi sentono e comprendono il mistero dell’uomo. Lo riassumerei con queste poche parole scolpite da don Divo:
«Noi siamo soltanto in dipendenza da Dio, e soltanto vivendo la nostra dipendenza da Lui noi salviamo l’essere nostro, possediamo noi stessi».6
Dio deve riempire tutta la vita dell’uomo, nulla escluso, perché in realtà, anche quando non lo sa, anche quando violentemente lo nega, è di questo che l’uomo di oggi ha disperata sete: è «equivoca - attacca Giussani - la posizione di quanti identificano la sanità di una società nel richiamo a certi valori comuni minimali. È un qualcosa di mistificante perché fa gioco su una condizione umana che si aspetta ben altro».7
L’uomo aspetta ben altro. Aspetta l’Immenso, aspetta Dio. Ma il Dio che aspetta è un Dio così presente, così invadente, starei per dire, da essere capace di illuminare e trasfigurare la vita in tutti i suoi aspetti: non solo di cambiare lo sguardo che porti alle stelle, a tua moglie, al tuo lavoro; ma il modo con cui vivi il dolore e persino guardi alla morte.
In questo senso, Giussani e Barsotti sono stati a mio avviso prima di tutto due uomini capaci di leggere i cuori, di comprendere il cuore dell’uomo del proprio tempo, nelle sue contraddizioni, eppure nella sua insopprimibile sete di significato
. Di comprendere e far comprendere che senza Dio è l’uomo stesso che si incurva, si rimpicciolisce e infine sparisce. Non per nulla entrambi sono stati attenti ascoltatori del grido lanciato dalle voci della grande letteratura atea. L’esempio in questo senso più impressionante mi pare l’amore profondo che lega entrambi a Leopardi. Impressiona - leggendo i loro commenti alle poesie del grande recanatese - il fatto che, pur nella diversità di sensibilità, si ha subito la percezione di un nocciolo profondo comune: entrambi cioè sono personalmente toccati, feriti dalla voce del poeta, perché sentono vibrare, nella sua inappagabile malinconia, il mistero della vastità infinita del proprio stesso cuore, come del cuore di ogni uomo. E nella sua disperazione, il bisogno impellente che quel Mistero enigmatico, che la ragione intuisce come oggetto ultimo della propria sete, diventi toccabile, visibile, abbracciabile in questo mondo: la nostalgia inconsapevole del Cristo. Del finale di Alla sua donna, la sua poesia preferita, don Giussani soleva addirittura dire che è «una delle più belle preghiere che si possano leggere nella nostra letteratura»: quasi inno d’amante disperato al Cristo, che come lo Sposo del Cantico, tarda a venire, lasciando la sposa a tormentarsi in una incerta attesa: «Se dell’eterne idee/ l’una sei tu cui di sensibil forma/ sdegni l’eterno senno esser vestita,/ e fra caduche spoglie/ provar gli affanni di funerea vita;/ o s’altra terra ne’ superni giri/ fra’ mondi innumerabili t’accoglie,/ e più vaga del Sol prossima stella/ t’irraggia, e più benigno etere spiri;/ di qua dove son gli anni infausti e brevi,/ questo d’ignoto amante inno ricevi».8
3. Chi è in Cristo è una nuova creatura
Il santo non è un mestiere di pochi, abbiamo detto. E abbiamo visto una prima ragione di ordine antropologico:
la santità è la realizzazione dell’uomo in quanto tale, nella sua vera statura. Questa prima ragione è però in un certo senso di ordine negativo, perché l’uomo di fatto non può, senza la grazia di Cristo, realizzare l’ideale per cui pure il suo cuore è fatto. La santità in questo senso è il mestiere di tutti e nello stesso tempo è inaccessibile a tutti.
Per questo la seconda ragione, di ordine invece positivo, è di gran lunga quella più importante, quella centrale.
La santità non è un mestiere di pochi, perché la santità è innanzitutto un dono. Un dono che investe l’uomo afferrato da Cristo e fatto uno con Lui nel Battesimo (Gal 3,28). In questo senso la vera radice del discorso sulla santità del laico è da ricercarsi nella teologia dell’Incarnazione e nella teologia, soprattutto paolina, del Battesimo.
a) L’Avvenimento di Cristo
Quale è il cuore dell’annuncio cristiano? Il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo, si è unito alla carne, alla materialità di cui è tramata la vita quotidiana dell’uomo comune, perché tale carne, senza perdere nulla della sua materialità, possa risplendere della gloria di Dio. Scrive Giussani: «La santità cristiana è agli antipodi del concetto di santità proprio a tutte le religioni, dove essa è intesa come una separazione dal quotidiano normale. Nelle religioni c’è un’ultima opposizione fra il sacro, la realtà in quanto a servizio di Dio, separata dal resto per essere dedicata a Lui, e la profanità, cioè la realtà in quanto non immediatamente al suo servizio. Nella concezione cristiana invece non c’è nulla di pro-fanum, che stia davanti o fuori del tempio, perché tutta la realtà è il grande tempio di Dio: nulla è profano e tutto è “sacro”, perché tutto è funzione di Cristo».9
«L’attività umana - scrive ancora Giussani - diventa interamente significativa: ogni azione, anche quella apparentemente meno incidente, acquista la nobiltà di un grande gesto. Ciò è possibile solo se l’uomo agisce essendo consapevole del motivo ultimo della sua azione».10
La stessa intuizione del nesso tra Incarnazione e santificazione di tutte le realtà temporali, sta al centro del pensiero di Barsotti: «È la secolarità che deve essere consacrata: è tutta la realtà che in qualche modo è assunta dal Verbo (…). Vogliamo - scrive don Divo nella regola della comunità - una consacrazione di tutto quello che è profano, che è secolare;
vogliamo che la nostra associazione abbia il compito di santificare tutte le attività umane».11
b) L’Avvenimento del Battesimo
Ma è nel sacramento del
Battesimo che l’Avvenimento della “meravigliosa mescolanza” tra il divino e l’umano investe la persona, inserendola nell’umanità di Cristo. Nella teologia del Battesimo, e in particolare in quella paolina, va quindi cercata la chiave di volta del discorso sulla santificazione del mondo da parte del laico, tanto in Giussani quanto in Barsotti. Il nome stesso della comunità fondata da don Divo mi pare richiamare esplicitamente la teologia battesimale di san Paolo. Una teologia che è tutta riassumibile nello stupore e nell’entusiasmo con cui l’Apostolo contempla la potenza dell’Avvenimento battesimale nei termini di una nuova creazione, di un reale ingresso dell’uomo nella Vita del Risorto. La santità è un compito alla portata di tutti, perché è innanzitutto un dono che investendo l’uomo ne cambia l’ontologia, lo trasforma in un soggetto nuovo. Gli dona un essere nuovo. Nel linguaggio paolino, infatti, santi sono i battezzati per il semplice fatto che appartengono all’ontologia nuova del corpo di Cristo, a prescindere dallo sviluppo più o meno maturo dell’uomo nuovo in ciascuno. Il tempo manifesterà, senza nulla aggiungere, ciò che è già tutto donato nel seme iniziale: è ciò che Giussani chiama «la cultura del “già avvenuto”: il compimento (…) e la perfezione ricercati sono già tra noi e dentro di noi; tutto l’agire è un lievitarsi irresistibile ed immenso del loro manifestarsi».12 Ecco perché non esiste più nulla di profano, di escludibile dal rapporto con Cristo. Perché è l’essere stesso dell’uomo che è mutato, che è stato unito a Lui in modo definitivo: «Non siamo uomini che sono cristiani, siamo cristiani che sono uomini, per quanto strano vi possa sembrare (…) è vero che la grazia suppone la natura. Ma è anche vero che la grazia abbraccia la natura e tutta la trasforma. (…) L’essere cristiano non prende una parte soltanto dell’uomo, lo prende totalmente, con tutte le sue capacità, per tutto il tempo della sua vita, non lasciando nulla che l’uomo possa vivere indipendentemente da questa sua dignità».13
Giussani sottolinea questo aspetto di continuo: «Tutta la nostra attenzione è concentrata sull’idea di “fedele”, di “battezzato”. Cioè sull’idea di un’ontologia nuova che il Fatto cristiano introduce attivamente nel mondo.
Che cosa è infatti il cristianesimo se non l’avvenimento di un uomo nuovo che per sua natura diventa un protagonista nuovo sulla scena del mondo? Mi sembra che, dal punto di vista antropologico (…) non ci sia nulla al di là e al di sopra di questo elementare messaggio. La questione eminente nella realtà cristiana non è dunque “laico o non laico”, ma l’accadere della “creatura nuova” di cui parla san Paolo».14 «Solo il cristianesimo, in tutta la storia dell’umanità, ha come contenuto del suo messaggio - dal punto di vista antropologico, cioè dal punto di vista dell’uomo - l’annuncio di un cambiamento radicale della personalità. Un cambiamento non morale, ma un cambiamento radicale della personalità (…). Solo il cristianesimo promette all’uomo una forza divina che lo cambia come essere, come natura».15La santità è quindi innanzitutto un dono, un Avvenimento che investe l’uomo. E questo non solo all’inizio. Ma in un certo vero senso sempre di più. La santità, infatti, non è altro che il crescere progressivo, lo sviluppo in noi della vita del Cristo, della sua santità che prende sempre più spazio, nella misura in cui l’uomo gli si abbandona nella fede. Il vero compito dell’uomo è, allora, solo e sempre di più quello di imparare a lasciare spazio all’azione di un Altro, lasciare spazio al Tu, amava dire don Giussani: all’azione dello Spirito di Colui che si è già insediato nella mia persona e «con gemiti inesprimibili» (Rm 8,24) sospira nel desiderio di assimilarmi sempre di più a sé. L’essere di me battezzato è realmente abitato da una Presenza che mi ama e mi chiama a lasciarmi plasmare dalle Sue mani: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Queste parole, come ha ricordato papa Benedetto nella sua splendida omelia della notte pasquale, non sono riferite da Paolo a un’esperienza mistica particolare. Ma alla situazione oggettiva in cui si trova, il più delle volte inconsapevolmente, ogni battezzato. Ogni battezzato, invece, deve sentire sue queste parole di Paolo. Per quanto peccatore sia. Il compito dell’uomo, perciò, dal punto di vista ascetico, è in fondo semplicissimo, e non richiede nessuna precondizione particolare: se non la fede e il desiderio di vivere il più intensamente possibile il rapporto con questa Presenza, rendendosi docile alla Sua azione.
4. Lo stupore per Cristo
Tocchiamo qui uno dei punti di più profonda consonanza tra Barsotti e Giussani, nel modo di concepire il cristianesimo. Mi riferisco
al primato dell’ontologia sull’etica. E mi riferisco anche alla profonda avversione di entrambi per ogni forma di moralismo e di riduzione del cristianesimo a un elenco di valori e precetti morali: «La fedeltà cristiana ridotta a moralismo: una riduzione ancor più meschina perché depaupera il Fatto cristiano della sua nobiltà, della sua dignità, perché la fedeltà cristiana è per sua natura un amore, l’amore alla persona di Cristo».16
Barsotti scrive, dal canto suo: «Si preferisce vivere il cristianesimo come impegno moralistico. Così si parla molto, nelle chiese, della mafia, dei debiti del Terzo Mondo, degli armamenti, del governo… ma chi parla di Cristo morto e risorto?».17 E nell’introduzione a quello che è, a mio avviso, uno dei suoi capolavori, la meditazione sul Cantico dei Cantici, aggiunge: «
Nell’ebraismo e poi nel cristianesimo l’uomo non è chiamato ad essere buono, ma ad amare. (…) Le virtù senza l’amore ci chiudono nell’egoismo, in un orgoglio spirituale che al contrario di essere perfezione diviene elemento di difesa contro l’amore, diviene terribile impedimento contro l’amore. (…) Il cristiano nasce quando Dio, in Cristo, entra nella vita dell’uomo e l’uomo non solo non lo rifiuta ma lo sceglie, risponde al Suo Amore. È importante essere casti, essere obbedienti? Tutto questo entra solo come realizzazione, come attuazione di questo rapporto di amore».18
Il santo, dunque, è innanzitutto un uomo sorpreso dall’Amore di Dio, che per primo gli viene incontro. Un uomo dominato dallo stupore per l’amore che Dio ha per lui. Potremmo stare qui per ore a leggere pagine e pagine in cui Giussani e Barsotti cantano, commentando la Scrittura, l’accadere di questo stupore, l’irruzione di Dio nella vita dell’uomo. Il santo è un uomo abbagliato, come i tre discepoli sul Tabor, dalla rivelazione dell’amore di Dio per lui, che ultimamente si concentra in un uomo: Gesù. «Il cristiano - scrive don Divo nel ’70 - è essenzialmente colui che ha veduto Gesù Cristo, colui che Lo vede e gli parla». Ciò che fa del santo un santo, è perciò in radice ciò che fa il battezzato: il lumen fidei, lo stupore della fede che riconosce in Gesù Cristo il Dio fatto uomo. Una delle definizioni più belle di santo che ho trovato in don Giussani è questa:
il santo è «colui che continuamente sorprende l’intero suo essere come amato dal Dio fatto uomo».19 Continuamente. Mi pare importante questo avverbio. Perché se c’è una tentazione del cattolicesimo moderno, secondo il fondatore di Cl, è appunto quella di scivolare sempre sulle applicazioni. Siano etiche, sociali, politiche. Invece dove la Chiesa è santa, è là dove in essa rimane accesa la fiamma di questo stupore, sarei tentato di dire, primitivo, per il fatto inesauribile: Dio si è fatto uomo per unirsi a me, per unirmi a sé. È divenuto un corpo solo con me. Se c’è stata e c’è una tentazione nella Chiesa del nostro tempo, ha affermato don Giussani più volte, è quella di lasciare sullo sfondo lo stupore nudo e crudo per l’avvenimento di Cristo. Di farlo scivolare in secondo piano, rispetto a un cristianesimo dei valori morali, forse meno fastidioso, meno provocatorio, meno scandaloso per il mondo. Ma senza niente di nuovo da dire al mondo stesso. Di fatto si tratta della tentazione perenne, che Paolo stigmatizza nelle sue lettere, di tornare alla schiavitù della legge: al centro torno ad essere io, il mio sforzo umano, il mio umanesimo autonomo. È questa, per i nostri due maestri, la grande tragedia dell’egocentrismo dell’uomo moderno.
Invece in Giussani, come in Barsotti, la via cristiana è tutta ricondotta, spesso con accenti focosi che ricordano da vicino l’antilegalismo paolino, alla semplicità radicale della fede. Il giusto vive di fede (Rm 1,17), cioè dell’amore efficace di un Altro, che ha invaso definitivamente la sua vita e lo sostiene istante per istante con la Sua Presenza. Alla forza di questa Presenza il santo è totalmente appeso, in nulla poggiando su di sé.
5. Di fede in fede (Rm 1,17)
Se si facesse un’indagine statistica, penso sarebbe facile trovare conferma di quanto detto nell’amore dei due per la figura di Abramo. Le pagine scritte da don Divo sulla fede di Abramo, sia per numero che profondità, dimostrano forse meglio di ogni altra cosa il primato assoluto che la fede occupa nel suo pensiero sulla santità. Cito Lecceto ’89, ma si potrebbero citare decine di altre pagine simili: «
La santità, tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento, consiste nel fidarci di Dio, nell’abbandonarci a Lui. Frutto supremo della santità vera è sempre questo abbandono totale di sé nelle mani di un Dio che ti conduce per vie sconosciute e non ti dice dove vuole portarti (…). Tutta la vita cristiana non è l’impegno dell’uomo, ma di Dio; non è l’azione dell’uomo, ma è l’azione di Dio per la tua salvezza. A te che cosa chiede il Signore? La fede; la fede che è abbandono, che è lasciare che Dio compia in te la sua volontà. Se tu non gli apri le porte, la sua azione rimane esterna a te e questa azione divina non ti raggiunge».20
Scrive Giussani: «Nessuna conseguenza etica è più radicale, necessaria e assoluta di questa: la certezza di essere trasformati [nel Battesimo] e perciò di poter cambiare. “Si è affidato sperando contro ogni speranza”, dice Paolo di Abramo. Questo credito di sé ad un Altro, sperando in Lui contro ogni apparenza disperante della propria pochezza, meschinità e fragilità, è (…) l’inizio della redenzione che palesa il suo compimento».21
L’ascesi cristiana viene così a delinearsi, dall’inizio alla fine, come il semplice e grandioso dramma di un rapporto di amore, in cui l’uomo è chiamato e provocato continuamente a lasciarsi strappare a se stesso, alla propria morale autonoma, alla tentazione sempre insorgente di misurare se stesso, per lanciarsi, di fede in fede, in un sempre più profondo, più totale, più arreso abbandono alla forza di un Altro: «Per essere trovato in Lui, non con una mia giustizia che viene dalla legge, ma con la giustizia che viene da Dio, mediante la fede in Cristo» (Fil 3,9).
Tutta la grandezza del santo risiede in realtà solo nel fatto che egli vive questo abbandono amoroso come il contenuto di ogni respiro, di ogni azione.
Questo comune accento nel concepire la santità, mi pare confermato da un’altra “amicizia” condivisa dai nostri due. Quella con santa Teresina del Bambin Gesù e la sua piccola via dell’amore.
«Quando sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me», soleva citare Giussani. E don Divo ha un passo splendido, nel suo commento al Cantico, in cui così descrive il “segreto” della grandezza di Teresina: «Che cosa ha fatto santa Teresa del Bambin Gesù che noi non possiamo fare? Rispose all’amore come una bimba di 24 anni può fare. Non fece grandi cose. Ma poi quali cose sono grandi davvero davanti a Dio? Quale differenza c’è fra le imprese di Francesco Saverio e ciò che fece Teresina? Come ogni differenza viene meno davanti alla grandezza infinita di Dio! La vita e la grandezza di un uomo è nulla davanti a Lui. Quello che invece fa grande l’atto dell’uomo è che ogni atto raggiunge un Dio che lo ama. La grandezza del tuo atto dipende quindi dalla fede che hai nel Suo amore. Proprio per questo, siccome Teresina crede di essere amata da Dio, i suoi atti di amore, un sorriso, un passo in più in giardino, un piccolissimo sacrificio, sconvolgevano i cieli».22
In questo senso, se mi chiedessero di indicare
le virtù portanti del santo, nel pensiero di Giussani come in quello di Barsotti, personalmente, per entrambi i casi risponderei: la fede e l’umiltà. E cioè, non a caso, le due virtù che connotano Maria, nel ritratto così essenziale che ci danno le Scritture.23
Mi si conceda una annotazione da ormai mezzo “orientale”: nelle icone dell’Annunciazione, che è forse il mistero della fede più meditato da don Giussani,
Maria abbassa sempre il capo. È il gesto dell’umiltà, è chiaro. Ma nell’icona - che per questo è insuperabile nel mostrare l’indicibile - si vede come proprio il gesto dell’abbassamento scava contemporaneamente nel suo corpo la cavità, lo spazio concavo dell’ospitalità; svuotandola, la rende grembo capace di ospitare l’Infinito.
Ecco:
tutto il compito dell’uomo, semplicissimo e insieme arduo, grandioso si riconduce in fondo a questo: assimilarsi alla Vergine, che è tutta grembo che accoglie, grembo che in sé lascia tutto lo spazio a Colui che viene.
6. La preghiera, lavoro del cristiano
Se ciò che conta è fare spazio, se ciò che conta è lasciare che in noi agisca e lavori Colui che in noi è già presente, si capisce perché, in Giussani come in Barsotti,
tutto il “lavoro” del laico battezzato, cioè del cristiano, dal punto di vista ascetico, si risolva nella contemplazione. O, per usare la terminologia di Giussani, il lavoro supremo del cristiano è la memoria: memoria incessante di Cristo e domanda permanente della Sua manifestazione in noi: «La nostra salvezza, - scrive Giussani -, la nostra perfezione, già c’è, ma nello stesso tempo ha ancora da manifestarsi. È come dover esser sempre in ascolto, vigilanti per una venuta nuova o per un ritorno: il ritorno di Cristo. (…) l’atteggiamento del cristiano è l’attesa del ritorno di Cristo (…) non come risoluzione estatica dall’angustia presente o formula di distacco dal tempo presente, ma come l’urgenza allo svelarsi della verità [di ogni istante], di ogni impegno contingente. (…) Attesa che Cristo venga dentro di sé - e attraverso sé nel mondo - nella santità. (…) Questa è radicale abolizione del moralismo, perché la morale cristiana è la storia di Dio nell’uomo. La nostra libertà non è tanto in quello che riusciamo a realizzare, perché questo dipende da Dio. È piuttosto nella verità con cui chiediamo a Dio, nella verità con cui mendichiamo Cristo. Questa è l’essenziale decisione in cui la libertà s’avvera: chiedere con verità. È l’atteggiamento che permette una continuità senza fine: “Bisogna pregare sempre” ci invitò Gesù».24 Risponde don Divo nel vademecum della comunità: «È la preghiera l’atto più efficace dell’uomo, perché Dio alla preghiera non resiste e tutto alla preghiera concede. Noi ci sentiamo impegnati soprattutto a questo, proprio per venire incontro ai bisogni del mondo (…). La vita del cristiano è essenzialmente preghiera: non atto che realizza qualcosa, ma atto che implora l’intervento ultimo di Dio, così come nell’Apocalisse tutta la vita dell’Universo, tutta la vita della Chiesa si consuma nell’invocazione: “Vieni Signore Gesù!”».25
A chi non conosce bene il carisma di Cl, può sembrare strano quanto ho appena affermato. L’immagine vulgata di Comunione e Liberazione è quella di una realtà iper-attiva, tutta lanciata nel sociale. E ciò è indubbiamente vero. Ma se si è compreso quanto ho cercato di dire fin qui, al cuore del carisma di don Giussani, pur nella diversità di temperamento e di traduzione, sta un’affermazione del primato dei valori contemplativi non meno radicale di quanto non avvenga in Barsotti.
La verità è che per entrambi la vita cristiana è un’unità: non esiste vita contemplativa che non abbia come frutto la trasformazione della persona e attraverso di essa del mondo e viceversa: non esiste possibilità reale di azione cristiana nel mondo che non si radichi nella trasfigurazione di sé mediante la preghiera e la vissuta comunione ecclesiale. L’anima di Giussani è in questo senso nel suo fondo totalmente monastica, nel senso più profondo del termine. Ciò risulta evidente se si leggono le costituzioni del direttorio dei Memores Domini, una delle creature più originali di Giussani, la realtà che forse ne rispecchia più fedelmente il carisma: «Il carisma dell’Associazione si esprime innanzitutto nella insistenza data alla “contemplazione, intesa come memoria tendenzialmente continua di Cristo. Cristo, infatti, è la consistenza di tutte le cose (cfr. Col 1,17) ed è presente nella storia attraverso la personalità del battezzato e la comunione fra i fratelli”».26 «Al di là di tutte le forme in cui può esprimersi, il contenuto fondamentale dell’ascesi è il desiderio di approfondire personalmente la memoria di Cristo e la coscienza della sua presenza, facendole diventare struttura permanente della persona, criterio, motivo ed orizzonte di ogni azione».27
Se c’è invece un punto di sensibile differenza, e sarebbe interessante approfondirlo, sta nel fatto che il grande punto di riferimento costante di Giussani è san Benedetto. Nell’ora et labora del Padre del monachesimo occidentale, si può trovare la formula sintetica della concezione giussaniana del laico, chiamato a manipolare e a trasfigurare il mondo con la sua azione, mentre si lascia trasformare dall’azione del Cristo, che lo stringe a sé e lo plasma attraverso l’abbraccio permanente della compagnia dei fratelli. Don Divo mi pare invece più fortemente vicino al genio del monachesimo orientale che, senza escludere l’importanza del lavoro, della vita comune e dell’azione missionaria, risolve più accentuatamente nella vita mistica la missione del cristiano nei confronti del mondo. Per l’orientale il modello della santità è infatti il bios anghelikòs, la vita degli angeli, nei quali vita attiva e vita contemplativa coincidono, sono un unico atto: «Quale collaborazione può aspettare Dio da noi? La collaborazione dell’uomo è la preghiera; noi dobbiamo renderci conto che il nostro apostolato vero, la nostra missione precisa è la preghiera. (…)
La preghiera in realtà è il lavoro unico del cristiano. La vita contemplativa non può essere per te una dispensa dalla vita attiva, non può essere un pretesto perché tu ti senta meno impegnato nella salvezza degli uomini. Allora soltanto realizzi il tuo ideale, quando vivendo la tua vita contemplativa dinanzi a Dio, vivrai come colui che è a servizio dei fratelli e tutti li porta nel cuore. È questa la vita angelica, l’ideale di vita che tu devi realizzare».28 «Dio non parla mai a te come separato dagli altri, e tu non parli mai a Dio come separato dalla comunità umana, dalla chiesa, dalla comunità religiosa cui appartieni».29 Per Barsotti, dunque (che in questo è realmente vicinissimo alla visione dei grandi Padri greci) tutto il compito “missionario” del battezzato consiste nel liberare progressivamente, fino a farla risplendere all’esterno, quell’immagine divina che è già nascosta in lui fin dal Battesimo, attraverso l’incessante lavoro della preghiera. Unendosi sempre più profondamente a Cristo, l’uomo si unisce simultaneamente nell’amore alla Chiesa e a tutti gli uomini, perché Cristo è il Verbo che tutta l’umanità ha già assunto in se stesso. L’agape verso il fratello, perciò, per usare la terminologia dell’ultima enciclica del Papa, non è altro che il brillare esterno del fuoco dell’eros con cui l’anima si unisce a Cristo nell’amore.
La stessa impostazione “patristica” vale rispetto al rapporto che il laico deve avere con il lavoro. La preoccupazione del cristiano per don Divo non deve essere quella di un esito mondano della sua azione. Deve essere piuttosto la tensione a vivere l’unione con Dio in ogni istante, in tutto ciò che fa. Solo quando l’uomo rientra nell’eden della piena comunione con Dio, infatti, riacquista spontaneamente quella regalità sul mondo che Adamo aveva al principio e che ha perduto a causa del peccato: «Solo quando, ritornato nel paradiso di Dio, nell’uomo si è ristabilita l’unità, il suo lavoro sarà, come al principio, la manifestazione di una regalità sulla creazione. (…) La spiritualità orientale si compiace di vedere nel miracolo l’azione stessa dell’uomo che, non più asservito alle necessità della legge, assoggetta a sé tutte le cose nell’esercizio di una perfetta libertà».30 «Il lavoro o mestiere, via via che il cristiano diviene perfetto, si trasfigura. Se prima era castigo (…) ora diviene segno profetico della vita futura».31
7. Lo scopo di ogni vocazione:
la missione

Nella diversità, anche profonda, di accento, rimane però chiarissimo un punto basilare comune: la vocazione specifica del laico è vocazione alla missione.
Il laico cristiano è colui che è chiamato a testimoniare Cristo nelle realtà del mondo. A testimoniare che lo Spirito del Risorto è l’unica forza capace di cambiare l’uomo a tal punto da renderlo soggetto di un’azione realmente trasfiguratrice di sé e del mondo. In questo senso - afferma don Giussani - la vocazione del laico è la vocazione della Chiesa stessa. Non c’è differenza. Perché lo scopo per cui esiste la Chiesa, così come già gli Atti degli Apostoli ce ne descrivono la vita, non è che la missione, la testimonianza della novità di Cristo, la diffusione del Suo Spirito nel mondo. Recita ancora il direttorio dei Memores Domini: «Uno solo è il compito che la vocazione istituisce: la missione, cioè la “passione di portare l’annuncio cristiano con la propria persona trasformata dalla memoria”. (…) Non si dà vita cristiana dignitosamente vissuta se non nella percezione della propria personalità come chiamata a questo compito, ad imitazione di Cristo stesso che si è incarnato “per” gli uomini».32
La vocazione del laico coincide tout court con la vocazione della Chiesa: mostrare al mondo Cristo Risorto, presente e visibile nella comunione dei battezzati, Suo mistico Corpo. Se così noi comprendiamo la natura della Chiesa, si capisce subito come
per Giussani, essere laico «non solo non è un “di meno”, ma in un certo senso tutto, nella Chiesa, è in funzione del laico. Perché tutto è in funzione della manifestazione, nel mondo, di quella “Gloria” che Cristo chiede al Padre all’inizio del 17esimo capitolo di san Giovanni».33 Il problema del ruolo del laico nella Chiesa, in una tale prospettiva, smette di essere un problema. E infatti paradossalmente, proprio in un movimento così fortemente laicale come Cl, non è mai stato sentito come tale. Negli esercizi di Lecceto dell’89 don Divo fa un’affermazione quasi identica. Scrive coi toni forti propri della sua inconfondibile “toscanità”: «La salvezza del mondo è opera soltanto del laicato cristiano (…). Per quanto riguarda la collaborazione alla Chiesa una, il compito dei laici è superiore al compito dei preti, dei vescovi, del Papa stesso. Non perché sia più importante, ma perché è più vasto. Un papa si deve contentare di dare delle direttive sul piano spirituale, perché il potere del sacerdozio ministeriale riguarda direttamente soltanto le anime; sui corpi e su tutto ciò che è temporale il suo potere è indiretto. (…) Mentre il laico ha un potere diretto. Potere diretto su tutto l’ambito della vita sociale, su tutto l’ambito della politica, su tutto l’ambito di una attività che riguarda i valori del mondo. È attraverso questo potere sacerdotale che ha il laico che tutto viene orientato verso il Cristo».34
8. Due personalità universali
cioè veramente cattoliche

A conclusione, devo ora dire la seconda ragione per cui ho accettato l’invito. È questa: una delle molte cose che accomunano Giussani e Barsotti è l’amore di entrambi per la Russia, dove da un anno mi trovo a lavorare. Un amore tutt’altro che sentimentale. Un amore radicato in uno studio appassionato e approfondito della grande tradizione spirituale russa, studio che ha caratterizzato in modo curiosamente parallelo la giovinezza di entrambi e ha lasciato, a mio avviso, pur in modi diversi, in entrambi un segno indelebile. Il primo libro di Barsotti, uscito nel ’49, è non a caso quel Cristianesimo russo di cui nel ’60 così scrive: «Il primo libro che ho scritto è stato sul cristianesimo russo. E Dio non ha mai permesso che io mi allontanassi da questo argomento, perché o lo studio dei Padri greci o la conoscenza della spiritualità orientale sono stati al centro di ogni mia preoccupazione. Ma oltre che una certa preoccupazione di studio, era un movimento spontaneo della mia anima che mi faceva sentire come la santità che Dio aveva realmente donato all’Oriente, era una santità normativa per me, prima che per gli altri». Negli stessi anni in cui Barsotti si appassiona alla spiritualità orientale, Giussani a Venegono si interessa allo studio della filosofia religiosa russa, da cui resta profondamente segnato. Dirà più tardi
di aver ricevuto dall’ortodossia russa soprattutto due idee centrali, quella di sobornost e quella di trasfigurazione. Mi sono fermato su questa coincidenza perché sono convinto che ci possa aiutare a illuminare ciò che di più profondo, al di sotto di temperamenti apparentemente molto diversi, per non dire opposti, accomuna don Giussani e don Divo Barsotti. E lo direi così: l’apertura veramente universale, cattolica della loro anima. Il dono di una spontanea, quasi nativa cattolicità, nel senso più intenso del termine: nel senso cioè di una capacità di raccogliere, valorizzare, integrare in sé tutto quello che di buono, di sano, di vero, di bello si incontra al di fuori di sé, anche nei luoghi più impensati. E ciò non per motivi strategici di conquista. Ma per quella «simpatia curiosa» (il termine è di don Divo) che domina l’anima cattolica veramente grande, verso tutto ciò che esiste: «Ex uno Verbo omnia et omnia loquuntur unum»: tutto l’esistente, sia in quanto realtà creata sia in quanto manifestazione autentica dell’umano, è fonte di arricchimento nella conoscenza dell’unico Verbo di Dio. Giussani a questo proposito citava sempre san Paolo: «Vagliate tutto, trattenete il Bello». L’interesse per il cristianesimo russo, maturato per entrambi in anni in cui un tale interesse era ancora tutt’altro che di moda, è solo un esempio. Ma si può e si deve citare l’amore dei nostri per il Leopardi. Non è un mistero che Giussani, ancora seminarista, recitasse come preghiera di ringraziamento dopo la Comunione, la poesia Alla sua donna. Non tanto poiché vi leggeva una inconsapevole profezia dell’Incarnazione, quanto perché la potenza poetica con cui il genio di Leopardi l’aveva espressa aiutavano la sua preghiera più di qualsiasi preghiera tradizionale. «Ho bisogno - scrive Barsotti - di tutta l’esperienza umana di un Leopardi, di un Manzoni, perfino di un Carducci e di un D’Annunzio, di un Ungaretti, per vivere io, anche come cristiano, non soltanto come uomo. Ho bisogno di questa esperienza, ho bisogno di questo pensiero, anche se è in gran parte estraneo al cattolicesimo (…). Io ho bisogno di tutto il mondo. Tutto il mondo deve essere integrato in me; io ho bisogno di avvicinarmi a tutto, di alimentarmi di tutto, perché in me tutto divenga cristiano».35

lunedì 28 aprile 2014

Non ti arrendere mai

Non ti arrendere mai
***
  «Non ti arrendere mai, neanche quando la fatica si fa sentire, neanche quando il tuo piede inciampa, neanche quando i tuoi occhi bruciano, neanche quando i tuoi sforzi sono ignorati, neanche quando la delusione ti avvilisce, neanche quando l'errore ti scoraggia, neanche quando il tradimento ti ferisce, neanche quando il successo ti abbandona, neanche quando l'ingratitudine ti sgomenta, neanche quando l'incomprensione ti circonda, neanche quando la noia ti atterra, neanche quando tutto ha l'aria del niente, neanche quando il peso del peccato ti schiaccia... Invoca il tuo Dio, stringi i pugni, sorridi... e ricomincia».
(Leone Magno, Papa e Santo della Chiesa Cattolica)

domenica 27 aprile 2014

Sostituire i figli con un cane, l'ultimo "capolavoro" della mentalità borghese

SPILLO/ Sostituire i figli con un cane, l'ultimo
"capolavoro" della mentalità borghese
                                                                                ***
Federico Pichetto
domenica 27 aprile 2014
Negli ultimi anni nel nostro paese il fronte "pro animalibus" è andato rafforzandosi: i programmi delle televisioni
commerciali, le serie tv made in Italy e gli stessi spot pubblicitari hanno incrementato notevolmente la sensibilità
collettiva nei confronti del mondo degli animali domestici. Alcune formazioni politiche in difficoltà hanno
addirittura individuato nella "causa animalista" uno dei possibili ambiti dove intercettare nuovi consensi.
Ex ministri e personaggi del mondo dello spettacolo si lanciano sovente in campagne di difesa di quella o di
questa specie fino a denunciare "l'orrenda strage di agnelli" durante il periodo pasquale. Una nota testata
nazionale ha perfino postato nei giorni scorsi un video dove alcuni cani "pregano" prima di mangiare e
zelantemente sparecchiano le loro ciotole al termine del pasto.
Il cane e il gatto, infine, paiono essere diventati uno status symbol dei trenta-quarantenni single a "caccia" di
compagnia o di un'anima gemella: portare a passeggio il cane con la tuta da ginnastica e il cappellino – magari
armati di ipod per ascoltare la musica – sta diventando uno dei principali "vezzi" della borghesia delle grandi e
piccole città della penisola e non sono poche le coppie che, volendo "avere un figlio", decidono prima di prendere
un cane per allenarsi. Che cosa c'è dietro a questo fenomeno? Perché chi non ha grande simpatia per il mondo
animale viene additato come un mostro, privo di sensibilità e di umanità?

Il cane, come il gatto o come qualunque animale domestico, è nettamente meno rischioso di un marito o di una
moglie perché mira – molto semplicemente – alla soddisfazione degli istinti primari ed entra facilmente in
empatia col proprio padrone. Gli animali eliminano all'uomo la fatica della "diversità", il confrontarsi – come
diceva il buon Hegel – con un appetito simile a quello dell'uomo. Gli animali hanno desideri diversi dall'uomo,
desideri che noi possiamo facilmente appagare e soddisfare, desideri che ci restituiscono gratificazione e
consistenza affettiva.

Infatti la cosa più difficile per ogni uomo è "essere solo", stare in contatto con la propria solitudine, che non è
appena l'assenza di compagnia, ma è l'estrema consapevolezza che dinnanzi alla realtà – ultimamente – ci sono
solo e semplicemente "io". L'esempio dei "cani che pregano" è forse quello più emblematico: ci vogliamo illudere
che gli animali possano vivere le stesse esperienze dell'uomo – perfino quella religiosa – per sostituirli
risolutamente ai nostri simili, a quelli che quotidianamente incontriamo sull'autobus o sul posto di lavoro.
Il cagnolino sì che ci dà soddisfazione: esso è capace di starci accanto, di riconoscere tutto quello che noi
facciamo per lui e – quindi – di evitarci la domanda più vera dell'esistenza: quella sul perché delle nostre azioni e
del nostro stesso agire, quella che chiama in causa la capacità di fare non per un riconoscimento, ma per una
pienezza, non per un dovere, ma per una gratuità. I nostri fratelli uomini ci restituiscono alla vita arrabbiati,
stupiti, delusi, commossi, mai sazi e inquieti. Gli animali, invece, ci danno tranquillità, sicurezza, senso di noi
stessi. Fin da quando sono piccolo io amo gli animali, soprattutto i cani. Eppure questo mio amore mi ha sempre
interrogato su che cosa io chieda a chi mi sta accanto quotidianamente: spesso, e lo dico con un po' di vergogna,
io chiedo ai miei amici di "stare a cuccia", di "darmi la zampa", di "consolarmi strusciandosi tra le mie gambe".
Ho sempre avvertito i miei cagnolini come affidabili, intelligenti, comprensivi e non ho mai pensato di loro le
cose orribili che spesso penso dei miei simili. Proprio questo, e proprio il fatto che sono le persone semplici a
percepire con più forza tutto il "potere dei cani", mi ha fatto capire nel tempo che io per crescere e per amare h
o
bisogno soprattutto di un altro Io. Un Io che risvegli in me tutto il disagio di essere uomo e tutta la domanda di
verità, di giustizia, di bellezza e di felicità che attraversa ogni mio istante e che – proprio perché drammatica – mi
spinge a chiedere, mi "costringe" a pregare.

Un cane può imparare a stare zitto e a fare tutto quello che gli insegno, ma non potrà mai sentire l'urgenza che ho
io nel c
uore di afferrare la vita e di guardarla in faccia. Voler bene agli animali è certamente segno di un grande
cuore. Chiedere loro di diventare i compagni del nostro viaggio è, invece, un modo molto astuto per evitare di
viaggiare davvero. E di sbattere il "nostro musetto" verso tutto l'abisso che porta con sé ogni uomo che si imbatte
con la nostra povera vita.

Un poeta nel cinema: intervista ad Andrej Tarkovskij

Un poeta nel cinema:

 intervista ad Andrej Tarkovskij 

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Inauguro questa sezione riportando l’intervista del grande regista russo, Andrej Tarkovskij, realizzata da Donatella Baglivo nel documentario “Un poeta nel cinema” (1984). Osserviamo un Tarkovskij che cammina in mezzo al bosco vicino ad un piccolo ruscello, mentre la sua voce sottile danza con il gioco sonoro dell’acqua. E’ uomo dentro e in mezzo alla natura, che trova in essa il suo essere completo. In tutto il suo percorso cinematografico, possiamo parlare di un’assoluta coerenza poetica che sembra maturare ed evolversi fino all’ultimo film Sacrificio. Negli ultimi anni la voce di Tarkovskij si è spenta, in quanto si preferisce parlare di altri registi e di un cinema che non ha nulla a che fare con l’arte. Poesia, riflessioni sulla natura, sull’interiorità dell’uomo, possono però risvegliare in noi lo spazio e la realtà in cui viviamo, come viene posta ed esperita dalla coscienza individuale. Tarkovskij, nella sua concezione poetica della vita, ci porta a riscoprire il valore antico e più semplice dell’esistenza.

Chi sei?

Io non so chi sono e, a mio parere, chi siamo è quello che ognuno di noi sa con minore esattezza. E’ molto più facile esprimere il giudizio sugli altri. Di noi stessi sappiamo molto poco e il problema è che siamo incapaci di rivolgerci con attenzione ai problemi interiori dell’uomo.

Sei felice di essere venuto al mondo?

Felice non è la parola giusta. A mio parere questo mondo non è un luogo dove vivere felici e non è stato creato per la felicità dell’uomo, anche se sono in molti a pensare che è questa la ragione della propria esistenza. Penso che siamo su questa terra per lottare affinché dentro di noi lottino il bene e il male, perché il bene vinca e noi ci si arricchisca spiritualmente.
Andrej parlami della tua infanzia

La mia infanzia la ricordo molto bene perché è stato il periodo più importante della mia vita. Quello che ha fissato le impressioni e quello che ha poi preso corpo successivamente nel periodo adulto ed è quel momento nella vita dell’uomo che ne determina tutto il suo futuro, specialmente se è un futuro legato all’attività creativa, all’arte, ai problemi interiori, psicologici. Già Anna Achmatova, la grande poetessa russa, parlava dell’importanza dell’infanzia, quell’infanzia che la sostenne per tutta la vita nella sua opera. In una parola, l’uomo con l’infanzia nutre tutta l’attività creativa del periodo adulto. I miei genitori si separarono nel 1935 o ’36. Vivevo con mia madre, la nonna e mia sorella; in effetti sono cresciuto in una famiglia senza uomini e sono stato allevato da mia madre. Forse questo ha avuto una grande influenza sulla formazione del mio carattere.

La casa della mia infanzia per me è una casetta in un bosco a novanta/cento chilometri da Mosca, dove abbiamo vissuto cinque anni prima della guerra. Ci fu un episodio: un giorno mio padre venne da noi di notte e voleva che mia madre mi lasciasse andare a vivere con lui. Mi ricordo che mi svegliai, sentii quella conversazione, mia madre piangeva e anch’io piangevo ma piano perché non mi sentisse. Avevo già deciso che se anche fosse stata mia madre a chiedermelo, io non sarei mai andato a vivere con lui anche se per tutta la vita ho sentito la mancanza di un padre.

La guerra è stata per noi molto dura. Mio padre era andato al fronte e ci mancava molto. Si continuava ad aspettare lettere che arrivavano solo raramente. Comunque tornò senza una gamba, dopo un’operazione molto difficile in un ospedale militare al fronte. Tornò col grado di capitano e con uno dei riconoscimenti più alti dell’esercito: l’ordine della stella rossa. Due soli pensieri occupavano la mia mente infantile: che la guerra finisse e che mio padre tornasse da noi. Tutta la mia infanzia è legata a mia madre e si capisce, vivevo con lei, mi educava e si prendeva cura di noi. Ebbe una vita molto difficile: aveva terminato quello che adesso si chiama Istituto di letteratura e lì conobbe mio padre, ma quando ci lasciò ella non poté più occuparsi di letteratura e con due figli sulle spalle non riuscì a dare gli esami per avere in mano qualche diploma e andò a lavorare in una tipografia di Mosca. E tutto quello che ho avuto nella vita e le cose più belle che ho, le devo a mia madre, ai sacrifici per farmi diventare quello che sono adesso. Ci fu un momento veramente difficile nella mia vita: ero finito in una vecchia compagnia ed ero molto giovane, avevo circa vent’anni e mia madre mi salvò in un modo molto particolare mandandomi a lavorare con un gruppo di geologi in Siberia dove rimasi un anno intero. Lavorai laggiù come raccoglitore, un semplice operaio. A piedi girai le distese di neve nella taiga. La Siberia, ancora oggi, è rimasta uno dei miei ricordi più belli.

Adesso pensi di aver trovato quello che cercavi da bambino?
Non lo so, è una domanda difficile. E’ evidente che mia madre voleva che io mi dedicassi all’arte, che la mia vita fosse legata all’arte. L’esempio di mio padre era stato per lei importantissimo; lo amò molto, fino alla fine dei suoi giorni. Voleva che gli assomigliassi in qualche modo e così mi ritrovai nell’arte. Non divenni pianista, né direttore d’orchestra, come avrei voluto, né pittore, scultore, tutte cose che pure avevo studiato. A volte mi domandano se ho dei rimpianti. Certo mi dispiace non occuparmi di musica, non essere un direttore d’orchestra, anche perché sarebbe una professione meno dura per me e non si può neanche dire che io in seguito abbia trovato quello che avevo cercato nell’infanzia. Allora non volevo diventare né pittore, né musicista. Il mio carattere somigliava più a quello di una pianta: non pensavo molto, piuttosto sentivo, percepivo.
Quando rivado all’infanzia, mi torna in mente un tempo in cui davanti a me c’era tutta la vita e io ero immortale e tutto era possibile, realizzabile. Chissà se l’infanzia è andata o è rimasta con me. A volte se penso che mi ha lasciato, mi sento perduto. Ritengo però che siano le sensazioni dell’infanzia ad avermi abbandonato ma che lei, l’infanzia stessa, sia ancora accanto a me, come base prima che sostiene la mia attività creativa e anche come spinta alla creazione. Penso che se si fosse perduta nell’oblio, non potrei fare niente nel cinema.

Pensi che la scelta del cinema sia stata per te la strada giusta?

Le mie prime impressioni sul cinema sono state strane; non capivo, non riuscivo a capire che cosa fosse il cinema. Non lo sentivo, non lo percepivo ma sapevo che era una professione dai notevoli aspetti tecnici. Che ci si potesse esprimere con il cinema come con la poesia, la musica o la letteratura, non l’avevo proprio capito. Anche dopo aver girato l’Infanzia di Ivan, non avevo ancora afferrato quale fosse il ruolo del regista. E’ stata una ricerca, un cercare a tentoni dei momenti di contatto con la poesia. E solo dopo aver girato questo film, mi accorsi che era possibile attraverso il cinema venire in contatto con un’essenza spirituale. L’esperienza dell’Infanzia di Ivan è stata per me importantissima perché prima di allora non avevo la minima idea di che cosa fosse in fondo il cinema. Neanche adesso sono così convinto di sapere che cos’è il cinema. A parer mio è un mistero, immenso, come del resto ogni altra forma d’arte.

A quel tempo l’Infanzia di Ivan provocò grosse polemiche fra i critici. Dopo tanti anni cosa ne pensi?

La polemica sull’Infanzia di Ivan fu condotta prevalentemente da Sartre e da Moravia. Quest’ultimo mi criticò e Sartre mi difese. Devo dire comunque che lessi l’articolo di Moravia con estremo interesse. In effetti distruggeva il mio film pezzo per pezzo, ma lo lessi con piacere perché la sua critica era ad un livello così alto, il suo pensiero così preciso e ben formulato che fu quasi un piacere essere criticato da lui. Per quanto riguarda Sartre mi difendeva da posizioni troppo filosofiche e speculative perché la sua difesa mi convincesse.

Per molti il cinema è soltanto un lavoro. Per te Andrej che cos’è il cinema?
Non sono mai riuscito a separare la mia vita dai film che facevo. I film sono sempre stati per me una parte della mia esistenza e per poter girare un film ho sempre dovuto operare delle scelte fondamentali. Molti riescono a separare la propria vita dai film che realizzano. Conosco molti che vivono in un modo e nei film dicono tutt’altra cosa, esprimono tutt’altre idee. Riescono a scindere la propria coscienza dai film che fanno. Io non ci sono mai riuscito: per me il cinema non è una professione, è la mia vita ed ogni film lo considero un azione della mia vita.

Che ne pensi del cinema d’autore?
Per me coloro che rimarranno nella storia del cinema come autori, sono tutti poeti. A mio avviso esiste una legge: il cinema d’autore è un cinema di poeti e tutti i grandi registi contemporanei sono dei poeti.
Ma che cos’è un poeta nel cinema? E’ un regista che crea il proprio mondo e non tenta di riprodurre la realtà che lo circonda. Ed’è questo loro cinema che noi definiamo d’autore: cinema poetico.

Andrej tuo padre era già allora uno dei più grandi poeti russi. Parlami di lui.

Mio padre è senz’altro il più grande poeta russo, con una possente intonazione lirica e carica spirituale nella sua poesia. E’ un poeta in forma pura, un poeta per il quale la cosa principale è il concetto interiore, spirituale della vita, il senso del debito profondo che egli avverte nei confronti della propria terra, della propria patria e del proprio ruolo.
Che cos’è l’arte?

Prima di formulare un concetto, in questo caso sull’arte, dobbiamo rispondere a un’altra domanda molto più vasta, ovvero qual è il senso dell’esistenza dell’uomo su questa terra. Forse il fine nostro su questa terra è quello di innalzarci spiritualmente. Se la nostra vita tende a questo arricchimento spirituale, l’arte è uno dei mezzi per arrivarci. Si, almeno così io ritengo, in armonia con la mia definizione sul senso della vita. Non so, c’è chi afferma che l’arte serva all’uomo per conoscere il mondo, che l’arte è conoscenza come qualunque altra attività intellettuale dell’umanità. Io, tanto per cominciare, non credo troppo a questa possibilità di conoscenza. Essa ci distoglie sempre più da quello che dovrebbe essere lo scopo principale della nostra vita, e quanto più ne sappiamo, tanto meno ne sappiamo perché andando in profondità, perdiamo in ampiezza. L’arte serve all’uomo per elevarsi spiritualmente, innalzarsi al di sopra di se stesso, per usare ciò che noi definiamo “libero arbitrio”.La pressione cui è sottoposto Rublev non è un’eccezione: ogni artista è sempre sottopressione e non lavora mai in condizioni ideali. Inoltre, se tali condizioni esistessero, forse non esisterebbe il suo lavoro perché l’artista non vive in un vuoto senz’aria. Una pressione deve esserci anche se non saprei dire di che tipo. E l’artista esiste proprio perché il mondo non è perfetto e l’arte non sarebbe necessaria a nessuno se il mondo fosse il regno dell’armonia e della bellezza. L’uomo non ricercherebbe in occupazioni collaterali l’armonia perché vivrebbe già in essa. L’arte nasce da un mondo mal congeniato, ricerche di accordi e di significati che si esprimono nei rapporti armonici tra gli uomini, tra l’arte e la vita, tra il tempo e la storia. Un altro tema per me molto importante è quello dell’esperienza dell’uomo. Con questo film volevo dire che non è possibile trasmettere la propria esperienza personale, imparare da qualcuno a vivere. Bisogna solo vivere e trarne qualche conclusione che non puoi lasciare agli altri in eredità. Spesso si sente dire: bisogna usare l’esperienza dei nostri padri. Ma sarebbe troppo semplice perché ognuno di noi deve farsi per conto proprio una sua esperienza e quando ci arriviamo è il momento di morire, purtroppo, e non abbiamo il tempo di usarla. Intanto vengono su le nuove generazioni che si rifiutano di ascoltare i vecchi e fanno bene, cercano una loro esperienza e quando la trovano anche la loro vita è alla fine. E’ la legge della vita, il suo significato.
Il cinema è la forma più infelice d’arte, in quanto dipende in misura notevolissima al denaro e non soltanto perché un film costa molto, ma anche perché se ne fa commercio come con le gomme da masticare o le sigarette. Il principio è che un film è buono se si vende bene e se noi pensiamo che il cinema è arte, ci sembra allora assurdo impostare così il problema in quanto sarebbe assurdo dire che l’arte è buona soltanto se la si vende bene. Se vogliamo attrarre le masse, non possiamo aspettarci opere di grande ingegno poetico.

Che cosa ne pensi della scienza, nel bene e nel male?

Si può dire che dopo un lungo processo storico, siamo arrivati nella nostra civiltà a un punto di terribile conflitto all’interno dell’uomo perché c’è un enorme dislivello tra il progresso scientifico e quello spirituale. E noi continuiamo ancora ad aumentare questo dislivello, motivo principale della nostra drammatica situazione. Siamo una civiltà al limite della distruzione atomica, proprio a causa di tale divario tra queste sfere dell’uomo.

E tu, come ti poni nei confronti del mondo?
Tendo ad avere un approccio con il mondo più a livello emotivo e contemplativo. Non cerco di ragionarci su, ma di percepirlo quanto può fare un animale o un bambino e non un adulto che è in grado di ragionare sulla vita traendone le conclusioni.

Andrej cosa vuoi dire ai giovani?

Vorrei semplicemente che imparassero ad amare di più la solitudine, a stare a tu per tu con se stessi. Mi sembra che il guaio della gioventù sia quello di tendere ad aggregarsi per portare avanti un azione rumorosa, addirittura aggressiva per non sentirsi soli, il che è piuttosto triste. L’individuo deve imparare fin dall’infanzia a vivere da solo e questo non significa essere soli. Significa non annoiarsi con se stessi, che è un segno di pericolo, quasi di malattia.

Ami i bambini?
I bambini sono innocenti così come gli animali, che lo sono proprio per la loro natura. Invece l’uomo, che ha la capacità di scegliere tra il bene e il male, impara poco a poco a mentire perché così ritiene di poter vivere con maggiore felicità e di ottenere un maggior numero di beni. Prima magari con la sola diplomazia, per passare poi alle menzogne vere e proprie.

Cosa rappresenta per te l’acqua?
L’acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi piacciono molto, è un’acqua che mi racconta molte cose. Il mare, invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno spazio troppo vasto per me. Non mi fa paura, è semplicemente una superficie troppo monotona. A me, per il mio carattere, sono più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell’infinito.


Hai mai conosciuto la miseria?
Ho fatto la fame, la fame sul serio, cioè quando non puoi sperare in un pezzo di pane per il giorno dopo. E’ una sensazione dura, che umilia l’individuo, ma che ti insegna anche la compassione per gli altri. Chi ha fatto veramente la fame non potrà mai essere avido

Che cos’è la ricchezza?
Per me la ricchezza non significa niente di speciale, mi potrebbe solo garantire quel tipo di vita che vorrei vivere e dato che io desidero una vita molto semplice, non credo che vorrò mai essere ricco. La ricchezza è una cosa relativa e l’uomo non ha bisogno di essa perché quando ce l’ha comincia a cambiare dentro, diventa avido, comincia a difendersi dagli altri, a difendere la propria ricchezza e poi ne diventa schiavo.
Che cosa ti spaventa di più nella vita?
Avverto la natura inerme dell’essere umano, compresa anche la mia, la nostra debolezza davanti al mondo e alla natura, soprattutto di fronte ad un altro essere ostile. Scontrarsi con l’ostilità umana è la cosa peggiore che possa esistere.

Che opinioni hai riguardo la donna?

La cosa a cui più tengo è che la donna rimanga tale. Io non capisco quando una donna chieda dalla vita qualcosa di diverso, un approccio particolare, non più come donna ma quasi come uomo. Le donne la chiamano eguaglianza. La bellezza della donna, il suo essere unica, sta proprio nella sua essenza che non è diversa, bensì opposta a quella dell’uomo. Mantenere questa propria essenza è il suo dovere più importante. Io non ho mai trovato una donna attraente priva delle sue prerogative, compresa la debolezza, la femminilità, il suo essere l’incarnazione dell’amore in questo mondo. Ho un grande rispetto per le donne.
  da: http://sofiarondelli.blogspot.it/2010/07/un-poeta-nel-cinema-intervista-ad.html?m=1

Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso

Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso 1

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Autore: De Ponti, Claudio  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it

Il viaggio ha sempre affascinato l'uomo perché è la metafora più semplice ed adeguata per descrivere il cammino umano: “homo viator”. Il "punto di fuga" è un aspetto dell'esperienza che l'uomo compie, per cui l'orizzonte non è vagliato totalmente. La realtà è sempre segno che rimanda ad altro, a un punto di fuga che suscita interrogativi e di cui la ragione deve tener conto.

"Il bottaio deve intendersi di botti.
Ma io conoscevo anche la vita,
e voi che gironzolate fra queste tombe
credete di conoscere la vita.
Credete che il vostro occhio abbracci un vasto
orizzonte, forse,
in realtà vedete solo l'interno della botte.
Non riuscite a innalzarvi fino all'orlo
e vedere il mondo di cose al di là,
e a un tempo vedere voi stessi.
Siete sommersi nella botte di voi stessi –
tabù e regole e apparenze
sono le doghe della botte.
Spezzatele e rompete la magia
di credere che la botte sia la vita,
e che voi conosciate la vita!"
E. L. Masters - "Griffy il bottaio", in Antologia di Spoon River


"Sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là»"
E. Montale - "Maestrale"


Quel "punto di fuga", quel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cui la conoscenza di qualsiasi cosa segnala l'insopprimibile esigenza di qualcosa d'altro oltre i fattori razionalmente dimostrabili. La ratio, la ragione non decifra il Mistero, ma rivela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana


"Ciascun confusamente un bene apprende
nel qual si queti l'animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende"
Dante - Purgatorio XVII, 127-129


"Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovvero con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? Che vuol dir questa
solitudine immensa? Ed io che sono?"
G. Leopardi - "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"


Il senso religioso definisce la natura dell'uomo, in quanto esprime le domande sul senso ultimo della vita. Il senso religioso è quindi quella caratteristica che qualifica il livello umano della natura, quello in cui essa prende coscienza di sé.


Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?
G. Ungaretti - "Dannazione"


Queste domande, proprio in forza della loro profondità, esigono una risposta totale. L'uomo quanto più tenta di rispondere a queste domande di significato, tanto più capisce di non esserne capace: la coscienza della sproporzione rispetto alla risposta totale che le domande esigono accompagna l'uomo nel suo cammino di ricerca del perché ultimo della vita.
L'uomo, se è leale in questa sua ricerca, ammette che la risposta alle domande fondamentali sta sempre oltre il limite cui arriva con la forza della sua ragione. La risposta sta in un insondabile Mistero cui l'uomo tende, ma che non riesce ad afferrare.
Questa dinamica esistenziale ha un riverbero di tristezza, si esprime cioè come desiderio di un bene che rimane inafferrabile. Tristezza come "desiderio di un bene assente", diceva san Tommaso


"Qualunque cosa tu dica o faccia
c'è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!"

C. Rebora - "Sacchi a terra per gli occhi"


"Non c'è cosa più amara
che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà.
Non c'è cosa più amara che l'inutilità.
La lentezza dell'ora è spietata
per chi non attende più nulla"
C. Pavese – "Lo steddazzu"
"Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa?
E allora perché attendiamo?"

C. Pavese – da "Il mestiere di vivere"


Strutturalmente l'uomo attende, strutturalmente è mendicante; la vita consiste nell'attesa di un bene verso cui si tende ma che non si riesce a cogliere. L'uomo pone la domanda di un destino buono, domanda che implica la necessità di una risposta. L'essere umano porta dentro fin dall'origine la promessa di una risposta soddisfacente alle sue domande ultime, così che la vita diventa attesa che questa promessa si compia.
Solo l'ipotesi del Mistero come realtà è risposta adeguata al tipo di domanda che esprime il senso religioso dell'uomo:


"Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco.
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?
Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?"

P. Lagerkvist - "Uno sconosciuto è il mio amico"


La tristezza è il segno supremo e sottile della struttura del vivere umano: la tristezza della vita è il segno di un'altra vita, di una "riva lontana" che sappiamo "confusamente", direbbe Dante, debba esistere. Che poi dalla "riva lontana" abbia a giungere un battello, così che il mare dell'esistenza possa essere solcato per tutte le sue gioie e dolori con sicurezza, non è nelle nostre forze.
Ma che la vita sia triste, e fortunatamente, altrimenti sarebbe disperata, è il contenuto di una coscienza geniale, cioè più umana, di cosa sia il vivere.
Il vero umorismo scaturisce dalla malinconia… (cfr. l'ironia manzoniana)


"Quella noia significa che, nelle cose, noi cerchiamo, appassionatamente e dappertutto alcunché che le cose non possiedono. [
…] Si cerca e ci si sforza di prendere le cose così come si vorrebbe che fossero; di trovare in esse quel peso, quella serietà, quell'ardore e quella forza compiuta delle quali si ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all'assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto… Non c'è nulla, per cui valga la pena di esistere. Non c'è nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo. […] Noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito. […] Proprio l'uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell'esistenza. […] Per conto mio, io credo che di là da qualsivoglia considerazione medica e pedagogica, il suo significato sta in questo che è un indizio dell'esistenza dell'assoluto. L'infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore. La malinconia è espressione del fatto che noi siamo creature limitate, ma viviamo a porta a porta con… ebbene sì, abbandoniamo alla fine il termine troppo prudenziale e astratto, di cui ci siamo serviti sinora: il termine di "assoluto"; scriviamo, al suo posto, quello che solo si addice: viviamo a porta a porta con Dio. Siamo chiamati da Dio, eletti ad accoglierlo nella nostra esistenza. La malinconia è il prezzo della nascita dell'eterno nell'uomo. […] La malinconia è l'inquietudine dell'uomo che avverte la vicinanza dell'infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo"
R. Guardini - Ritratto della malinconia


"Aveva saputo toccare nel cuore del suo amico le corde più profonde e provocare in lui la prima sensazione, ancora indefinita, di quella eterna santa tristezza che qualche anima eletta, una volta che l'abbia assaporata e conosciuta, non scambierà poi mai più con una soddisfazione a buon mercato (vi sono anche certi amatori così fatti che questa tristezza hanno più cara della soddisfazione più radicale, ammesso che una simile soddisfazione sia possibile)"
F. Dostoevskij - I demoni


La tristezza è la coscienza drammatica della sproporzione tra il destino ideale dell'uomo e tutto ciò che si fa per raggiungerlo L'opposto della tristezza è la disperazione, in quanto annulla la tensione delle domande ultime, negando che una risposta sia possibile.
Una tale coscienza considera il problema umano senza censurare nulla, né la "rugosa realtà" come scriveva Rimbaud, né la promessa che il cuore e la mente umani – se sono "giovani" – avvertono nella sfida delle circostanze, né la inevitabile delusione che si proietta sull'esistenza e che però non nega la natura di aspettativa del cuore.
Chi invece censura uno solo di questi fattori, inizia il terribile gioco delle censure che getta la vita nella disperazione. Tale è la sorte dell'orgoglio umano: pur di non riconoscere che la sua grandezza sta nella povera nostalgia di qualcosa che non è nelle sue forze, preferisce negare l'esistenza del reale (Laura Cioni)


"Il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nel senso che è senza inquietudine. Forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell'inquietum cor meum agostiniano"
(Augusto Del Noce). Un io dove non c'è più desiderio. Manca quell'inquietudine del desiderio presente invece in Leopardi (cfr. La sera del dì di festa)
Nella stessa ottica Montale descrive i preparativi che si effettuano prima di partire per un viaggio. Un viaggio moderno, in cui tutto è previsto nei minimi particolari. La meccanicità di questi movimenti, che pure preparano ad un evento, a una vacanza, è enfatizzato dall'accumularsi di oggetti e di azioni. Numerosi e senza senso. E dove manca il necessario: il "mio viaggio"


"Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le pernottazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano le guide Hachette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prima del viaggio s'informa
qualche amico o parente, si controllano
valige e passaporti, si completa
il corredo, si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dà un'occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla;
prima
del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
……………………………………
E ora, che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l'ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo"
E. Montale - "Prima del viaggio", in Satura (1962-1970)


Un "imprevisto" è altro dal viaggio, eppure contiene la possibilità di dire "mio". I saggi di questo mondo, spesse volte compreso lo stesso Montale, ripetono che è "una stoltezza dirselo", negando un'ultima apertura alla possibilità che accada qualcosa di "imprevisto" e cioè che il miracolo passi per caso sulle nostre strade consuete. Come è stato per Zaccheo. Proprio all'usuraio di Gerico, Montale dedica una breve lirica:


"Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
per vedere il Signore se mai passi.
Ahimè, non sono un rampicante ed anche
stando in punta di piedi non l'ho mai visto
E. Montale - "Come Zaccheo", in Diario del '71


L'opposto di meccanicità (e sinonimo di imprevisto) è gratuità. Per Zaccheo quel brillare di un attimo, che evidentemente non "appartiene" all'uomo, ha abbracciato la vita, mosso verso il riconoscimento di qualcuno. È forse la distanza che passa tra il vero imprevisto e la meccanicità. (Leone Piccioni)


Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso 2


Autore: De Ponti, Claudio  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
Positivo è infine il movente dell'ultimo viaggio dell'Ulisse dantesco: il desiderio ardente di conoscere, il bisogno profondamente umano di vedere ciò che è oltre. Tale urgenza esplode in tutta la sua forza davanti alle colonne d'Ercole. Egli ha solcato più volte il Mediterraneo, in lungo e in largo; ma ben più affascinante è in lui l'ignoto, ciò che è al di là del limite non valicato e che non può essere posseduto con certezza come il Mare Nostrum. Il buon senso comune si fermerebbe di fronte alle colonne d'Ercole, ma a prezzo di una rinuncia incalcolabile: perché il cuore, la ragione, proiettati per loro stessa natura verso l'infinito, esigono di andare e di affrontare il rischio:

"O frati
- dissi - che per cento milia
perigli siete giunti all'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza".

Dante - Inferno XXVI, 112-120

È l'uomo che grandeggia in questi versi, l'uomo che decide di essere se stesso seguendo il richiamo del suo cuore ad andare oltre se stesso, l'invito della realtà ad oltrepassarla.

"E volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo
sempre acquistando dal lato mancino".
Dante - Inferno XXVI, 124-126

Ed eccoli navigare nell'ignoto per cinque mesi circa, finché una montagna d'inusitata altezza confusamente appare all'orizzonte. Ma la gioia per questa visione dura poco: un vento turbinoso sprigionatosi dalla terra sconosciuta investe la nave, la fa girare tre volte su stessa e poi sprofondare negli abissi "com'altrui piacque" (Inf., XXVI, 141). La tragedia è consumata; e il mare si rinchiude sopra quel pugno di coraggiosi e sopra le loro speranze, per sempre.
I mezzi per spingersi nell'immenso oceano del significato della vita non erano adeguati e il naufragio era inevitabile, come Ulisse stesso nella narrazione riconosce, definendo quell'impresa "folle volo". Tale naufragio non va però inteso come un castigo divino, ma come riaffermazione di limiti non violabili a fronte di un eccesso di maganimità. Il folle volo non è un viaggio peccaminoso, ma un viaggio destinato all'insuccesso perché un pagano come Ulisse non ha i mezzi adeguati per affrontarlo. Folle, ma non empio.
Ancora una volta è ribadita da Dante l'impossibilità del pagano, in quanto privo della Grazia e della luce della fede, di raggiungere con le sue sole forze la Verità, Dio stesso, di cui è simbolo la "montagna, bruna per la distanza" (Inf., XXVI, 134).
Resta però la grandezza dell'uomo che decide di vivere secondo il palpito più profondo del suo cuore e gli interrogativi più veri della sua ragione.
Il fascino di Ulisse è quello di un'umanità tutta tesa al destino, di un'umanità che per questo splende in tutta la sua creaturale grandezza. Come dice il Fubini: "Vinto, l'umanità non è umiliata, ma esaltata in lui" (Valeria Capelli).
La montagna che Ulisse e i suoi compagni hanno potuto intravedere in lontananza è quella del Purgatorio, sulla cui sommità è collocato il Paradiso terrestre, quella stessa montagna che a Dante sarà dato, per grazia, di percorrere. Dante, dunque, è destinato a veder compiuto nella sua esperienza il desiderio di Ulisse e il suo viaggio non sarà "folle", timore che egli stesso aveva dichiarato a Virgilio nel canto II dell'Inferno, perché tale esperienza gli sarà donata. Ecco, il punto è proprio questo: il desiderio di Ulisse è giusto ed è connaturato allo stesso essere dell'uomo, ma il tentativo di esaudirlo solo con la propria volontà e scaltrezza è peccato, anzi è il peccato originale, quello che gli antichi chiamavano hybris, indicando con questo termine un tentativo superbo di trascendere i propri limiti: non per nulla gli dei punivano spesso tale tracotanza con l'accecamento della pazzia (Gian Mario Veneziano).

"…come su una zattera, varcare a proprio
rischio il grande mare dell'esistenza,
a meno che uno non abbia la possibilità
di fare la traversata con più sicurezza
e con minor rischio su una barca più solida,
cioè con l'aiuto di una rivelazione divina".
Platone - Fedone, c. XXXV

Platone, in un suo dialogo, Il Fedone, già quattro secoli prima di Cristo ed al di fuori dell'alveo della rivelazione veterotestamentaria, trattando della possibilità dell'uomo di conoscere le verità religiose e morali così affermava: "Avere di queste cose una sicura conoscenza nella vita presente è impossibile o molto difficile". E dal momento che non è buona cosa arrendersi suggeriva una di queste soluzioni: "o apprendere da altri come stanno le cose, o trovarle da sé, oppure se ciò non è possibile, accettare almeno il migliore ed il meno confutabile dei ragionamenti umani e, lasciandoci portare su questo come su d'una zattera, navigare a proprio rischio attraverso la vita". E poi soggiungeva: "A meno che uno non abbia la possibilità di fare la traversata più sicuramente e con minor pericolo su d'una imbarcazione più solida, e cioè con l'aiuto di una rivelazione divina".