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domenica 31 agosto 2014

Tolstoj


Tolstoj
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Perché un uomo possa vivere, 
egli deve, o non vedere l’infinito, 
oppure avere una spiegazione del senso della vita tale 
per cui il finito venga eguagliato all’infinito»Tolstoj.

«Cinque anni or sono cominciarono a prendermi dei momenti di perplessità, che si esprimevano sempre nelle medesime domande: perché? Be’ e poi? Dapprima mi sembrava che fossero questioni oziose e fuori luogo... Ma le domande sempre più spesso cominciarono a ripetersi e ad esigere sempre più insistentemente delle risposte. Per occuparmi dei miei possedimenti, dell’educazione di mio figlio, per scrivere un libro, devo sapere perché lo faccio... Oppure, pensando alla gloria che mi avrebbero procurato le mie opere, mi dicevo: “E va bene, sarai più famoso di Gogol’, di Puškin, di Shakespeare, di Molière, di tutti gli scrittori del mondo, be’ e poi?”. E nulla, nulla potevo rispondere».
 Così Tolstoj scrive, all’apice della maturità e del successo, nella sua Confessione

  La moglie di Dostoevskij riporta nelle sue memorie queste parole, dettele da Tolstoj poco dopo la morte del marito: 
 «Mi è sempre rincresciuto di non essermi mai incontrato con vostro marito… Come mi dispiace! Dostoevskij era la persona a me più cara, e forse l’unico a cui avrei potuto chiedere tante cose, l’unico che avrebbe potuto rispondermi…».

da:Il fascino di Tolstoj - Meeting Rimini

meetingrimini.org/news/

“Non sono più vulnerabili”

 “Non sono più vulnerabili” 
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C’è qualcosa di peggio dell’avere un cattivo pensiero. È avere un pensiero bell’e fatto. C’è qualcosa di peggio dell’avere una cattiva anima e anche del farsi una cattiva anima. È avere un’anima bell’e fatta. C’è qualcosa di peggio anche dell’avere un’anima perversa. È avere un’anima abituata. Si sono visti i giochi incredibili della grazia e le grazie incredibili della grazia penetrare in una cattiva anima e anche un’anima perversa e si è visto salvare ciò che sembrava perduto. Ma non si  visto bagnare ciò che era verniciato, non si è visto attraversare ciò che era impermeabile, non si è visto ammorbidire ciò che era abituato. …Proprio le persone più oneste, o semplicemente le persone oneste, o insomma coloro che vengono denominati tali, che amano ritenersi tali, non hanno essi stessi difetti nell’armatura. Non sono feriti. La loro pelle morale sempre intatta dà loro un cuoio e una corazza senza difetti. Non presentano quella apertura prodotta da una spaventosa ferita, da un’indimenticabile miseria, da un invincibile rimpianto, da un punto di sutura estremamente mal legato, da una mortale inquietudine, da in’invisibile recondita ansietà, da una segreta amarezza, da un precipitare perpetuamente mascherato, da una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano quell’apertura alla grazia che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, essi non sono più vulnerabili. Poiché non mancano di niente non si dà loro niente. Poiché non mancano di niente non si dà loro ciò che è tutto. La stessa carità di Dio non medica colui che non ha piaghe. Perché un uomo era a terra, il Samaritano, lo rialzò. Perché la faccia di Gesù era sporca Veronica la asciugò con un panno. Ora colui che non è caduto non sarà mai rialzato; e colui che non è sporco non sarà mai asciugato. Le «persone oneste» non si lasciano bagnare dalla grazia. È una questione di fisica molecolare e globulare. Ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia. …. Perciò niente è contrario a ciò che si definisce (con un nome un po’ vergognoso) religione quanto ciò che si definisce morale. La morale ricopre l’uomo contro la grazia. […] La morale è una proprietà, un regime e certamente un gusto della proprietà. La morale ci fa proprietari delle nostre povere virtù. La grazia ci dà una famiglia e una razza. La grazia ci fa figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo
 “Non sono più vulnerabili” 
Nota congiunta su Cartesio e la filosofia cartesiana

“La bussola è impazzita”

“La bussola è impazzita” 
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 Il mondo moderno, lo spirito moderno, laico, positivista e ateo, credono di essersi liberati di Dio e in realtà, per chi vuole oltrepassare le formule, mai l’uomo è stato tanto imbarazzato da Dio. Quando l’uomo si trovava in presenza degli dei, poteva più nettamente rimanere uomo. Essendo Dio al proprio posto di Dio, il nostro uomo poteva rimanere al proprio posto di uomo. Con una ironia veramente amara, è proprio nell’età in cui l’uomo crede di essersi sbarazzato di tutti gli dei che lui stesso non si mantiene più al suo posto di uomo, e che, al contrario, si trova ingombrato da tutti gli dei. Di fronte allo zero-Dio il vecchio orgoglio fa il suo lavoro, lo spirito umano ha perso il suo equilibrio, la bussola è impazzita. 
“La bussola è impazzita” Zangwill

Una cenere intellettuale è caduta su tutto il mondo”


            “Una cenere intellettuale è caduta su tutto il mondo”

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Bisognava che il mondo moderno ottenesse di seppellire silenziosamente l’umanità vivente sotto la polvere cineraria delle sue biblioteche. Una cenere intellettuale è caduta su tutto il mondo.  Un atomo di cenere non è niente e i primi caduti dei primi atomi di cenere sono stati accolti gioiosamente. Non c’era niente di così bello che il cielo cinerino. Finalmente abbiamo dei cieli color cenere. Si cominciava ad averne abbastanza che questo imbecille di cielo fosse blu. E gli alberi. Soprattutto gli alberi. Diventava barboso, tutto questo verde. Oggi che tutto il mondo è rivestito di questo lenzuolo, che tutti i testi spariscono sepolti sotto tutti i commenti, che tutti i testi viventi sono stesi morti sotto la polvere muta e sotto la cenere della chiacchiera delle glosse, che tutti gli spiriti si irrigidiscono in tutte le lettere, che tutti i popoli spariscono sotto le demografie, le società sotto le sociologie, che i monumenti cadono sotto le archeologie, che le nazioni spariscono sotto le demagogie, che perfino tutte le infanzie spariscono sotto le pedagogie, che ogni vita sparisce sotto il sudario della registrazione, che ogni invenzione è morta, che tutti gli istinti si vetrificano in intelletti, che tutte le razze (verticali) si stratificano in classi (verticali), l’umanità si domanda da dove potrà far venire il soccorso».


“Una cenere intellettuale è caduta su tutto il mondo”
Deuxieme élegie XXX

esperienza

 c’è l’esperienza reale e l’esperienza scientifica
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Ci piace accontentarci. Accontentarsi, fermarsi all’apparenza, non farsi troppe domande. L’approfondimento metafisico delle filosofie antiche e delle religioni consisteva nel «passaggio da un reale ad un altro» in «un approfondimento del reale stesso», nel passaggio dall’apparenza al significato. Nel lavoro della scienza moderna, al contrario, si tratta di una sostituzione. Ed anzi si tratta di una sostituzione molto particolare, molto caratterizzata: della sostituzione al reale apparente di un vero meno apparente, e un po’ più razionale, o semplicemente un po’ meno irrazionale, che noi continueremo a nominare il vero scientifico. …. Questo mondo, che ha sempre la parola esperienza in bocca, intesa nel senso tecnico scientifico, nel senso dell’esperienza di laboratorio, è il primo che disprezza l’esperienza propriamente detta, questa crescita incalcolabile e costante, che è della vita stessa, questa entrata perpetua dell’avvenimento totale nell’avvenimento della propria vita. Ci sono due esperienze; c’è l’esperienza come essa è, come esce dal ventre della natura, la terrosa esperienza, tutta piena ancora delle scorie e dei fanghi e della ganga; ribelle dunque, ribelle anche alle leggi
E l’altra esperienza, l’esperienza lavata, ripulita, vestita, abbigliata, con cura, dalle mani dei migliori creatori, resa asettica, presentabile, conforme, comoda, obbediente, di buona fattura, quella che può andare nei saloni, che si potrà condurre nelle Accademie e Società di dotti. In una parola c’è l’esperienza reale e l’esperienza scientifica, l’esperienza fangosa e l’esperienza oggetto di scienza, l’esperienza materiale, ancora tutta piena della sua materia, e così tutta piena di infinito, almeno di un infinito, e l’esperienza intellettuale, sola oggetto di una conoscenza veramente scientifica. Tra queste due esperienze c’è una incomunicabilità. Pensare è rimpiazzato da un operazione che si crede equivalente e non lo è, da una falsa equivalenza di costruzioni e di ragionamenti e di proposizioni che si architettano da se stessi»
 “C’è l’esperienza come essa è. E l’altra esperienza…”
Deuxieme élegie XXX

sabato 30 agosto 2014

LETTERA DI SANT’AGOSTINO ALL’UOMO PER AMARE UNA DONNA IN PIENEZZA E PER SEMPRE

LETTERA DI SANT’AGOSTINO ALL’UOMO PER AMARE UNA DONNA IN PIENEZZA E PER SEMPRE

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1 ottobre 2012 ore 15:56 , scritto da Tiziana Galluso ...
L’Amore, che mistero meraviglioso. L’Amore, ma che immensa fortuna riuscire davvero a respirarne l’odore, a sentirne l’importanza sotto la pelle. Chiudere gli occhi e percepirne la presenza attraverso i brividi tra cuore e pareti intime dell’anima. Tutto scorre dentro in modo fluido libero e cristallino e lo spazio infinito della mente. Leggevo che ..Tra l’innamorarsi e l’Amare c’è molta differenza. Quando una persona si innamora non lo fa apposta: succede. Ma dopo, per amarsi bisogna sudare..soffrire..ridere..stare svegli .. donarsi…fidarsi.. sacrificarsi …comprendersi…tutelarsi.. rimanere insieme in costante cammino, cadere e rialzarsi più uniti innamorati e forti di prima. L’Amore non succede. L’Amore si fa…
Una delle descrizioni più belle secondo me è questa: L’amore,è quello che resta del fuoco che arde quando la fase dell’innamoramento si è consumata. Bisogna solo riuscire a capire se le radici sono così inestricabilmente intrecciate che è inconcepibile il solo pensiero di separarle…
Ieri ho letto questa lettera che definire “meravigliosa” potrebbe risultare un termine di qualche gradino sotto la vera importanza… e credo che si possa dedicare anche a tutte le donne per amare in pienezza e per sempre il proprio amato.
L’Amore…che grande eredità lasciata da Dio a tutti e per tutti.
Se l’avete incontrato difendetelo con tutte le vostre forze, se ancora non è capitato, non “accontentatevi” mai. l’Amore è pienezza non “compagnia” o “compensazione” di chissà cosa…
Stringersi spesso le mani per riuscire a conformare sempre di più il cuore al cuore dell’altro.

In Amore non deve andare sempre tutto bene, per poterlo definire perfetto, semplicemente… non deve mancare nulla, in modo particolare nelle piccole cose.
Inutile cercare altrove, solo l’Amore potrà donarci la vera gioia!
L’Amore non si discute…l’Amore è!!!!
E Amore sia :)
LETTERA DI SANT’AGOSTINO ALL’UOMO PER AMARE UNA DONNA IN PIENEZZA E PER SEMPRE
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Giovane amico, se ami questo è il miracolo della vita.
Entra nel sogno con occhi aperti e vivilo con amore fermo.
Il sogno non vissuto è una stella da lasciare in cielo.
Ama la tua donna senza chiedere altro all’infuori dell’eterna domanda che fa vivere di nostalgia i vecchi cuori.
Ma ricordati che più ti amerà e meno te lo saprà dire. Guardala negli occhi affinché le dita si vincolino con il disperato desiderio di unirsi ancora; e le mani e gli occhi dicano le sicure promesse del vostro domani. Ma ricorda ancora, che se i corpi si riflettono negli occhi, le anime si vedono nelle sventure.
Non sentirti umiliato nel riconoscere una sua qualità che non possiedi.
Non crederti superiore poiché solo la vita dirà la vostra diversa sventura.
Non imporre la tua volontà a parole, ma soltanto con l’esempio.
Questa sposa, tua compagna di quell’ignoto cammino che è la vita, amala e difendila, poiché domani ti potrà essere
di rifugio.
E sii sincero giovane amico, se l’amore sarà forte ogni destino vi farà sorridere.
Amala come il sole che invochi al mattino.
Rispettala come un fiore che aspetta la luce dell’amore.
Sii questo per lei, e poiché questo deve essere lei per te, ringraziate insieme Dio, che vi ha concesso la grazia più luminosa della vita!

(S. Agostino)

Di che è mancanza questa mancanza,

 Di che è mancanza questa mancanza
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Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne
sei pieno?
di che?
Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…

Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce
forza e canto
la musica perpetua ritornerà.
Sii calmo.

Mario Luzi
Sotto specie umana, Garzanti

giovedì 28 agosto 2014

L’infinita ricchezza della realtà spiegata da tre scienziati di fama internazionale. «Com’è possibile? È un mistero»

Meeting. L’infinita ricchezza della realtà spiegata da tre scienziati di fama internazionale. «Com’è possibile? È un mistero» 

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agosto 28, 2014 Leone Grotti
All’incontro “Dal particolare al tutto” il matematico Lafforgue, l’astrofisico Impey e il paleontologo Coppens alle prese con la sfida del Papa: «Essere amanti della realtà»
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Rimini. È un dettaglio, ma ci sono voluti dieci minuti solo per elencare in modo stringato i curriculum dei tre ricercatori che ieri al Meeting in Auditorium hanno cercato di rispondere alla provocazione di papa Francesco: «Non perdere mai il contatto con la realtà, anzi, essere amanti della realtà» vivendo, come diceva don Luigi Giussani, «senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla».
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«COM’È POSSIBILE?». Questo è «un atteggiamento fondamentale» quando si maneggia il metodo scientifico, che più viene applicato in modo serio e più porta alla conclusione che la realtà è «un mistero». Christopher Impey, astrofisico, vicedirettore del dipartimento di Astronomia all’università dell’Arizona, la vede così: «La potenza del metodo scientifico è incredibile. Ci ha portato ad andare sulla Luna, a ispezionare pianeti a trilioni di miglia di distanza da noi, ad avventurarci sulle periferie di buchi neri, ad arrivare ad un trilionesimo di secondo dal Big Bang. Eppure questo mondo così complesso è retto da quattro leggi fisiche e da una matematica austera. Com’è possibile? È un mistero». E non è l’unico: «Noi pensiamo che la matematica sia una creazione della mente dell’uomo, eppure più andiamo avanti e più capiamo che l’universo è un’entità matematica da noi comprensibile. Com’è possibile? È un mistero».
DA SCIENZIATO A FILOSOFO. La reazione dell’astrofisico è la stessa del paleo-antropologo Yves Coppens, l’uomo che detiene il record mondiale di ominidi scoperti ai quali ha dato il nome: «La vita si è sviluppata sulla Terra quattro miliardi di anni fa, i mammiferi 200 milioni di anni fa, i primati 70 milioni, gli uomini 3 milioni soltanto. Ogni passaggio di questa storia mi sorprende e mi meraviglia. Da piccolo la mia curiosità era dettata dalla voglia di diventare uno scienziato e fare scoperte importanti, meravigliose: oggi è cambiata e pur non essendo io un filosofo, la maturità mi obbliga a farmi domande profonde sull’origine della vita e dell’uomo. Io sono sconvolto dal fatto che l’Universo, ad esempio, sia retto da 14 miliardi di anni dalle stesse identiche leggi».
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ARIDITÀ E RICCHEZZA. Anche se il campo di ricerca è diversissimo, questa è la stessa esperienza fatta negli anni anche da Laurent Lafforgue, vincitore nel 2002 dell’equivalente del Nobel per la matematica, il premio Fields: «Io mi sento la periferia della periferia della periferia. Perché se quando loro vi parlano di buchi neri o ominidi tutti capite cosa stanno dicendo, se io vi parlassi della mia specialità, le teorie di Langlands, sarebbe un miracolo se due su migliaia che siete qui capissero anche solo l’ambito di riferimento».
Ma «io mi rendo conto che in matematica ci sono verità che non dipendono da noi e che noi non possiamo cambiare, perché non le stabiliamo noi. Ma che questa verità, sotto forma di numeri, esista e che noi siamo in grado di comprenderla è esaltante, fonte di un misteriosa gioia immensa. Soprattutto è incredibile che la matematica, il più povero e arido di tutti i campi del sapere, contenga una ricchezza infinita che ancora oggi non riusciamo ad esaurire».

«DESTINO NON CI HA LASCIATI SOLI».Tutta questa scienza e questo mistero, secondo l’ospite di casa Marco Bersanelli, hanno però solitamente una conseguenza sgradevole: «Nella mentalità comune, sembra che più si scopre la natura scientifica e più il mondo si svuoti di significato, diventando un gigantesco meccanismo privo di senso. Che cosa vuol dire allora che il destino non ha lasciato solo l’uomo?». Geniale la risposta di Lafforgue: «Noi facciamo esperienza solo della periferia, tutte le nostre esperienze sono periferiche. Vediamo solo un’infima parte della verità. Ma il solo fatto di parlare di periferia indica che abbiamo nostalgia del centro. Noi capiamo che desideriamo il centro, che la nostra periferia non ci basta. E quando diventiamo consapevoli di questo desiderio, cresce la fragile e tenue speranza che il destino non abbia lasciato solo l’uomo. Io so che i programmi di Langlands che studio non sono necessari per vivere. Ma il fatto che la nostra mente possa anche solo gustare questa ricchezza, goderne e meravigliarsi di essa, investigandola sempre più a fondo, questo fatto per me è un segno che alimenta la speranza che il destino non ci abbia lasciati soli».

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Il dolore, la Croce e la speranza dentro il Golgota di Munch

Il dolore, la Croce e la speranza dentro il Golgota di Munch 

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Il Golgota di Munch è esposto al Museo di Oslo,è stato dipinto alla fine del 800,   incarna quella riflessione di un periodo storico, quando è crollata una spinta positivistica e si era ridotta l'influenza del cristianesimo in Europa, l'uomo si ritrova solo, sfiduciato e in balia degli eventi e cerca  disperatamente  un senso. Questo quadro nasce mentre  Munch è ricoverato al Kornhaug Sanatorium per alcolismo, ricordo che la vita di questo artista è stata costellata dal dolore per  gravi lutti familiari che ha vissuto fin dalla giovane età. Questo quadro non ha nulla di sacro, è un grido di dolore che si alza nel cielo plumbeo, il crocefisso rimane al centro della scena, mentre   davanti ci sono volti  ben visibili e  dietro i volti  si sfumano verso la croce in  una danza della sofferenza con  di lato  braccia che tendono verso il Cristo crocefisso. Munch, attraverso la sua arte assume su se stesso,  il macigno e il  dolore del suo tempo, se ne fa carico  cercando di redimerlo attraverso la pittura per restituirlo all'umanità , nonostante la storia sia composta di  una accozzaglia di uomini ignari.L'artista diventa testimone del suo tempo solo assumendo su di se il destino dell'uomo "soffrendolo" attraverso la propria carne,  arricchendola di una  umana ferita che diventa la strada per  ridare il senso alla storia  oltre l'orrore che vive, è questa la vocazione  del genio. La croce rimane centrale nel quadro, il  punto di luce per  il dolore dell'uomo che è in  cerca di  speranza  per non cadere nell'abisso e cosi l'arte diventa una preghiera.

Munch Golgota - olio su tela   ( 80x20 cm ) 1900 Oslo Munch Musset
 La crudezza di questo quadro ci mette di fronte al fatto che l'uomo ha bisogno di bellezza per essere rialzato dall'abisso e cosi ci troviamo di fronte ad  una profondissima preghiera di Munch per se e per l'uomo del suo tempo.
 Anna Ascione-diritti riservati.

anna ascione fotografo blog : Bello è possibile

Yves Coppens: Homo Sapiens, cioè responsabile (da subito)

L'INTERVISTA/ Yves Coppens: Homo Sapiens, cioè responsabile (da subito)
 mercoledì 27 agosto 2014 
Il professor Yves Coppens arriva a Rimini dopo un'estate ricca di novità e dibattiti in ambito paleontologico: dalle curiosità sulle piume dei dinosauri al riaccendersi della discussione, quella che più coinvolge Coppens, sull'emergere dell'Homo e sulla consistenza di alcuni rami dell'albero filetico umano come quello dei Denisoviani o dell'Uomo di Heidelberg. A Rimini, a parlare del cammino dell'evoluzione umana era già stato due volte: ora ci torna per raccontare il fascino della ricerca, quella che sa approfondire il particolare senza ridurlo e lo proietta nel tutto. Ne parlerà in un dialogo col matematico Laurent Lafforgue e con l'astrofisico Christopher Impey, coordinati da Marco Bersanelli. Torna anche per partecipare al Simposio Internazionale di San Marino, organizzato, come ormai da diversi anni, dall'Associazione Euresis in collegamento col Meeting: quest'anno il tema riguarda le radici della motivazione nella ricerca scientifica. E torna con la evidente soddisfazione della recentissima nomina a far parte della Pontificia Accademia delle Scienze, dove già più volte era stato tra i protagonisti e organizzatori di Giornate di studio e convegni sui temi dell'evoluzione umana. Proprio da questi argomenti partiamo per un appassionato confronto.
 Alla luce delle ricerche di questi anni, possiamo confermare la derivazione dell'umanità dall'unica culla africana? 
È difficile dare una sentenza definitiva, ma se guardiamo ai risultati delle indagini svolte finora troviamo che tutta la documentazione risalente tra i 6 e i 3 milioni di anni fa è relativa a nostri antenati in Africa tropicale. Solo dai 2 milioni di anni si iniziano a registrare presenza oltre che in Africa anche in Eurasia. Quindi la conclusione è piuttosto chiara: l'origine dell'uomo è unica ed è da collocarsi in Africa tropicale. Ma non è difficile da comprendere: infatti, gli essere viventi più vicini agli ominidi sono le scimmia e in particolare gli scimpanzé, e questi erano presenti solo in Africa. Ripeto, la mia risposta è sì; ed è un sì da scienziato, cioè è un "molto probabilmente sì".
Dobbiamo dire che l'Homo Sapiens è uomo della periferia o uomo del centro?
 Sono stato per lungo tempo dubbioso sull'origine dell'Homo Sapiens, ma ora i dati a nostra disposizione mostrano che Homo Sapiens discende dagli ominidi africani e quindi anche lui ha un'origine africana. Non so sechiamarla centrale o periferica; presto però l'Homo Sapiens ha iniziato a lasciare l'Africa per andare ovunque nel mondo. L'Homo Sapiens è il primo che ha fatto tutto il giro del mondo; e questo dice molto della sua natura, di una specie che ha superato le altre come capacità di azione, di riflessione, pensiero, espressione artistica. Basta pensare alle incisioni e ai celebri dipinti lasciati sulle pareti delle grotte, che sono opere affascinanti e con un alto grado di elaborazione. L'Homo Sapiens è uno che per natura si muove, desidera esplorare, si sposta dal centro alla periferia e viceversa; senza temere contaminazioni e ibridazioni, che certamente ci sono state. 
Cosa possiamo dire dei primi abitanti dell'Europa? 
Come ho detto, Homo Sapiens non si è fermato in Africa, anzi, si è messo in moto molto presto. Ed è arrivato dapprima in Asia e poi in Europa. Verso 1,5 milioni di anni fa lo troviamo in Italia meridionale, in Puglia, e verso 1,2 milioni di anni fa lo troviamo in Spagna, poi in Francia centrale. Poi è successo che è rimasto isolato a causa delle glaciazioni e ciò ha prodotto quella che si chiama una deriva genetica, che ha portato ai Neandertal e all'Uomo di Heidelberg.
 Fino a che punto la paleoantropologia è riuscita a ricostruire la vita quotidiana e anche l'universo mentale e spirituale dei nostri primi antenati?
 Noi paleontologi abbiamo pochi reperti su cui basare le nostre ricostruzioni. Possiamo risalire alla disposizione delle abitazioni, ai luoghi dove si radunavano, al regime alimentare. Quello che mi colpisce però è che se esaminiamo l'intero percorso evolutivo dell'uomo, da circa 3 milioni di anni fa ad oggi, troviamo che non c'è discontinuità; o, come io amo dire: l'uomo è pienamente uomo da quando ha iniziato a essere uomo. Tutte le dimensioni che caratterizzano l'essere uomo sono presenti dall'inizio, non appena il cervello ha raggiunto un certo livello di complessità: la dimensione tecnologica, quella intellettuale, quella estetica, quella etica, quella spirituale. Certo, hanno poi registrato un processo di miglioramento; ma erano tutte presenti e operanti da subito. 
 Lei a Rimini parlerà del fascino della ricerca che porta gli scienziati a occuparsi del particolare per essere rilanciati verso la totalità: quando e come i nostri antenati hanno iniziato a sperimentare il passaggio dal particolare al tutto
Penso che anche queste due attitudini siano state presenti fin dai primi passi dell'uomo. L'espansione dell'uomo sul Pianeta, di cui ho parlato prima, sta a dimostrare la tendenza a partire dal particolare per muoversi in tutte le direzioni, per dilatare a dismisura la propria presa sulla realtà. Anche le tipiche espressioni umane testimoniano questa tendenza: parlare, pensare, scambiare idee. Sono i caratteri peculiari della noosfera, di cui ha parlato Teilhard de Chardin; che sono pienamente sviluppati nell'Homo Sapiens e che si sintetizzano nelle domande che animano ancora tutti noi oggi: chi siamo, qual è la nostra natura, dove andiamo, qual è il significato della nostra esistenza. Sono interrogativi che ci fanno capire dove sta il nucleo dell'animo umano e che mi piace indicare nella parola responsabilità. 
(Mario Gargantini) © Riproduzione
Il Sussidiario.net

mercoledì 27 agosto 2014

«Dio non smette mai di cercarci»

DON JULIÁN CARRÓN

«Dio non smette mai di cercarci»

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di Paolo Perego
27/08/2014 - La guida di CL in visita al Meeting. Tra incontri, mostre e amici. «Le periferie? Sono la modalità con cui incontriamo Gesù. Che cosa sia l'essenziale lo scopriamo dentro ogni circostanza»
Toccata e fuga in giornata. Per vedere il Meeting, dove ci sono i suoi amici, spiega don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, a chi gli chiede perché sia venuto. Ha visto ancora poco della Fiera. L’incontro con l’archeologo Giorgio Buccellati e don Ignacio Carbajosa, su Dio nella storia antica, e la mostra su Charles Péguy. Lo ha seguito da lontano, il Meeting, dice ancora, colpito da padre Pierbattista Pizzaballa, che chiama amico «per quello sguardo redento sulla realtà» che ha mostrato nel suo intervento. E poi colpito dal Papa e dal suo messaggio.

Don Carrón, perché le periferie? Perché decentrarsi, come ha detto papa Francesco, per incontrare Gesù? Non basta ciò che viviamo? Che cosa possiamo scoprire di più?Incontrare le periferie è la modalità attraverso cui incontriamo Gesù. Mi ha sempre colpito tanto quando don Giussani dice che noi abbiamo tutto nell’incontro con Gesù. Ma che cosa significa questo “tutto”, che cosa significa Gesù, lo scopriamo nello scontro o nell’incontro con le circostanze. Cioè con le periferie. Ma noi pensiamo che le periferie siano un’aggiunta, qualcosa che ci distrae. E invece questa è l’unica modalità con cui affrontando la vita, le circostanze, le sfide, possiamo capire che cosa è Cristo. Senza questa verifica di Cristo in ogni periferia non possiamo capire che cosa è Lui. Per questo ci conviene seguire il Papa. Se non è così, penseremmo di aver conosciuto Gesù, ma non lo avremmo conosciuto.

Il destino non ha lasciato solo l’uomo. Nell’incontro a cui ha assistito questa mattina è emerso chiaramente come la presenza di Dio sia una costante in tutta la storia dell’umanità. Il destino non ha mai lasciato solo l’uomo…Benedetto XVI aveva detto che Dio non è mai sconfitto. Cioè, che riparte sempre, prendendo nuove iniziative. Tutti i fatti della storia sono le nuove iniziative di Dio attraverso cui cerca, in modi diversi, l’uomo. E lo vediamo anche adesso, nel presente, quello che abbiamo visto accadere nel passato, come si diceva stamattina: le continue iniziative attraverso cui il Mistero cerca l’uomo. Qualsiasi sia la situazione in cui si trovi. E non smette mai. Perché Dio non dipende da quello che noi chiameremmo le vittorie, i risultati. Il suo punto sorgivo è diverso. Lui parte sempre da un amore sconfinato per l’uomo. E malgrado l’uomo gli dica di no, malgrado l’uomo non risponda in modo adeguato, o malgrado si dimentichi, Dio non smette mai di cercare l’uomo. Come tu non smetteresti mai di cercare tuo figlio, qualsiasi stupidaggine abbia fatto. È facile. Noi potremmo capire Dio se ci immedesimassimo per un istante in cosa farebbe un padre per il figlio. Dio è questo padre che non smette mai di cercare il figlio.

Il Papa ha invitato a un cammino, indicando come unico bagaglio l’essenziale e la realtà. Cosa sono per lei?L’essenziale per noi è come il significato. Una presenza senza la quale la realtà non avrebbe significato. Non tutte le cose sono ugualmente significative per noi. L’essenziale è ciò che è così significativo che senza non si può vivere. È questo che ci consente di entrare in qualsiasi aspetto della realtà. Se abbiamo scoperto l’essenziale possiamo entrare in qualsiasi buio, in qualsiasi periferia, in qualsiasi aspetto della realtà. Che cosa deve vivere un’infermiera, come deve essere veramente consistente, che cosa di essenziale deve esserle accaduto per poter entrare in una stanza dove c’è il malato terminale? Per poter entrare in quel buio? Ugualmente, perché alcuni cristiani rimangono a vivere in Siria? O perché alcune persone si preoccupano degli ultimi? Deve essere successo qualcosa di così significativo per cui nessun aspetto del reale perde valore. Anzi, acquista tutto il valore per quell’essenziale. Ma tante volte sembra che affermare l’essenziale sia contro la realtà. O che affermare la realtà sia contro l’essenziale. Grazie a Dio, noi, che abbiamo incontrato il cristianesimo così come ce l’ha testimoniato don Giussani, e così come appare nel Vangelo, vediamo che per Gesù affermare l’essenziale, affermare il suo rapporto con il Padre, non è stato qualcosa che lo distraeva da qualche aspetto del reale o dall’uomo. Anzi, era proprio ciò che lo faceva interessare a qualsiasi uomo. Per questo, l’essenziale e il rapporto con la realtà vanno insieme. Senza avere una presenza così significativa, così essenziale per noi, la realtà non ci interessa, perché non siamo in grado di starle davanti. Di affrontare le sue sfide, certi bui e certe cose che ci sconcertano.

Eri con me ed io non ero con te

Eri con me ed io non ero con te
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Stimolato a rientrare in me stesso, sotto la tua guida, entrai nell'intimità del mio cuore, e lo potei fare perché tu ti sei fatto mio aiuto (cfr. Sal 29, 11). Entrai e vidi con l'occhio dell'anima mia, qualunque esso potesse essere, una luce inalterabile sopra il mio stesso sguardo interiore e sopra la mia intelligenza. Non era una luce terrena e visibile che splende dinanzi allo sguardo di ogni uomo. Direi anzi ancora poco se dicessi che era solo una luce più forte di quella comune, o anche tanto intensa da penetrare ogni cosa. Era un'altra luce, assai diversa da tutte le luci del mondo creato. Non stava al di sopra della mia intelligenza quasi come l'olio che galleggia sull'acqua, né come il cielo che si stende sopra la terra, ma una luce superiore. Era la luce che mi ha creato. E se mi trovavo sotto di essa, era perché ero stato creato da essa. Chi conosce la verità conosce questa luce. O eterna verità e vera carità e cara eternità! Tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi mi hai sollevato in alto perché vedessi quanto era da vedere e ciò che da solo non sarei mai stato in grado di vedere. Hai abbagliato la debolezza della mia vista, splendendo potentemente dentro di me. Tremai di amore e di terrore. Mi ritrovai lontano come in una terra straniera, dove mi pareva di udire la tua voce dall'alto che diceva: «lo sono il cibo dei forti, cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me», Cercavo il modo di procurarmi la forza sufficiente per godere di te, e non la trovavo, finché non ebbi abbracciato il «Mediatore fra Dio e gli uomini l'Uomo Cristo Gesù» (1 Tim 2, 5), «che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli» (Rm 9, 5). Egli mi chiamò e disse: «lo sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6); e unì quel cibo, che io non ero capace di prendere, al mio essere, poiché «il Verbo si è fatto carne» (Gv l, 14). Così la tua Sapienza, per mezzo della quale hai creato ogni cosa, si rendeva alimento della nostra debolezza da bambini. Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero. Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l'ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace.
 Sant'Agostino

Sant'Agostino racconta la morte della madre Monica

Sant'Agostino racconta la morte della madre Monica
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 Cerchiamo di arrivare alla sapienza eterna Era ormai vicino il giorno in cui ella sarebbe uscita da questa vita, giorno che tu conoscevi mentre noi lo ignoravamo. Per tua disposizione misteriosa e provvidenziale avvenne una volta che io e lei ce ne stessimo soli, appoggiati al davanzale di una finestra che dava sul giardino interno della casa che ci ospitava, là presso Ostia, dove noi, lontani dal frastuono della gente, dopo la fatica del lungo viaggio, ci stavamo preparando ad imbarcarci. Parlavamo soli con grande dolcezza e, dimentichi del passato, ci protendevamo verso il futuro, cercando di conoscere alla luce della Verità presente, che sei tu, la condizione eterna dei santi, quella vita cioè che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d'uomo (cfr. 1 Cor 2,9). Ce ne stavamo con la bocca anelante verso l'acqua che emana dalla tua sorgente, da quella sorgente di vita che si trova presso di te. Dicevo cose del genere, anche se non proprio in tal modo e con queste precise parole. Tuttavia, Signore, tu sai che in quel giorno, mentre così parlavamo e, tra una parola e l'altra, questo mondo con tutti i suoi piaceri perdeva ai nostri occhi ogni suo richiamo, mia madre mi disse: «Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C'era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?». Non ricordo bene che cosa io le abbia risposto in proposito. Intanto nel giro di cinque giorni o poco più si mise a letto con la febbre. Durante la malattia un giorno ebbe uno svenimento e per un po' di tempo perdette i sensi. Noi accorremmo, ma essa riprese prontamente la conoscenza, guardò me e mio fratello in piedi presso di lei, e disse, come cercando qualcosa: «Dove ero»? Quindi, vedendoci sconvolti per il dolore, disse: «Seppellirete qui vostra madre». Io tacevo con un nodo alla gola e cercavo di trattenere le lacrime. Mio fratello, invece, disse qualche parola per esprimere che desiderava vederla chiudere gli occhi in patria e non in terra straniera. Al sentirlo fece un cenno di disapprovazione per ciò che aveva detto. Quindi rivolgendosi a me disse: «Senti che cosa dice?». E poco dopo a tutti e due: «Seppellirete questo corpo, disse, dove meglio vi piacerà; non voglio che ve ne diate pena. Soltanto di questo vi prego, che, dovunque vi troverete, vi ricordiate di me all'altare del Signore». Quando ebbe espresso, come poté, questo desiderio, tacque. Intanto il male si aggravava ed essa continuava a soffrire. In capo a nove giorni della sua malattia, l'anno cinquantaseiesimo della sua vita, e trentatreesimo della mia, quell'anima benedetta e santa se ne partì da questa terra.

martedì 26 agosto 2014

sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con esseri umani

  sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con esseri umani
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"...In fondo, io non ho paura. Non per una forma di temerarietà, ma perché  e che cercherò di capire ogni espressione, di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile. E il fatto storico di quella mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare contro di me, ma che francamente io non ne provassi sdegno – anzi, che mi facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? ..
Etty Hillesum,.

L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa

L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa
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 L’ateo assoluto sta sul penultimo gradino della più perfetta fede, mentre l’indifferente non ha più nessuna fede. Vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l’uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo. Siamo tutti idolatri, non atei.

domenica 24 agosto 2014

La superstizione del divorzio

La superstizione del divorzio
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dal Numero 29 del 20 luglio 2014
di Fabrizio Cannone
di G. K. Chesterton
San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, pp. 170, € 14
Sono ormai moltissimi, anche nel nostro Paese, i seguaci dello scrittore anglofono Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) e per fortuna non mancano le traduzioni in lingua italiana delle sue numerosissime opere. Negli ultimi anni, la torinese Lindau ha pubblicato molti testi dell’Apologeta inglese, tra cui La Chiesa cattolica, Eretici, Ortodossia, La mia fede, Ciò che non va nel mondo, Il profilo della ragionevolezza, La nuova Gerusalemme, L’uomo comune, L’imputato, La serietà non è una virtù, Quello che ho visto in America, Il pozzo e le pozzanghere, Il Napoleone di Notting Hill, I paradossi del signor Pond, Lo scandalo di Padre Brown e l’importante Autobiografia. Da parte sua, la veronese Fede & Cultura ha edito altre opere dello Scrittore, come la biografia di san Tommaso d’Aquino, e vari saggi di commento ed analisi di autori esperti di letteratura chestertoniana (Fabio Trevisan, Gerlando Lentini, ecc.). La senese Cantagalli ha da parte sua pubblicato un ottimo libro che raccoglie vari scritti del Nostro contro l’eugenetica. Si tratta di iniziare a leggerli...
Un saggio tra i meno citati in assoluto è uscito alcuni anni fa in Italia, con il titolo provocatorio di La superstizione del divorzio e resta un testo attualissimo. Ci siamo tornati sopra dopo che lo storico francese Yves Chiron ha intervistato l’intellettuale e giornalista Philippe Maxence sul tema del suo recente saggio dedicato a Chesterton face à l’Islam, ovvero Chesterton e l’Islam (Via Romana, 2014). Leggendo questa intervista, fatta ad un esperto di letteratura anglosassone, abbiamo capito meglio la grandezza e la vastità degli orizzonti culturali del più grande Romanziere cattolico inglese di primo Novecento.
Chesterton spiega nella nota introduttiva al libro, che uscì in Inghilterra nel 1920, che il pamphlet nasce da «cinque articoli che apparvero sul New Witness durante la recente controversia sul divorzio» (p. 9). Esso sorse dunque come testo di battaglia e di polemica, ma resta tuttavia utilissimo per riflettere su cosa sia davvero il divorzio, cioè lo scioglimento del patto più importante e vitale che si possa concepire.
Secondo noi il divorzio, infatti, non può ridursi ad una legge sbagliata fra le altre, ma è uno dei segni più evidenti dell’inizio della decadenza e del crollo di una civiltà. Nel caso poi dell’Europa, il primo continente evangelizzato, ed evangelizzato direttamente dagli Apostoli, la cosa è ancora più grave. Il divorzio, in un contesto cristiano, assume il significato di apostasia pubblica e conclamata dalla Religione fondata da Cristo, il quale, “tollerantissimo” verso peccatori, ladri e prostituite, non ha mai ceduto di un micron verso l’istituzionalizzazione del peccato. Cristo, si potrebbe dire, ama perfino chi abbandona la moglie ed i figli per fuggire con l’amante (benché ovviamente disapprovi queste condotte); ma odia, di un odio fatto di assoluta incompatibilità, l’istituto del divorzio. E questo a causa dell’ingiustizia che ogni legge divorzista contiene. La somma giustizia del Verbo, che unisce in sé il rigore e la misericordia, è anche opposizione ad ogni male, ad ogni violenza e ad ogni cattiveria, specie contro i deboli e gli infanti. Il divorzio significa la “liberazione” da una promessa liberamente fatta, dal giuramento, dall’impegno, dalla fedeltà: ma Dio è fedele, anzi è la Fedeltà per essenza, ed ogni infedeltà, comunque la si mascheri, è in radice un tradimento verso di Lui. La salute è incompatibile con la malattia, e la vita, se esiste, è assenza di morte. Il matrimonio e la famiglia sono dunque incompatibili con il divorzio, e se il divorzio esiste, anche come mera possibilità prevista dalla legge, la fedeltà al patto coniugale è violentata in radice. Dunque ogni matrimonio è ferito dalla sola esistenza della legge sul divorzio.
Secondo Chesterton coloro che lottavano per l’introduzione del divorzio in Inghilterra ignoravano l’essenza del matrimonio: cosa che potrebbe dirsi, senza variazioni di nota, per i divorzisti o per i fautori odierni del “divorzio breve”, in Italia e nel mondo. Tutto il pamphlet di Chesterton, come lui stesso vuole che si chiami il suo libretto (cf. p. 145), è un’analisi, appassionata e insieme ragionata, sul danno che il divorzio rischia di produrre alla civiltà umana, in termini di relazioni sociali, educazione della prole, moralità generale (per l’evidente incentivo al tradimento), economia domestica (quante famiglie impoverite a causa del divorzio e delle sue conseguenze?), rapporti tra i sessi, pace interiore impossibile per coloro che abbandonano i propri figli, perdita del senso della tradizione e dell’onore...
I divorzisti, con l’introduzione del divorzio, «si liberano della fatica più vicina; il che significa aprire fessure in una barca pensando di scavare buche in un giardino» (p. 15). Essi minano il concetto, tutto cristiano e biblico, di «fraternità umana» (p. 18): se posso tradire, letteralmente, la fiducia di mia moglie e dei miei figli per “rifarmi una vita”, come potrò essere fedele ad un amico, alla Patria, al capoufficio, ecc.? Chesterton, che nel suo saggio critica sia il socialismo che il capitalismo come incompatibili con la visione cristiana della famiglia, ritiene che «l’amore libero sia un’eresia» e il divorzio «una superstizione» (p. 24). Oggi quindi siamo sommersi da eretici e superstiziosi!
Questa superstizione fa ritenere l’uomo non libero di legarsi ad alcunché, mentre in realtà, «il patriota può insultare il proprio paese, ma non può tradirlo; lo può maledire con l’intenzione di curarlo, ma non di farlo morire» (p. 26). Il divorzio al contrario è stato quel “via libera” all’uccisione morale, e a volte anche fisica, che moltissimi padri e madri hanno compiuto verso i loro figli. All’uccisione del padre di freudiana memoria, ha fatto seguito l’uccisione del figlio, e la cosa non può stupire: senza paternità infatti non esiste figliolanza.
Come il divorzio è la fuga dall’amore, così il suicidio è la fuga dalla realtà: già ai tempi del Nostro l’aumento parallelo delle due tragedie sociali faceva riflettere (cf. pp. 33ss).
«Il divorzio è per noi, al massimo, un fallimento; dovremmo essere interessati a trovare e a risolvere le sue cause molto più che a portare all’estremo i suoi effetti; invece stiamo perseguendo un sistema che produca molti più divorzi» (p. 35). Parla della Gran Bretagna della prima metà del ’900, ma vale tel quel per l’Italia del XXI secolo. «Il capitalismo è in guerra con la famiglia»; esso «crede nell’associazionismo per se stesso e nell’individualismo per i suoi nemici. Desidera che le sue vittime siano individui o, in altre parole, atomi» (p. 40). La tenuta della famiglia è di evidente rilievo politico e i nemici della Patria e dello Stato (liberali e anarchici, socialisti e nichilisti) sono anche i sabotatori della famiglia. Sentite: «I maestri della plutocrazia moderna sanno il fatto loro. Non commettono errori [...]. Un istinto radicato e ben preciso li ha spinti a individuare nella famiglia l’ostacolo principale al loro progresso disumano. Senza la famiglia siamo indifesi di fronte allo Stato» (pp. 40-41). Così più il mondialismo distruggerà la famiglia, attraverso divorzio, amore libero e “matrimoni gay”, più potrà sfruttare i popoli, ridotti a massa apolide di consumatori senza volto, senza ideali, senza freni inibitori... I plutocrati alla Bill Gates sono di norma avarissimi usurai, eppure donano milioni di dollari per sostenere le campagne malthusiane in favore della sterilizzazione di massa, degli anticoncezionali, del divorzio (breve o istantaneo) e dell’aborto libero. Come mai???
Montesquieu scrisse che «la società ha isolato i suoi membri per governarli meglio, e li ha divisi allo scopo di indebolirli» (cit. a p. 44).
Dobbiamo cercare l’unità del popolo, contro la «velenosa e plutocratica società moderna» (p. 61), attraverso tre pilastri di fondamentale portata antropologica: Dio (ovvero la Fede cattolica integrale e senza cedimenti), la Patria (ovvero l’amore del contesto vitale e culturale in cui siamo nati e cresciuti) e la Famiglia (l’ultimo baluardo contro l’omologazione planetaria e la riduzione dei popoli a materiale umano, a numeri, a meri pezzi dell’ingranaggio della globalizzazione e del sistema).
Chesterton, buon profeta,
ci guidi in questa lotta sulla via della speranza e sulla via dell’onore!

sabato 23 agosto 2014

Voglio che tu sia, senza fine

Voglio che tu sia, senza fine 

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agosto 30, 2000 Giussani Luigi
Metti una sera (del 1983) in campagna, a conversazione con un gruppetto di giovani di Monte San Savino, piccolo borgo tra le colline toscane. Dove un uomo che oggi ha quasi ottant’anni (e che, come aveva scritto a vent’anni in una lettera a un amico, ha avuto una sola ossessione, quella del “Io non voglio vivere inutilmente”) era stato invitato a parlare da ragazzi di un mondo ancora contadino, ma già irretito dal potere delle ideologie e delle mode omologanti dell’epoca. La non episodica persuasività in azione di un carisma che ha educato decine di migliaia di ragazzi. Al quietismo religioso? No, alla felicità laica
Da un dialogo con don Luigi Giussani* (le illustrazioni fotografiche sono di L.A., da un soggiorno in Ulster)
Paolo Pecciarini. Una cosa particolare vorremmo che emergesse questa sera: la parola vita. Vorremmo chiedere a don Giussani, cioè ad un amico più grande, come è possibile ritrovare tutto il valore vero della vita nel quotidiano, cosi che si realizzi la nostra felicità.
Don Luigi Giussani. Prima di tutto dobbiamo avere la sincerità di ricordarci l’amore alla vita e il desiderio di soddisfazione di felicità:
quando abbiamo cantato prima “ ma l’amaro, I’amaro che c’è in mesarà mutato in allegria”… dobbiamo avere la sincerità, grandi e piccoli, di affermare che questo è il progetto, il programma che non sipuò eliminare mai. Viviamo per il desiderio di contentezza, di soddisfazione, di felicità. Che l’amaro si muti in allegria è l’ispirazione, il criterio in tutto quello che facciamo: scegliarno un cinema invece di un altro, scegliamo una compagnia invece che un’altra, ecc. Ci rassegniamo a studiare o a lavorare purché l’ amaro ad un certo punto sia mutato in allegria. Questo è giusto. Infatti è ciò che rivela, come diceva il nostro padre Dante, la natura dell’uomo. Dante infatti dice ad un certo punto:” ciascuno confusamente un bene apprende per il qual si queti l’animo e desira…” Ognuno confusamente intuisce un bene nel quale l’animo si quieti, vale a dire, nel quale raggiunga una soddisfazione intera cioè la parola che solo religiosamente si puo pronunciare con serietà: la parola felicità. “… E desira…” desidera e questa è l’arte fondamentale della vita; è come la scintilla che accende il motore per ogni azione e ognuno si sforza, vi tende a fatica. Questa è la natura dell’uomo secondo la tradizione cristiana.
La frase piu carica di sfida che abbia detto Cristo è stata quella che pronunciò in certe circostanze, quando disse: “Che importa se tu prendi tutto quello che vuoi e poi smarrisci te stesso?” oppure “Che darà l’uomo in cambio di sé?” Ma che importa se l’uomo …. Ecco, diceva Leopardi: “forse se avessi io l’ale da volar su le nubi e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, piu felice sarei, dolce mia greggia….” Leopardi è vissuto 150 anni fa e l’uomo adesso è arrivato a salire oltre le nubi con i jet, numera le stelle ed erra di montagna in montagna; si può dire che dopo 150 anni sia piu felice?
Un “io” sorpreso dalla gioia
La domanda resta inesausta perche la natura dell’uomo è in rapporto con qualcosa di infinito e non c’è niente da fare.

Provate a pensare all’astronauta che arrivasse per primo sulla stella Andromeda, poi torna fra gli osanna di tutti va a casa e trova che la moglie lo ha tradito. Se non è un cinico, senza sensibilità e senza umanità e pieno di infelicità, la prima cosa lo tocca – la gloria, il riuscire a fare qua!cosa di grande – ma la seconda cosa lo tocca proprio come “io” e il senso di insoddisfazione e di incompletezza che ne deriva distrugge. C’è un nucleo dentro tutta la realta cosmica, un nucleo che è come un niente ma è un niente che vale più di tutto il cosmo messo assieme, quando uno dice “io”.
E’ giusto che il criterio della vita sia questo:“Che l’amaro sia mutato in allegria”. E non diciamo che questa è una illusione! C’e stato uno, nei primi anni dopo la morte di Cristo, uno che è ben noto storicamente, un uomo forrmidabile, che ha girato tutto il mondo di allora sostenuto da una forza personale incandescente e comunque raramente incontrabile nella storia: si chiamava Paolo e scrive “Io sono pieno di gioia nella mia tribolazione”. Prima di lui Dio disse la sera in cui l’avrebbero preso per ammazzare: “lo vi ho dato quello che vi ho dato affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. E’ proprio questa la parola con cui il fatto cristiano sfida il mondo e tutte le teorie possibili e immaginabili: la possibilità della gioia è esclusivamente un fenomeno cristiano, perche la possibilita della gioia implica che la vita abbia fatto un incontro nel quale abbia trovato la certezza, nonostante tutta la propria fragilità. La quale, non solo rimane, ma aumenta come consapevolezza: il senso del proprio niente e soprattutto il dolore acuto della propria incoerenza di quello che si chiama peccato.
Nonostante tutto questo, anzi, mentre tutto questo senso del proprio limile fisico e morale, psicologico ed etico permane, aumenta una capacità di certezza, un’esperienza di certezza come un’evidenza, una certezza sulla quale si fonda la vita e il tempo come continuo e sereno e lieto recupero, ripresa. Non per nulla il mistero cristiano principale è la Pasqua, che è il fatto della resurrezione, che vuol dire passaggio dal negativo al positivo: questa stupefacente capacità che il fatto cristiano ha di rendere positivo tutto. E’ una frase di quell’uomo di cui accennavo prima, Paolo: “tutto – dice ad un certo punto nella sua lettera – coopera al bene per coloro che tendono a Dio”. E Sant’Agostino, che aveva fatto una lunga esperienza a riguardo aggiunge: “ Etiam mala”, anche i nostri mali, anche i nostri peccati, anche i nostri errori. Ecco, questa proposta e questa speranza è cio che ci fa superare l’impaccio e non ci fa sentire vergognosi ad affrontare chiunque, come io stasera affronto voi che al 99% non conosco ma che avete con me una consanguineità che supera qualsiasi consanguineità di altro ordine, quale desiderio, quale natura di quel desiderio a cui io ho accennato prima, quel destino di felicità cui ho accennato prima; e ancora di più il fatto che tutti ci troviamo dentro quell’alveo benedetto che è la tradizione cristiana, l’annuncio cristiano, vale a dire il grido di sicurezza, la promessa, la promessa di positività alla vita.
Cristo, Uno tra noi, in questo mondo
Perciò nella tua domanda, la prima cosa che vorrei sottolineare è la giustezza della combinazione vita e felicità; non una astrazione giovanilistica, non un sogno adolescenziale ma una proposta reale alla vita reale. Mi dispiace che io, evidentemente, non mi sono organizzato a queste domande, ma avessi portato soltanto un po’ di quelle lettere che metto da parte, basterebbe leggerne tre o quattro di adolescenti, giovani, vecchi, di figli o di genitori, sempre da condizioni eccezionalmente disagiate (ma comunque questo può essere sentito anche come una affermazione gratuita) è esattamente la sfida, per usare il termine messo a tema, che la tradizione cristiana attraverso questa mia voce fessa e questa mia pronuncia che vi deve far orrore, è la sfida che fa alla vita di ognuno di voi, che abbiate i capelli bianchi o siate appena sbucati dall’oscurità dell’infanzia.
Ma la seconda cosa, che ho già toccato senza accorgermene, è che questa sfida non può venire, non viene da sé. Un solo Uomo in tutta la storia del mondo, in tutta la storia del pensiero, della religione, Uno solo ha osato dire: “Io sono la Via, la Verita, la Vita”. I piu grandi nomi hanno detto: “io vi indicherò la strada”, come Buddha, come Mosé, come Maometto, “io vi guiderò per la strada che un Altro mi indicherà”. Un Uomo ha osato dire: “ Io sono la Via, la Verità, la Vita”. Ho chiesto un Vangelo per leggervi questo piccolo brano, Capitolo IV del Vangelo di San Luca. La storia è risaputa almeno negli anziani perché Gesù era stato per trent’anni uno come tutti gli altri, improvvisamente comincia a far parlare di sé, esce dal suo paese e per le strade, per le piazze, comincia a discorrere e la gente si raggruma vicino a lui.
Possiede un potere strano per cui gli ammalati sono guariti, tutta la Galilea, tutta la regione ne parla e quelli di Nazareth, suo paese natale, il paese dove svolge i suoi trent’anni di vita, si lamentano: “perché non li ha fatti da noi questi miracoli? Era uno come tutti gli altri! Perché non li ha fatti da noi?” ed erano pieni di risentimento verso di Lui. Un certo giorno, un certo sabato, Gesù ritorna. Siamo ancora agli inizi, ma ritorna nel suo paese come gli era normale perché seguiva la vita di tutti. Perché questa è la cosa colossale dell’annuncio cristiano: è che Dio è diventato una compagnia normale, una realtà umana, si è fatto realtà umana come compagnia alla nostra vita umana, perciò faceva come tutti gli altri e il sabato entrava nella sinagoga. C’era lì il “sacrestano”, l’inserviente e prendeva dal secchione, prendeva un rotolo della Bibbia e chiunque avesse voluto, alzando la mano, poteva uscire, leggere un pezzo e commentarlo. Era questo il primo sistema che Cristo usò per cominciare a dire quello che voleva dire, perché lui leggeva quelle cose e tutti restavano stralunati perché lui le interpretava in un modo assolutamente inusitato ma che faceva restare a bocca aperta, tanto che la gente diceva: “E’ cosi”. “Gesù ritornò in Galilea. Egli insegnava nelle loro sinagoghe. Si recò un sabato a Nazareth dove era stato allevato e secondo il suo costume entrò nella sinagoga e si alzò per leggere. Gli fù presentato il volume del profeta Isaia e svolto che l’ebbe – era un rotolo trovò il passo dove stava scritto: “Lo Spirito del Signore è su di me, per questo Egli mi ha consacrato, mi ha mandato ad annunziare la buona novella ai poveri – il senso della vita! Non una scoperta rischiosa degli intellettuali o dei filosofi, ma una saggezza di ogni persona, anche dell’analfabeta – ad annunziare la liberazione ai prigionieri, il recupero della vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, a proclamare per tutti il momento favorevole del rapporto con Dio”.
Questo brano di Isaia era uno dei pezzi della Bibbia che i Farisei indicavano come profetici, era uno dei pezzi che si riferivano al Messia. Arrotolato quindi il volume lo restituì all’inserviente e si sedette. Gli sguardi di tutti i presenti erano fissi sopra di Lui ed Egli cominciò a dire loro: “oggi si è compiuta questa scrittura in mezzo a voi: Io sono il Messia; questa profezia si è adempiuta”. Questa è la prima sfida, il primo momento dialettico di Cristo con la società in cui era nato. Il primo gesto della Sua missione in che cosa consisteva? In una promessa: che i ciechi vedano, che il cuore sia liberato, che la gente sia confortata, che gli zoppi camminino. E’ una promessa innanzitutto per questo mondo, di una vita più umana in questo mondo. Anzi, la teologia cattolica spiegherà
meglio questo nella morale, dicendo che chi vivrà in modo umano questo mondo potrà godere per l’etemità, felice: è il concetto di merito. Questa è l’idea centrale di tutti i discorsi del Papa. Questo Papa ha scoperto nella sua vita personale, e adesso lo insegna a tutti, una cosa per cui la tradizione cristiana relegata nella soffitta o chiusa nell’aria misteriosa, strana e incomprensibile dei gesti sacramentali o della pietà, chiusa dentro le mura delle chiese: questo annuncio di Cristo, questa presenza di Cristo, il Papa l’ha come afferrata e riportata al suo posto. Il suo posto è nella nostra carne, nelle nostre ossa, è nella nostra vita di tutti i giorni, è nella nostra esigenza di amore, nella nostra esigenza affettiva, è nel rapporto con i figli e con i genitori, è nei rapporti tra ragazzo e ragazza, è nel rapporto con il libro che si studia, con la curiosità che fa indagare, con la necessità che fa lavorare, col gusto di costruire, con lo sguardo con cui si guarda lo spettacolo di queste vostre colline in un tramonto come quello di stasera.
Unica regola: il coraggio di un’amicizia
Questo cambia, e da questo si capisce, capisco che ci sei perché mi cambi, mi cambi la vita, non con un tocco di bacchetta magica, ma come in un cammino. Perché se noi fissiamo un fiore oppure il grano appena spuntato dalla terra, prima di mutare, se noi lo stiamo ad osservare non cresce più, non lo vediamo crescere. Ma dopo un mese, due, tre, la pianta è piu grande, dopo un po’ di mesi è quello che è: è il grano che si trebbia. La vita non si vede mai salire, si vede che è già salita. Come quando ero piccolo: c’era una pianta in giardino e mia mamma mi metteva vicino alla pianta e segnava all’inizio dell’anno, con un coltellino dentro la scorza, a che punto ero arrivato; e l’anno dopo mi metteva vicino alla pianta e col coltellino segnava dove ero arrivato due centimetri, quattro, cinque di sviluppo. La vita non si sorprende nel suo moto, la si sorprende nel suo effetto. E cosi la Fede: “questa – dice Giovanni – è la vittoria che vince il mondo, la Fede”. Vince non con le arrni, vince nel senso che ne afferra il significato, la gode nel gusto profondo, l’accetta e la porta nella sua “politica di prova”.
Volevo dire che la seconda cosa implicita necessariamente nella risposta alla sua domanda e da esplicitare è che la promessa di felicità è soltanto Dio che la può fare agli uomini e questa promessa Dio è venuto a farla. Si è preso uno di noi per farci questa promessa e c’è un solo modo per capire se è vero o no: seguirlo, vale a dire cercare nonostante le migliaia di interruzioni colpevoli, di distrazioni naturali, di incoerenza e di fragilità che rientrano nella nostra giornata, cercare di vivere con Lui, camminare umilmente con il tuo Dio. E’ questo che noi abbiamo l’ingenuità ed il coraggio di dire al nostro compagno di banco, o alla persona che troviamo per la prima volta in un salone di una festa. Perché come si fa a voler bene ad una persona senza desiderare che questo avvenga per lei, che questa promessa sia a lei tesa e che l’esperienza del suo adempimento riempia la sua vita, come si fa a voler bene? E impossibile! Ecco, insegniamo a voler bene al compagno di banco, al compagno di lavoro, insegniamo a voler bene all’individuo che ci siede vicino in treno o sul pullman che ci porta al lavoro. E’ dunque per una umanità “piu umana” una rinnovata fedeltà cristiana. Ma il cristianesimo è la vita, è una vita perché vivere un’amicizia, cioè vivere una compagnia di uno vicino è una vita, il rapporto tra una madre e suo figlio è una vita; non si può ridurre a delle forrnule o ai momenti in cui dà il bacio. Quando facevo i capricci mia madre mi diceva:”guarda, invece di darmi il bacio fai del bene, ascoltami” e magari quella sera il bacio non lo voleva. Perciò è realmente come un’osmosi, un rovesciare dentro di noi, un lasciare che si rovesci dentro di noi, una sensibilità, una mentalità, un atteggiamento, un sentimento della vita diverso. Il Cristianesimo è questo.
L’avventura di una vita da Uomini
Dicevo che il Papa è il grande annunciatore di questa ripresa. L’anno scorso, quando ci siamo radunati a Rimini e Lui ha osato venire a un Meeting in mezzo a tanta gente, ci lasciò un impegno, l’impegno fu questo: che lavorassimo, ci sacrificassimo e pregassimo perché avvenisse sulla terra la civiltà della verità e dell’amore. Civiltà vuol dire una umanità vissuta, rapporti che creano la vita di un paese e prima ancora la vita di una famiglia, la vita di una compagnia; civiltà e questo, non riguarda l’aldilà, perche all’aldilà noi andremo attraverso il merito di queste cose. Altrimenti la nostra vita non avrà avuto, appunto, merito cioé senso, dignità.
Una ragazza. Io ed alcuni miei compagni di scuola abbiamo un problema con un nostro insegnante. Questo insegnante ha la grandissima capacità di distruggere quello in cui noi, giovani di 18 anni,crediamo: la nostra voglia di vivere, la nostra felicità e quelle poche o tante certezze che abbiamo. Ora Lei ci ha detto che la cosa più importante è far sì che “l’amaro che c’è in me sia mutato in allegria”: come è possibile questo per noi della nostra classe? Come è possibile che quelle cinque ore in classe siano un tempo di costruzione e non di distruzione? Don Luigi Giussani. Innanzitutto mi perrnetto di dare un giudizio:
un adulto che cerchi di distruggere le certezze dei giovani è un delinquente nel senso letterale del termine e, nel migliore dei casi, un egoista accanito che non ha altro gusto che proiettare se stesso sulla fragile tela di chi non può rispondere. Ma abbiamo mica detto che tutto coopera al bene, anche il male? Allora vorrà dire che tutto ciò che il vostro insegnante opera come tentativo di distruzione delle vostre certezze, vi dovrà aizzare di più a rendere ragione di queste vostre certezze. Ma siccome ognuno da solo è come impotente, e fragile, sentirete la necessità di mettervi insieme. E siccome anche il mettervi insieme può essere impacciato perché la somma di tante debolezze può aggravare la questione invece di risolverla, voi sentirete la necessità che la vostra compagnia sia guidata, aiutata da persone che abbiano fatto il cammino, abbiano vissuto in loro stesse gli interrogativi e le fatiche che voi vi sentite addosso; e perciò sentirete la necessità che la loro esperienza aiuti la vostra inesperienza.
Io dico sempre che la natura le cose più necessarie della vita le ha rese facilissime: infatti fra cento donne un bambino riconosce subito sua madre. Per vivere, la cosa più necessaria è la certezza, senza certezza uno non si muove. Anche sant’Agostino osservava argutamente che l’affermare che tutto è incerto è una contraddizione filosoficamente, razionalmente, perché per affermare che tutto è incerto bisogna affermare con certezza almeno una cosa: che tutto è incerto. Perciò per afferrnare che tutto è incerto bisogna contraddirsi, non lo si può dire naturalmente, razionalmente, è impossibile dirlo. Allora le certezze che riguardano l’esistenza hanno un accento, hanno un volto che immediatamente si rivela.
Cristiano, ovvero “chi ha ragione”
Supponiamo che entri in classe un professore e vi dica: “Questo qui è un libro”e tutti dite: “già è un libro”. “Ecco, guardate l’equivoco della nostra conoscenza: se uno non s’accorge del libro è come se il libro non ci fosse. Vedete dunque che è la ragione che crea il libro”. E’ un professore, diciamo, idealista. Dopo lui si ammala, viene il supplente e vuol partire dallo stesso punto, dice: “Questo è un libro, tutti abbiamo l’impressione che sia un libro ma dimostratelo, come fate ad essere certi che è un libro e che non sia un vostro pensiero?”. E questo è un professore con posizione scettica, come il tuo insegnante. Poi si ammala anche lui e allora viene il supplente del supplente, magari uno appena sfornato dall’università, entra dentro e domanda: “Cosa vi hanno spiegato?”. “Ci hanno detto del libro”. “E’ chiaro che questo è
un libro! E’ evidente o no che questo è un libro?”. “Si, la nostra prima evidenza è che questo è un libro. Ma se uno non s’accorge che c’è è come se non ci fosse. Allora vedete che la conoscenza è l’incontro della nostra ragione con una realtà”. Questa è la filosofia cristiana. Allora amica mia, tu hai per natura un criterio per capire quale dei tre ha ragione: è quello che più si avvicina all’evidenza della tua conoscenza. Perciò l’atteggiamento del tuo insegnante io l’ho chiamato delittuoso, perché è una forzatura psicologica, non è una spiegazione. Ad ogni modo quello che mi interessa sottolineare sono questi due criteri: 1) le certezze fondamentali; 2) l’amore di chi ti vuol bene.
L’intuito per capire queste due cose la natura te lo dà tranquillamente. Mettendovi insieme, guidati, usate questi due criteri e vedrete come riuscirete a smobilitare anche l’attacco che il vostro insegnante fa alla vostra conoscenza, e così ne uscirà un bene, vale a dire che voi uscirete da quegli anni forti, più consapevoli. Guardate che san Pietro scrivendo ai primi cristiani dice: “Sappiate rendere ragione a chiunque di quello in cui credete”. E’ un invito ad essere razionali, ragionevoli, perché “la fede – diceva San Paolo – è ragionevole ossequio a Dio”. Non per nulla lo ha detto Giovanni Paolo II davanti all’UNESCO: “Senza la fede la ragione è perduta dagli uomini; l’uomo di oggi è smarrito; ha smarrito la certezza della ragione”. Perché se Cristo è Redentore dell’uomo…. Cosa vuol dire che Cristo è Redentore (le prime parole con cui Giovanni Paolo II ha intitolato la sua prima Enciclica)? Redentore vuol dire che dà all’uomo la capacità di essere veramente uomo, di saper amare veramente la donna, di saper amare verarnente i figli, di saper amare veramente l’amico, di saper amare veramente l’altro uomo, di saper amare veramente se stesso… amare se stesso, sì perché una delle cose piu difficili che io trovo in questo rapporto con decine di migliaia di giovani che ho avuto e che ho in questi anni, la cosa più faticosa è quella di aiutare ad amare se stessi, aiutare i giovani ad amare se stessi. E questa è la prima imitazione che dobbiamo a Dio perché noi non ci siamo fatti da noi, è una sorpresa. E’ una sorpresa che in questo momento io ci sia. Vale a dire è un dono. E’ un dato si direbbe in termini scientifici, ma in termini umani e drammatici è un dono.
L’esercizio della libertà
E se voglio tagliare il rapporto con Dio rimane qualcosa di più grande di me che è solo il potere nel senso materiale del termine. E se aboliamo il rapporto con Cristo ci rendiamo schiavi dell’intellettuale di turno, che è servo del potere e a cui il potere da fama e in base ai cui dettati crea la mentalità della gente, con tutti gli strumenti che ha in mano. Così viviamo in una grande era di schiavi, di alienati mentali. E’ per questo che la caratteristica della gioventù di questi ultimissimi anni, distrutte tutte quante le utopie del ’68 (come ha detto il Papa a Milano), o le utopie delle ideologie, non aspettandosi più nulla da nessuno, la caratteristica della gioventù di questi anni è quella di adottare facilmente, come unico sistema di vita, l’adesione alla propria istintività, la posizione radicale, il suo istinto, la propria reattività.
Perciò l’uomo o dipende da qualcosa di più grande di sé – e qui sta la libertà da ogni uomo, anche da se stesso – oppure è schiavo del potere, di qualunque natura e qualunque esso sia. E quanto più il progresso tecnico si incrementa, tanto più questo è un pericolo definitivo. Su questo il Papa ha messo piu volte in allarme il mondo: la perdita dell’umano. Io, quando discuto con i miei ragazzi dico: “Ma capite da dove prendete il vostro concetto di libertà? Lo prendete dall’aria, dalla mentalità comune: il vostro concetto di amore dell’uomo e della donna lo prendete dalla mentalità comune, l’idea del vostro rapporto con i genitori la prendete dalla mentalità comune. Ma come, le cose più
importanti per la vostra vita le prendete dalla mentalità comune? Siete alienati! Mentre è dal di dentro di voi stessi, è dalla coscienza di voi stessi che l’illuminazione deve venire, che il criterio per determinare questi valori deve essere scoperto”. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Salonicco, che erano i più disastrati, tutti disoccupati, sottoccupati, (era la comunità più povera di allora, della prima cristianità) proprio in una lettera a loro ho trovato la più bella definizione di critica. In nessun filosofo nella storia della filosofia l’ho trovata piu bella di questa, dice: “Vagliate ogni cosa, trattenete il valore, ciò che è vero, ciò che val la pena”. Ma quale è il criterio per discriminare e per trattenere? Dove l’ho pescato il criterio? O lo peschi nella tua natura, oppure sei vittima del potere altrui. Il delitto più grande nella traiettoria educativa della gioventù per noi che abbiamo la responsabilità, a mio avviso, è quello di non aiutare a far passare la fede il cui contenuto è stato dato dal papà, dalla mamma, dai preti, dalle suore, una volta dalle maestre (che adesso insegnano l’inverso). Ma occorre far passare questa tradizione attraverso quello che in greco è indicato con una parola che a noi sembra scettica mentre è una parola bellissima: crisi. Crisi è una parola italiana che deriva dal greco, che vuol dire “vagliare”, vagliare per capire il valore. E’ come se la natura facesse i bambini con una bisaccia dietro, analogamente all’antica tavola di Esopo delle due bisacce: quella davanti e quella dietro. Invece noi ne abbiamo una sola dietro e in questa bisaccia papà, mamma, suore, preti, zie, nonni ci mettono dentro quello che a loro sembra più buono per noi e così il bambino cresce fino a sette, otto, nove, dieci anni con il bagaglio di quello che gli è stato dato: “me lo ha detto la mamma” è il criterio fondamentale”, giustamente, perche per natura è cosi. Ma a una certa età la stessa natura dà istinto di prendere questa bisaccia e di portarla davanti per dire “portarla davanti” in greco si usa la parola che in italiano ha dato origine al termine “problema”; deve diventare problema quello che mi è stato dato e rovistando, cioè mettendo in crisi quello che mi e stato dato, io posso capire qualsiasi valore; valore vuol dire “val la pena”, cioè ciò che val la pena per la mia vita. Se uno non fa questo processo, ciò che ha imparato non diventa mai convinzione o deve aspettare le batoste della vita a quaranta, cinquanta, sessanta anni. Ma così si perde la giovinezza, vale a dire si perde la costruttività della propria fede e questa, a mio avviso, è la descrizione della cristianita intera oggi.
Una questione di soddisfazione
Perciò è urgente che la fede ritorni ad essere l’incontro in cui la ragione trovi la risposta ai suoi inappagabili interrogativi. Ma non sono questioni filosofiche grandiose, anche per chi ne ha necessità; sono le risposte implicite nel canto che abbiamo fatto in principio: “ma l’amaro, l’amaro che c’è in me sarà mutato in allegria”. Questa solitudine tra i miei compagni, questa amarezza di quando sono umiliato in cui non sento l’aiuto di nessuno, questo disagio di quando vedo papà e mamma che si comportano in un certo modo fra loro, guando la casa non è piu dimora, quando la realtà sociale tenta di distruggere, come ha detto prima lei, ciò su cui io possa con serenità costruire; ecco, è qui dove deve giungere la risposta della fede; la fede deve dimostrare di essere capace di risposta a questi livelli.
Dalla prima ora di scuola nel mio liceo, mi sono fatto il proposito di ripetere questa frase del Vangelo perche mi sembra il centro di tutta la pedagogia cristiana. La frase è questa: “Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù”. Allora dicevo in scuola: “Ma ragazzi, fin quando ve ne infischiate della vita eterna vi capisco perché non avete ancora sufficiente forza di immaginazione, di serietà; ma se vi infischiate del centuplo quaggiù siete proprio dei fessi”. “Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù” vuol dire che amerete cento volte di più vostra madre, vostro padre, i vostri figli, la vostra donna il vostro uomo, i vostri compagni di banco, la vita. Per questo ho capito quello che dice Cristo: che il giudizio sarà sulla testimonianza che avremo dato. Perché non c’è nessuna cosa più buona per l’uomo, di qualunque stirpe o nazione, che trovare delle persone la cui umanità è stata resa più umana dalla fede, che vuol dire che la vita ha un senso possibile, pertinente i giorni del cammino, pertinente le cose che gremiscono di desideri il nostro cuore quotidianamente, che fanno vibrare i nostri rapporti. E’ venuto a Roma il cristianesimo … il fatto cristiano deve ridire quello che è, ma qui è la domanda con cui concludiamo: duemila anni fa l’hanno trovato là che parlava dal pulpito della Sinagoga, in quella piazza in cui c’era un gruppo di gente a cui ha detto: “chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù”. Era gente che pendeva dalle sue labbra perché, dice il Vangelo: “Nessuno ha mai parlato come questo uomo”. Ecco, duemila anni fa in quella piazza…. E ora come facciamo a trovarlo, come facciamo a incontrarlo? Perdonatemi, ma quando la nostra vita, nel pensiero, nel cuore nella sua modalità esteriore viene mossa, commossa, cambiata dalla sua parola, dal suo annuncio allora noi comprendiamo che Egli è presente.
In filosofia si dice che un essere è presente dove agisce; se si sente un rumore in una stanza silenziosa vuol dire che c’è qualche cosa che è presente, anche se non la si vede che è presente, e infatti lo è. “Io Padre ti prego che siano una cosa sola affinché il mondo si accorga che Tu mi hai mandato” . Lui ha preso dimora fra di noi e rimane fino alla fine dei tempi e il volto di questa sua presenza se duemila anni fa era un corpo, il suo corpo come il nostro, questo corpo si è come dilatato nel mondo, nel tempo, nello spazio, assimilando a sé tutti coloro che hanno cercato di andargli dietro. Egli è presente in coloro e attraverso colore che Gli dicono: “Ti credo, aiutami a seguirti”. Più precisamente Egli è presente attraverso il fenomeno che si avvera immediatamente quando uno cerca di seguirlo che si unisce all’altro che cerca di seguirlo. Questa è l’unità dei credenti.
Il miracolo dell’unità
Stasera, anche nella scempiaggine della banalità una Realtà si muove, una Presenza ci sfida, ci provoca. Nella mia scuola – così
concludo e così iniziò la mia esperienza – quando facevano le assemblee erano divisi tra comunisti e monarchico-fascisti, destra e sinistra secondo le parole che ormai non hanno piu veramente senso. Stavo andando a casa a mezzogiorno, tutto pensieroso e dicevo: “Ma i cristiani non ci sono?” e ho doppiato quattro ragazzetti che non erano neanche del liceo, erano del ginnasio, e ho detto loro: “Ma voi siete cristiani?”. Loro mi dissero un po’ stralunati: “Si”. Allora io li investii dicendo: “Ma come, siete cristiani? E dove si vede in scuola? Su milleduecento sarete battezzati in millecento, ma il cristianesimo dov’è? Che cristiani siete?”. La volta dopo, nell’assemblea, uno di quei quattro ragazzetti di cui ricordo i nomi, anche se tre sono già morti, uno che si chiamava Franco si alzò e disse: “Noi cattolici …”
presentando una terza mozione. Da quel momento, in quella scuola dove non si parlava mai di cristianesimo e Chiesa, per dodici anni (tanto quanto ci sono stato io che posso testimoniarlo) non c’e stato nessun contenuto piu vibrante di diatriba, di dialettica, di attrattiva, di iniziativa che il cristianesimo. Da quando alcuni cristiani si sono mossi insieme. Perché questo è il miracolo attraverso cui Cristo dimostra la sua presenza: l’unità dei cristiani.
Costruttori diun mondo nuovo
Provate a pensare se in un paese, quelli che vanno in chiesa, la cosìddetta Parrocchia, veramente vivessero una unità tra di loro! Vivere l’unità tra di noi vuol dire che ognuno condivide il bisogno dell’altro. San Paolo diceva: “Sapete che siete membra gli uni degli altri”, con quella espressione che tutto l’internazionalismo di questo mondo non ha mai saputo immaginale! “Sapete che siete membra gli uni degli altri”, l’unità dei cristiani, degli uomini, il miracolo assoluto che è impossibile all’uomo. E’ impossibile essere unito all’altro uomo, essere unito al proprio fratello, è impossibile! Tanto è vero che l’uomo saggiamente fa una lotta spietata in tutto il mondo perché si affermi che anche il rapporto tra l’uomo e la donna non è un’unità.
Comunque, almeno alcuni accenti del desiderio profondo che ci anima, e che anirna ormai centinaia di migliaia di gruppi, oltre che di persone, sono emersi; il desiderio profondo comunque è quello di collaborare ad una umanità più umana, a una civiltà nuova della verità e dell’amore. “Civiltà” come dice il Papa, e per far questo c’e un’unica strada: quella di rendere finalmente viva, vivente, cioè aderente alla vita, incarnata nella vita, la fede in Cristo.
Perciò possiamo sbagliare un milione di volte, ma questo intendimento è cosi giusto e cosi grande che attraverseremo il milione dei nostri errori. Perciò i grandi aiutino, non ci condannino.

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