CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


martedì 30 dicembre 2014

Caro Sancio, le nostre opere non devono uscire dai limiti impostici dalla religione cristiana,

 Caro Sancio, le nostre opere non devono uscire dai limiti impostici dalla religione cristiana,
***
Caro Sancio, le nostre opere non devono uscire dai limiti impostici dalla religione cristiana, che noi professiamo. Dobbiamo uccidere l’orgoglio nella persona dei giganti, l’invidia con la generosità e la grandezza d’animo; 
l’ira col tranquillo contegno e la serenità dell’animo; 
la gola e il sonno con l’astinenza e con la veglia; 
la lussuria e la lascivia col serbar fede a quelle che abbiamo fatte signore dei nostri pensieri, 
la pigrizia con l’andar per tutte le parti del mondo a cercar le occasioni che ci possan fare e ci facciano, oltre che buoni cristiani, famosi cavalieri.
  Ecco, o Sancio, i mezzi con cui si acquistano gli estremi della lode che trae con sé la buona fama (Don Chisciotte II, 8).

domenica 28 dicembre 2014

IO LO SO

IO LO SO
***
Io lo so
che il figlio mio e Tuo
non lo vedrà nessuno
e che tutti lo vedranno.
Ma a Giuseppe
cosa dirò?
Lui che piange nascosto in una lacrima,
in un canto?
Cosa dirò?
Che Tu prima di lui
hai visto la mia solitudine
e ne hai fatto un corpo?
Cosa dirò a Giuseppe mio sposo?
Dirò che l’ho ingannato?
Dirò che l’ho tradito con Te?
Ma come si può tradire un uomo
con un’essenza divina?
Cosa dirò a Giuseppe, Signore?
Questo compito ingrato,
questo dubbio atroce,
tutti gli uomini l’avranno in cuore
quando vedranno una vergine incinta
della Tua Stessa Parola.

Chi è l'uomo della Sindone?

Chi è l'uomo della Sindone?

Siamo in grado di ricostruire un identikit della persona che venne avvolta nella Sindone?

***

© P.M WYSOCKI / LUMIÈRE DU MONDE

Sindone di Torino prove scientifiche uomo sudario Gesù





La tradizione della Chiesa e i risultati della ricerca scientifica affermano che con altissima probabilità il corpo senza vita impresso sul lino di Torino sia quello di Gesù. Infatti, il tessuto rivela un uomo adulto, sulla quarantina, robusto, alto circa un metro e ottanta, che mostra i segni della flagellazione e della crocefissione, cui fu tributata una sepoltura onorifica.


1) L'immagine che emerge dalla Sindone è quella di un cadavere martirizzato, con il capo e la nuca feriti da un insieme di oggetti appuntiti, le ginocchia e il setto nasale escoriati e cosparsi di terra come in seguito a una caduta, un'ampia ferita al costato apertasi dopo il decesso, i polsi e i piedi trafitti da chiodi, e le scapole segnate probabilmente da una pesante trave.

L'immagine rimasta impressa sul telo sindonico ci parla di un corpo che manifesta tutti i sintomi del rigor mortis, il particolare irrigidimento muscolare che segue la morte: il capo è forzatamente flesso sul petto senza che vi siano segni di un sostegno al di sotto della nuca, gli arti superiori e inferiori hanno una posizione del tutto innaturale. In particolare, la foratura in corrispondenza dei polsi e dei piedi, la posizione contratta del torace e dei muscoli delle cosce, le lacerazioni lasciate da un grosso supporto rigido sulla schiena mostrano che l'uomo fu giustiziato con la crocifissione. Prima di essere flagellato venne denudato, e infatti su quasi tutta la superficie corporea, tranne che sul volto, sono state contate 120 lesioni affiancate due a due provocate quasi sicuramente da un flagello composto da un manico al quale erano state applicate due funicelle o lunghe striscioline di cuoio terminanti con due piccoli pesi di piombo. In questo caso si deve pensare che fossero stati vibrati 60 colpi. In tutto le tracce di ferite visibili contate sono invece 372. La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che fosse alto sul metro e ottanta. I segni dell'invecchiamento che si manifestano sul volto dell'uomo sindonico inducono ad affermare che potesse avere circa quarant'anni. Il setto nasale presenta una frattura scomposta, la parte destra del viso è completamente tumefatta. Il sangue rinvenuto sul telo, come dimostrato per primo dal medico chirurgo Pierluigi Baima Bollone, è umano di gruppo AB – quello statisticamente più raro, in Europa corrisponde al 5% della popolazione, mentre negli ebrei è molto più elevata la percentuale – e contiene una grande quantità di bilirubina, un fatto tipico in chi ha subito una morte violenta. Nella zona del cranio compare l'impronta di 13 ferite inferte da oggetti appuntiti tutti dello stesso tipo, disposti nella parte superiore della testa a formare una specie di elmo o casco. Le emorragie dipendono alcune da ferite che l'uomo subì da vivo, altre invece gli vennero inflitte quando era già morto. L'esame del flusso sanguigno indica che l'uomo fu avvolto nel telo in un tempo preciso, non oltre due ore e mezzo dopo la sua morte. Nella zona delle scapole le ferite appaiono ulteriormente ingrandite e abrase, come se avesse trasportato un grosso oggetto rigido, un dato che fa pensare al trasporto del patibulum, la trave di legno pesante oltre cinquanta chilogrammi, che veniva portata dal condannato fino al luogo dell'esecuzione e che avrebbe formato il braccio orizzontale della croce da issare sopra un palo infisso a terra, detto stipes.

2) Alcune anomalie – il trasporto del patibulum, l'utilizzo di chiodi per mani e piedi, la corona di spine, il fatto che non fosse finito in una fosse comune – oltre a rendere questa crocifissione molto particolare, fanno pensare che sia stata una esecuzione esemplare particolarmente dura
Le lesioni appaiono numericamente molto superiori a quelle prevedibili per un condannato che avrebbe dovuto subire successivamente un'esecuzione capitale. La flagellazione denota un duro accanimento, una severa punizione. Nell'ordinamento romano il numero dei colpi di flagello era limitato dal divieto di uccidere il condannato, mentre presso i giudei il numero dei colpi è fissato a quaranta, un numero sacro, come si legge in Deuteronomio 25,3. Per questo quando usavano una frusta con tre estremità, i giudei vibravano soltanto tredici frustate per non esporsi al pericolo di oltrepassare questo numero limite. Inoltre, l'immagine impressa testimonia che il corpo subì due forme di violenza non riconducibili all'uso romano: la presenza delle ferite puntiformi sul cranio e presso la nuca, oltre alla ferita da arma da punta e taglio inferta fra la quinta e la sesta costola. Un'altra anomalia è che al suppliziato non furono spezzate le ossa delle gambe, cosa che gli ebrei usavano fare per esigenze rituali: sempre il Deuteronomio proibiva di lasciare i cadaveri sulla croce oltre il tramonto, e la pratica di fratturare le gambe (crurifragium) affrettava la morte e quindi permetteva di tirarli giù prima della sera. L'impronta di sangue più vistosa fra tutte corrisponde a quella riportata sulla parte destra del torace, provocata da un'ampia ferita da punta e taglio, possibilmente una lancia. Il sangue risulta diviso nelle sue due componenti, ovvero la parte sierosa e quella corpuscolata (i globuli rossi): la divisione denominata “dissierazione” si compie solo dopo la morte, perciò la ferita che ha provocato lo squarcio sul torace è stata inferta quando l'uomo era già cadavere. L'impronta si è prodotta prima che si sciogliesse il rigor mortis, quindi prima che cominciasse il naturale processo di decomposizione dopo 36-48 ore.

3) Dal tipo di tessuto di lino e da come venne trattata la salma, possiamo dedurre che l'uomo avesse ricevuto una sepoltura senza la purificazione rituale prevista dalla legge giudaica ma comunque molto onorevole: i tessuti di quella fattura, nell'ebraismo antico, erano infatti riservati agli usi del Tempio di Gerusalemme e agli uomini consacrati a Dio.

Al contrario di quanto previsto dagli usi funerari degli ebrei menzionati nel Talmud, il cadavere staccato dalla croce è stato adagiato su un lungo lenzuolo nudo, non lavato e non rasato. Secondo quanto scrive Emanuela Marinelli in “La Sindone. Testimone di una speranza” (Edizioni San Paolo, 2010): “Quattro categorie di persone non ricevevano la purificazione rituale secondo la legge giudaica: vittime di una morte violenta; giustiziati per crimini di natura religiosa; proscritti dalla comunità giudaica; uccisi da non Giudei”. Tuttavia, l'uomo della Sindone, in accordo con la cultura ebraica venne sepolto in un candido lino e per di più di estremo valore. La Sindone è stata infatti tessuta con una tecnica detta “a spina di pesce”, utilizzata sicuramente già prima dell'era cristiana ma di cui ci rimangono rari esemplari, soprattutto in lino. Il filato presenta, invece, la complessa e molto rara torcitura a Z, nel quale le fibre vengono condizionate a torcersi nel verso contrario rispetto a quello che prenderebbero spontaneamente nel seccarsi al sole. Il sudario è stato sicuramente prodotto in ambiente ebraico poiché dalle analisi non sono emerse tracce di fibre di origine animale, in ottemperanza alla legge mosaica (Dt 22,11) che prescriveva di tenere separata la lana dal lino. Semmai sono state rilevate tracce di fibre di cotone identificate come Gossypium herbaceum, diffuso in Medio Oriente ai tempi di Cristo. Questo tipo di telo richiama un tessuto assai pregiato e ritualmente puro con cui, negli usi liturgici dell'ebraismo antico, venivano confezionati i velari del Tempio di Gerusalemme e che veniva usato dal sommo sacerdote – il presidente del Sinedrio, il consiglio supremo che reggeva la comunità ebraica – per avvolgersi dopo aver compiuto per cinque volte il bagno rituale obbligatorio nel giorno in cui celebrava il rito dell'Espiazione (lo Yom Kippur), la festa più sacra. E' strano quindi che il corpo di un condannato a un supplizio infamante da cui erano esenti i cittadini romani e che era riservato a traditori, disertori e spesso agli schiavi, sia stato avvolto in un sudario estremamente prezioso per poi esservi rimosso poco tempo dopo, invece di essere gettato direttamente in una fossa comune o finire in pasto alle belve. 

4) Il luogo in cui l'uomo della Sindone fu sepolto o in cui il lenzuolo rimase esposto più a lungo può essere ricavato da due elementi: i pollini rimasti imbrigliati nella sua trama e appartenenti a varie specie vegetali esistenti solo in Medio Oriente o per lo più concentrate in un'area che circonda la zona di Gerusalemme; il terriccio rinvenuto e contenente aragonite, un minerale abbastanza raro però diffuso nei dintorni di Gerusalemme.

Le analisi sul tessuto sindonico hanno permesso di accertare la presenza sia di pollini europei (in quantità più esigua) che di pollini di piante che vivono nella regione di Costantinopoli, nella steppa anatolica e sulla sponde del Mar Morto. Studiando i diversi spostamenti del telo sindonico ricavabili sin dalle testimonianze cristiane più antiche, gli esperti di botanica hanno trovato riscontri al tragitto di questo sudario che parte da Gerusalemme, passando per la Palestina, Edessa, Costantinopoli, Budapest, Lirey, Chambery, fino ad arrivare a Torino nel 1578. Lo studioso Max Frei, dopo aver raccolto campioni di piante durante la stagione della fioritura nelle regioni geografiche in cui la Sindone può aver soggiornato, aveva individuato i pollini di 58 piante diverse sul misterioso lenzuolo, nessuna specie anemofila, cioè trasportata dal vento: 45 di queste crescono in un unico territorio al mondo, l'area cioè circostante Gerusalemme. In seguito, Uri Baruch esaminando i preparati di Frei confermò la presenza di Gundelia tourneforti – che fiorisce nel periodo primaverile tra Gerusalemme e il Mar Morto e alla quale appartiene oltre il 50% dei pollini rinvenuti sulla Sindone – di Zygophillum dumosum e di Cistus creticus. piante che vivono e fioriscono insieme in un'unica area al mondo: quella tra la città di Hebron e Gerusalemme. In seguito l'individuazione di altre quattro specie oltre a quelle tre spinse il docente di botanica Avinoam Danin ad affermare che la sepoltura doveva aver avuto luogo in marzo-aprile. Un indizio per capire che questo cadavere venne deposto con onori assolutamente non permessi per i condannati a morte, che secondo la norma dovevano restare per dodici mesi nello spazio infamante di un sepolcreto pubblico prima che i loro resti potessero essere resi ai parenti. Inoltre, in alcuni campioni prelevati nella zona dei piedi c'era del terriccio: l'uomo aveva quindi camminato scalzo per un certo lasso di tempo. Le stesse tracce furono rinvenute in corrispondenza della punta del naso e del ginocchio sinistro, che risulta vistosamente tumefatto, come se l'uomo poi avvolto nel telo fosse caduto a terra battendo violentemente anche il viso senza la possibilità di ripararsi con le mani (come per l'impedimento del patibulum). L'esperto di cristallografia Joseph A. Kohlbeck e il fisico Ricardo Levi-Setti hanno notato che quel terriccio contiene aragonite, un minerale abbastanza raro però molto diffuso nel terreno di Gerusalemme. Inoltre nel telo è stata rintracciata la presenza del natron, un composto usato in Palestina ed Egitto per la conservazione delle salme.

5) Attraverso la ricostruzione dell'impronta di due monete e di alcune scritte rinvenute sul lenzuolo della Sindone, si può ipotizzare che l'uomo venne sepolto attorno al 29-30 d.C.

In seguito a delle analisi iniziate nel 1951, padre F. L. Filas affermò di aver individuato sulla palpebra destra del volto sindonico impronte estremamente simili a quelle esistenti sulla faccia di una moneta, un “dilepton lituus”, che presenta sul diritto il simbolo del “lituo” – cioè di una specie di bastone da pastore, presente su tutte le monete di Pilato coniate dopo il 29 d.C. – circondato dalla scritta greca TIBEPIONƳ KAIƩAPOƩ: una moneta che risale quindi ai tempi di Tiberio. Pierluigi Baima Bollone e Nello Balossino attraverso l'elaborazione dell'immagine bidimensionale dell'arcata sopraccigliare sinistra hanno invece evidenziato la presenza di segni riconducibili a un “lepton simpulum”, una moneta bronzea che oltre alla riproduzione sul verso di una coppa rituale con manico (“simpulo”), recava anche la scritta TIBEPIONƳ KAIƩAPOƩ LIS, ovvero risalente all'anno XVI dell'imperatore Tiberio, che corrisponde all'anno 29-30 d.C. La presenza di monetine, riflesso di un'usanza pagana entrata nella consuetudine ebraica, è stata confermata dal ritrovamento di monetine nelle cavità orbitali di teschi rinvenuti a Gerico, e risalenti all'epoca di Cristo e a En Boqeq, nel deserto di Giuda, dell'inizio del II sec. d.C. Sono stati poi osservati anche dei segni grafici sul lenzuolo che i diversi paleografi hanno tentato di interpretare in vario modo. Le immagini più definite riguardano la scritta INNƩCE, che potrebbe corrispondere alla forma abbreviata latina di in necem ibis, “andrai a morte”, che era la sentenza di condanna. Altri studiosi hanno invece ravvisato la presenza anche di scritte in caratteri ebraici. Secondo Barbara Frale, le scritte trasferitesi per contatto da cartigli identificativi del nome del condannato e dell'autorizzazione legale a eseguire la pena, andrebbero tradotte così: “Gesù Nazareno. Trovato [che sobillava il popolo, cfr. Lc 23,2]. Messo a morte nell'anno 16 di Tiberio. Sia deposto (oppure: veniva rimosso) all'ora nona. [Sia reso in] Adar [sheni]. Chi esegue gli obblighi è [...]”. Adar sheni è il mese nel quale i parenti, un anno dopo, avrebbero potuto recuperare i resti del defunto. Barbara Frale nel volume “La Sindone di Gesù Nazzareno” (Il Mulino, 2009) riferisce che a Gerusalemme l'unico modo per identificare a distanza di un anno i cadaveri dei condannati a morte che per un anno era stati nel sepolcreto pubblico prima di essere riconsegnati ai parenti erano questi certificati di sepoltura.  

 
CONCLUSIONE:

Anche se la Chiesa non si è mai pronunciata ufficialmente e in maniera definitiva sull'identità dell'uomo raffigurato nella Sindone ma continua a incoraggiare la ricerca scientifica sul lino di Torino, tutte le indagini condotte sinora convergono su una risposta: il corpo misteriosamente impresso può essere con altissima probabilità solo quello del Cristo deposto dalla croce. Tutto sembra stringere il cerchio delle ricerche attorno alla Palestina del I sec. Inoltre, vi è una sostanziale concordanza tra il racconto dei Vangeli sulla Passione di Cristo e le informazioni che riusciamo a ricavare dalla Sindone, tanto più grande in quanto alcune particolarità risultano divergere dalla crocifissione romana del I sec.:

    •    l'efferata flagellazione, smisurata prima di una crocifissione (sono stati ipotizzati 60 colpi di frusta) → Gesù venne flagellato e percosso sul volto e sul corpo [Mc 15,15-19; Mt 27,26-30; Lc 23,16; Gv 19,1-3];
    •    la coronazione di spine (non abbiamo documenti che riportino una tale usanza per le crocifissioni né presso i romani né presso altri popoli) → Gesù venne rivestito dai soldati romani della corona di spine e della porpora per essere schernito come re dei Giudei [Mc 15,17; Mt 27,29; Gv 19,2];
    •    il trasporto del patibulum, il palo orizzontale della croce (nelle crocifissioni, soprattutto in quelle di massa, si preferivano alberi o croci occasionali) → Gesù trasportò la propria croce fino al Golgota (Mc 15,20-21; Mt 27,31-32; Lc 23,26; Gv 19,17)
    •    la sospensione alla croce con i chiodi invece delle più comuni corde (una particolarità che sembra fosse riservata a crocifissioni ufficiali) → Nel Vangelo di Giovanni, nell'episodio dell'apostolo Tommaso, si dice che Gesù portava i segni della crocifissione sulle mani, mentre Luca fa riferimento sia alle mani che ai piedi [Gv 20,25 e 20,27; Lc 24,39-40];
    •    l'assenza di crurifragium, la frattura delle gambe inflitta per accelerare la morte → A Gesù non vennero spezzate le gambe come ai due ladroni perché morì in maniera insolitamente rapida, tanto che Pilato se ne stupì [Gv 19,32-33; Mc 15,44];
    •    la ferita al costato inferta dopo la morte (un fatto raro) → Gesù venne colpito con una lancia al costato da un centurione per accertare che fosse morto. Dalla ferita fuoriuscì acqua mista a sangue [Gv 19,34];
    •    la mancata unzione, rasatura e vestizione del cadavere com'era previsto dagli usi dell'epoca e la sepoltura affrettata → Gesù venne avvolto nudo in un lenzuolo e posto in un sepolcro subito dopo la deposizione dalla croce, perché stava sopraggiungendo la sera ed era la vigilia della Pasqua ebraica che coincideva quell'anno con lo shabbat, il giorno di riposo della settimana in cui è vietato qualsiasi lavoro manuale;
    •    l'avvolgimento del cadavere in un lenzuolo pregiato e la deposizione in una tomba propria invece della fine in una fossa comune → Giuseppe di Arimatea, un ricco membro del Sinedrio, acquistò il lino in cui venne avvolto Gesù e lo seppellì in un sepolcro da lui stesso fatto scavare nella roccia [Mc 15, 42-46; Mt 27, 57-60; Lc 23, 50-54; Gv 19, 38-41];
    •    il breve tempo di permanenza nel lenzuolo → Gesù morì all'età di 37 anni venerdì 7 aprile dell'anno 30 d.C., intorno alle 15:00, dopo sole tre ore di agonia, il suo corpo rimase nella tomba dalle 18:00 circa di quello stesso giorno fino alle 6:00 circa di domenica 9 aprile, quando Maria di Magdala insieme ad altre donne trovò il sepolcro vuoto [Mc 16,1-8; Mt 28,1-10; Lc 24,1-10; Gv 20,1-10).



Dobbiamo uccidere l’orgoglio nella persona dei giganti

 Dobbiamo uccidere l’orgoglio nella persona dei giganti
***
Caro Sancio, le nostre opere non devono uscire dai limiti impostici dalla religione cristiana, che noi professiamo. Dobbiamo uccidere l’orgoglio nella persona dei giganti, l’invidia con la generosità e la grandezza d’animo; l’ira col tranquillo contegno e la serenità dell’animo; la gola e il sonno con l’astinenza e con la veglia; la lussuria e la lascivia col serbar fede a quelle che abbiamo fatte signore dei nostri pensieri, la pigrizia con l’andar per tutte le parti del mondo a cercar le occasioni che ci possan fare e ci facciano, oltre che buoni cristiani, famosi cavalieri. Ecco, o Sancio, i mezzi con cui si acquistano gli estremi della lode che trae con sé la buona fama (Don Chisciotte II, 8).

Che cos’è la nostalgia

Che cos’è la nostalgia

***

 

Breve storia di un sentimento antico come l’uomo, ma che ha trovato un nome solo tre secoli fa
Nel libro V dell’Odissea c’è una scena, descritta intorno al verso 190, in cui Ulisse piange. Non è l’ultima volta nel poema, ma è importante. Ulisse si trova seduto sulla sponda del mare con le guance rigate di lacrime, consumato dal pensiero del ritorno. In quel momento Ulisse è sull’Isola di Ogigia da sette anni e anche se accanto a sé ha Calipso, una ragazza incredibilmente bella, se ne vuole andare.
Non serve a nulla il fatto che Calipso lo ami follemente e nemmeno che sia una ninfa, figlia del titano Atlante e di un’oceanina. Non serve nemmeno l’incredibile promessa che lei è disposta a fargli pur di farlo restare: offrirgli l’immortalità, insieme alla promessa di passarla insieme, in quel luogo paradisiaco. Niente, non serve a niente. Ulisse deve partire, ammette che la sua Penelope non regge il confronto con Calipso, che è più bella, ma soprattutto, che è immortale, ma deve tornare a casa lo stesso. Vuole tornare a Itaca, vuole tornare a casa.
Un luogo paradisiaco, una donna bellissima che lo ama alla follia, il sogno dell’immortalità: solo una forza potente può portare un uomo a rinunciare a un sogno del genere. Quella forza, che lo porta a piangere come un bambino sulla sponda del mare pensando a casa — lui, uno dei più coraggiosi e valorosi uomini del Mediterraneo — è un sentimento che conosciamo tutti per averlo provato innumerevoli volte, magari da bambini, magari proprio davanti al mare, alla fine delle vacanze, pensando a casa. È nostalgia, ma lui — e con lui le generazioni di aedi che nei secoli hanno cantato in giro per la Grecia quella scena — ancora non lo sa.
Non lo sa — non lo può sapere — perché il termine “nostalgia”, pur essendo composto di due parole greche, νόστος (nostos, che significa “ritorno a casa”) e άλγος (algos, che significa “dolore”) non è affatto una parola di origine greca, né tantomeno è antica come l’Odissea. La parola “nostalgia” è una parola moderna coniata nel 1688, in Svizzera, da uno studente di medicina di appena diciannove anni di nome Johannes Hofer, il quale fu il primo a usarla nella sua tesi di laurea, Dissertatio medica de nostalgia, discussa proprio quell’anno all’Università di Basilea.
Hofer è uno studente di medicina, e quel termine, “nostalgia”, se lo inventa per descrivere una patologia che affligge i soldati svizzeri, i quali, portati a combattere lontano dalle valli, si ammalavano di tristezza, languivano, piangevano, si disperavano, erano colti da un senso di oppressione e di soffocamento, un po’ come Ulisse sulla riva del mare di Ogigia, e dovevano essere rimpatriati. Così come è teorizzata dal giovane Hofer, la nostalgia è una forza potentissima, un legame che trascende lo spazio e il tempo.
Facciamo un salto in avanti nel tempo di più di tre secoli. In una delle scene centrali di Interstellar, l’ultimo film di Christopher Nolan, Anne Hathaway, che interpreta il ruolo della figlia del professor Brand, recita una battuta che è stata molto criticata per la sua banalità mascherata da profondità e per la sua eccessiva mielosità: «L’amore è l’unica cosa che trascende il tempo e lo spazio». Ora, pur essendo una grandissima teneronata, ottenuta esagerando, e di parecchio, con lo zucchero, quell’affermazione non è sbagliata, è semplicemente incompleta. Perché l’amore non è l’unico sentimento in grado di trascendere tempo e spazio, c’è anche la nostalgia, una forza più vasta, che lega non soltanto le persone tra loro, ma che le lega ai tempi, ai luoghi e agli oggetti perduti del tempo.
La nostalgia, una forza antica come il primo uomo che salutò la sua donna per andare a procacciare del cibo, una forza che ci ha messo parecchi secoli per trovare un nome, ma che esiste da sempre ed è, da sempre, una forza che ci attrae perennemente all’indietro — che l’indietro sia un luogo o uno spazio poco importa — una malinconia totale e definitiva che ha a che fare profondamente con l’essere umano, con la sua mortalità e con uno dei suoi istinti più unici: l’arte.
Lo sguardo della nostalgia è quello del Baudelaire della poesia A una passante, uno sguardo fisso negli occhi della Passante, quel «cielo livido dove nasce l’uragano», occhi che si vedono una volta sola, poi passano, e sfuggono verso l’eternità, verso l’oblio. La nostalgia è lo sguardo rivolto all’indietro dell’Angelus Novus dipinto da Paul Klee e raccontato poi da Walter Benjamin, che tra le sue tesi di filosofia della storia, infilò anche questa meraviglia:

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Lo sguardo rivolto all’indietro dell’angelo che Klee regalò a Benjamin, che fissava le macerie del passato incapace di ricomporle; quello di Baudelaire, fisso negli occhi portentosi di una bella sconosciuta che sa di amare ma che non vedrà mai più; quello di Ulisse, rivolto a un orizzonte la cui fine si chiama Itaca: a questo ci ha portati la nostalgia, all’arte, l’unico gesto umano in grado di superare il tempo e lo spazio, da sempre.
Nel 23 a.C. Orazio pubblicava una delle sue liriche più famose, che recita così:

Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo
e più alto della regale maestà delle piramidi,
che né la pioggia che corrode, né il vento impetuoso
potrà abbattere né l’interminabile corso degli anni e la fuga del tempo.
Non morirò del tutto, anzi una gran parte di me
eviterà la morte; per sempre.

Circa duemila anni dopo, a Buenos Aires, Jorge Luis Borges finiva di scrivere uno dei suoi più bei saggi, intitolato Nuova confutazione del tempo, in cui cerca di teorizzare, più esteticamente che scientificamente, l’inconsistenza del passato e del futuro, e la sola sussistenza del presente. È un saggio bellissimo, e finisce così:

Il nostro destino non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.

il "catalogo" delle malattie



Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22.12.2014



Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi Alle ore 10.30 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Cardinali e i Superiori della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.
Nel corso dell’incontro, dopo il saluto del Decano del Collegio Cardinalizio Cardinale Angelo Sodano, il Papa ha rivolto alla Curia Romana il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
La Curia Romana e il Corpo di Cristo
"Tu sei sopra i cherubini, tu che hai cambiato la miserabile condizione del mondo quando ti sei fatto come noi" (Sant’Atanasio).
Cari fratelli,
Al termine dell’Avvento ci incontriamo per i tradizionali saluti. Tra qualche giorno avremo la gioia di celebrare il Natale del Signore; l’evento di Dio che si fa uomo per salvare gli uomini; la manifestazione dell’amore di Dio che non si limita a darci qualcosa o a inviarci qualche messaggio o taluni messaggeri ma dona a noi sé stesso; il mistero di Dio che prende su di sé la nostra condizione umana e i nostri peccati per rivelarci la sua Vita divina, la sua grazia immensa e il suo perdono gratuito. E’ l’appuntamento con Dio che nasce nella povertà della grotta di Betlemme per insegnarci la potenza dell’umiltà. Infatti, il Natale è anche la festa della luce che non viene accolta dalla gente "eletta" ma dalla gente povera e semplice che aspettava la salvezza del Signore.
Innanzitutto, vorrei augurare a tutti voi - collaboratori, fratelli e sorelle, Rappresentanti pontifici sparsi per il mondo - e a tutti i vostri cari un santo Natale e un felice Anno Nuovo. Desidero ringraziarvi cordialmente, per il vostro impegno quotidiano al servizio della Santa Sede, della Chiesa Cattolica, delle Chiese particolari e del Successore di Pietro.
Essendo noi persone e non numeri o soltanto denominazioni, ricordo in maniera particolare coloro che, durante questo anno, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età o per aver assunto altri ruoli oppure perché sono stati chiamati alla Casa del Padre. Anche a tutti loro e ai loro famigliari va il mio pensiero e gratitudine.
Desidero insieme a voi elevare al Signore un vivo e sentito ringraziamento per l’anno che ci sta lasciando, per gli eventi vissuti e per tutto il bene che Egli ha voluto generosamente compiere attraverso il servizio della Santa Sede, chiedendogli umilmente perdono per le mancanze commesse "in pensieri, parole, opere e omissioni".
E partendo proprio da questa richiesta di perdono, vorrei che questo nostro incontro e le riflessioni che condividerò con voi diventassero, per tutti noi, un sostegno e uno stimolo a un vero esame di coscienza per preparare il nostro cuore al Santo Natale.
Pensando a questo nostro incontro mi è venuta in mente l’immagine della Chiesa come il Corpo mistico di Gesù Cristo. È un’espressione che, come ebbe a spiegare il Papa Pio XII, «scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri»1. Al riguardo san Paolo scrisse: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12)2.
In questo senso il Concilio Vaticano II ci ricorda che «nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11)»3. Perciò «Cristo e la Chiesa formano il "Cristo totale" - Christus totus -. La Chiesa è una con Cristo»4.
È bello pensare alla Curia Romana come a un piccolo modello della Chiesa, cioè come a un "corpo" che cerca seriamente e quotidianamente di essere più vivo, più sano, più armonioso e più unito in sé stesso e con Cristo.
In realtà, la Curia Romana è un corpo complesso, composto da tanti Dicasteri, Consigli, Uffici, Tribunali, Commissioni e da numerosi elementi che non hanno tutti il medesimo compito, ma sono coordinati per un funzionamento efficace, edificante, disciplinato ed esemplare, nonostante le diversità culturali, linguistiche e nazionali dei suoi membri5.
Comunque, essendo la Curia un corpo dinamico, essa non può vivere senza nutrirsi e senza curarsi. Difatti, la Curia - come la Chiesa - non può vivere senza avere un rapporto vitale, personale, autentico e saldo con Cristo6. Un membro della Curia che non si alimenta quotidianamente con quel Cibo diventerà un burocrate (un formalista, un funzionalista, un mero impiegato): un tralcio che si secca e pian piano muore e viene gettato lontano. La preghiera quotidiana, la partecipazione assidua ai Sacramenti, in modo particolare all’Eucaristia e alla riconciliazione, il contatto quotidiano con la parola di Dio e la spiritualità tradotta in carità vissuta sono l’alimento vitale per ciascuno di noi. Che sia chiaro a tutti noi che senza di Lui non potremo fare nulla (cfr Gv 15, 8).
Di conseguenza, il rapporto vivo con Dio alimenta e rafforza anche la comunione con gli altri, cioè tanto più siamo intimamente congiunti a Dio tanto più siamo uniti tra di noi perché lo Spirito di Dio unisce e lo spirito del maligno divide.
La Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione7. Eppure essa, come ogni corpo, come ogni corpo umano, è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità. E qui vorrei menzionare alcune di queste probabili malattie, malattie curiali. Sono malattie più abituali nella nostra vita di Curia. Sono malattie e tentazioni che indeboliscono il nostro servizio al Signore. Credo che ci aiuterà il "catalogo" delle malattie - sulla strada dei Padri del deserto, che facevano quei cataloghi - di cui parliamo oggi: ci aiuterà a prepararci al Sacramento della Riconciliazione, che sarà un bel passo di tutti noi per prepararci al Natale.
1. La malattia del sentirsi "immortale", "immune" o addirittura "indispensabile" trascurando i necessari e abituali controlli. Una Curia che non si autocritica, che non si aggiorna, che non cerca di migliorarsi è un corpo infermo. Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfr Lc 12, 13-21) e anche di coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal "complesso degli Eletti", dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi8. L’antidoto a questa epidemia è la grazia di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10).
2. Un’altra: La malattia del "martalismo" (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, "la parte migliore": il sedersi sotto i piedi di Gesù (cfr Lc 10,38-42). Per questo Gesù ha chiamato i suoi discepoli a "riposarsi un po'" (cfr Mc 6,31) perché trascurare il necessario riposo porta allo stress e all’agitazione. Il tempo del riposo, per chi ha portato a termine la propria missione, è necessario, doveroso e va vissuto seriamente: nel trascorrere un po’ di tempo con i famigliari e nel rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica; occorre imparare ciò che insegna il Qoèlet che «c’è un tempo per ogni cosa» (3,1-15).
3. C’è anche la malattia dell’"impietrimento" mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e un "duro collo" (At 7,51-60); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando "macchine di pratiche" e non "uomini di Dio" (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per farci piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono "i sentimenti di Gesù" (cfr Fil 2,5-11) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40). Essere cristiano, infatti, significa «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità9.
4. La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo. Quando l'apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione (cfr Gv 3,8). Si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo… - addomesticare lo Spirito Santo! - … Egli è freschezza, fantasia, novità»10.
5. La malattia del cattivo coordinamento. Quando i membri perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: "non ho bisogno di te", o la mano alla testa: "comando io", causando così disagio e scandalo.
6. C’è anche la malattia dell’"alzheimer spirituale": ossia la dimenticanza della "storia della salvezza", della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2,4). Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o meno lungo intervallo di tempo causa gravi handicap alla persona facendola diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non fanno il senso deuteronomico della vita; in coloro che dipendono completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in coloro che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani.
7. La malattia della rivalità e della vanagloria11. Quando l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza diventano l’obiettivo primario della vita, dimenticando le parole di San Paolo: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,1-4). È la malattia che ci porta a essere uomini e donne falsi e a vivere un falso "misticismo" e un falso "quietismo". Lo stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cristo» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3,19).
8. La malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32).
9. La malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. Di questa malattia ho già parlato tante volte ma mai abbastanza. E’ una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare "seminatrice di zizzania" (come satana), e in tanti casi "omicida a sangue freddo" della fama dei propri colleghi e confratelli. È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2,14-18). Fratelli, guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere!
10. La malattia di divinizzare i capi: è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.
11. La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo.
12. La malattia della faccia funerea. Ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile12 sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé. L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili13. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More14: io la prego tutti i giorni, mi fa bene.
13. La malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro. In realtà, nulla di materiale potremo portare con noi perché "il sudario non ha tasche" e tutti i nostri tesori terreni - anche se sono regali - non potranno mai riempire quel vuoto, anzi lo renderanno sempre più esigente e più profondo. A queste persone il Signore ripete: «Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo ... Sii dunque zelante e convertiti» (Ap 3,17-19). L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente! E penso a un aneddoto: un tempo, i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la "cavalleria leggera della Chiesa". Ricordo il trasloco di un giovane gesuita che, mentre caricava su di un camion i suoi tanti averi: bagagli, libri, oggetti e regali, si sentì dire, con un saggio sorriso, da un vecchio gesuita che lo stava ad osservare: questa sarebbe la "cavalleria leggera della Chiesa?". I nostri traslochi sono un segno di questa malattia.
14. La malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso. Anche questa malattia inizia sempre da buone intenzioni ma con il passare del tempo schiavizza i membri diventando un cancro che minaccia l’armonia del Corpo e causa tanto male – scandali – specialmente ai nostri fratelli più piccoli. L’autodistruzione o il "fuoco amico" dei commilitoni è il pericolo più subdolo15. È il male che colpisce dal di dentro16; e, come dice Cristo, «ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11,17).
15. E l’ultima: la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi17, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. è la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza! E qui mi viene in mente il ricordo di un sacerdote che chiamava i giornalisti per raccontare loro - e inventare - delle cose private e riservate dei suoi confratelli e parrocchiani. Per lui contava solo vedersi sulle prime pagine, perché così si sentiva "potente e avvincente", causando tanto male agli altri e alla Chiesa. Poverino!
Fratelli, tali malattie e tali tentazioni sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario.
Occorre chiarire che è solo lo Spirito Santo - l’anima del Corpo Mistico di Cristo, come afferma il Credo Niceno-Costantinopolitano: «Credo... nello Spirito Santo, Signore e vivificatore» - a guarire ogni infermità. È lo Spirito Santo che sostiene ogni sincero sforzo di purificazione e ogni buona volontà di conversione. È Lui a farci capire che ogni membro partecipa alla santificazione del corpo e al suo indebolimento. È Lui il promotore dell’armonia18: "Ipse harmonia est", dice san Basilio. Sant’Agostino ci dice: «Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi»19.
La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura20.
Dunque, siamo chiamati - in questo tempo di Natale e per tutto il tempo del nostro servizio e della nostra esistenza - a vivere «secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15-16).
Cari fratelli!
Una volta ho letto che i sacerdoti sono come gli aerei: fanno notizia solo quando cadono, ma ce ne sono tanti che volano. Molti criticano e pochi pregano per loro. È una frase molto simpatica ma anche molto vera, perché delinea l’importanza e la delicatezza del nostro servizio sacerdotale e quanto male potrebbe causare un solo sacerdote che "cade" a tutto il corpo della Chiesa.
Dunque, per non cadere in questi giorni in cui ci prepariamo alla Confessione, chiediamo alla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, di sanare le ferite del peccato che ognuno di noi porta nel suo cuore e di sostenere la Chiesa e la Curia affinché siano sane e risanatrici; sante e santificatrici, a gloria del suo Figlio e per la salvezza nostra e del mondo intero. Chiediamo a Lei di farci amare la Chiesa come l’ha amata Cristo, suo figlio e nostro Signore, e di avere il coraggio di riconoscerci peccatori e bisognosi della sua Misericordia e di non aver paura di abbandonare la nostra mano tra le sue mani materne.
Tanti auguri di un santo Natale a tutti voi, alle vostre famiglie e ai vostri collaboratori. E, per favore, non dimenticate di pregare per me! Grazie di cuore!
_________________________________
1 Egli afferma che la Chiesa, essendo mysticum Corpus Christi, «richiede anche una moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo … un Corpo costituito non da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse» (Enc. Mystici Corporis, Parte Prima: AAS 35 [1943], 200).
2 Cfr Rm 12,5: «Così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri».
3 Cost. dogm. Lumen gentium, 7.
4 Da ricordare che "il paragone della Chiesa con il corpo illumina l'intimo legame tra la Chiesa e Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a Lui; è unificata in Lui, nel suo Corpo. Tre aspetti della Chiesa-Corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l'unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo" Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, N. 789 e 795.
5 Cfr. Evangelii gaudium, 130-131.
6 Gesù più volte aveva fatto conoscere l’unione che i fedeli debbono avere con Lui: "Come il tralcio non può portar frutto da sé stesso se non rimane unito alla vite, così neanche voi, se non rimarrete uniti in Me. Io sono la vite, voi i tralci" (Gv 15, 4-5).
7 Cfr. Pastor Bonus Art. 1 e CIC can. 360.
8 Cfr. Evangelii gaudium, 197-201.
9 Benedetto XVI Udienza Generale, 01 Giugno 2005.
10 Francesco, Omelia Santa Messa in Turchia, 30 novembre 2014.
11 Cfr. Evangelii gaudium, 95-96.
12 Ibid, 84-86.
13 Ibid, 2.
14 Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un'anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama "io". Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po' di gioia e farne parte anche agli altri. Amen.
15 Evangelii gaudium, 88.
16 Il Beato Paolo VI riferendosi alla situazione della Chiesa affermò di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio», OMELIA DI PAOLO VI, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Giovedì, 29 giugno 1972. Cfr. Evangelii gaudium, 98-101.
17 Cfr. Evangelii gaudium: No alla mondanità spirituale, N. 93-97.
18 "Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa. Egli dà la vita, suscita i differenti carismi che arricchiscono il Popolo di Dio e, soprattutto, crea l’unità tra i credenti: di molti fa un corpo solo, il Corpo di Cristo… Lo Spirito Santo fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore" (Francesco, Omelia Santa Messa in Turchia, 30 novembre 2014).
19 August. Serm., CXXXVII, 1; Migne, P. L., XXXVIII, 754.
20 Cfr. Evangelii gaudium, Pastorale in conversione, n. 25-33.
[02116-01.02] [Testo originale: Italiano]
[B0979-XX.02]

Un Natale del pensiero

                Un Natale del pensiero                          
                                                                             ***
di Fabrice Hadjadj*
Il Verbo si fa carne, l’invisibile si rende visibile in un piccolo bambino. Ma dopo Natale viene l’Ascensione. Il Dio che si era manifestato fisicamente scompare di nuovo. Senza dubbio Egli è ancora sostanzialmente presente nella messa, ma non si vede che del pane, non più il suo corpo nel suo proprio esserci. E allora? Dalla Natività all’Ascensione il ciclo liturgico non ci consegna altro che un’azione che si va azzerando? L’invisibile si rende visibile solo per ritornare poi invisibile – come un ritorno al punto di partenza senza neanche prendere i trenta denari? No. Perché il Verbo non è disincarnato, ha preso con sé la nostra umanità nei cieli. In modo che ormai la nostra carne stessa fa parte delle realtà invisibili. Questa verità si fa sentire sempre più. Il mondo s’ingegna a rendersi cieco davanti a quello che salta agli occhi. E gli apostoli sono condannati a essere ridicoli, perché non hanno più soltanto dei miracoli da fare, ma hanno da mostrare delle primarie evidenze: che ci sono degli uomini e delle donne; che un bambino nasce da un padre e da una madre; che le mucche non sono carnivore; che non si fa crescere l’erba tirandola; che la tavola è più conviviale del tablet, che la notte non è il giorno… Se l’adagio “io non credo se non ciò che vedo “ è il segno di una crassa imbecillità, è probabile che colui che afferma che non si vede se non quello che si crede riveli una saggezza profonda. Per essere attenti a ciò che si vede e non rivenderlo in pezzi slegati, bisogna credere che esso proviene da una fonte invisibile e sovrana…Questo è il nostro affidamento. Quando più nulla va da sé, tutto non può più ripartire se non da Dio, e dal Dio fatto carne, che non schiaccia ma salva l’umano nella sua stessa evidenza. Oggi una giusta antropologia non può conservarsi che nel clima della teologia rivelata. E’ questo che noi cerchiamo di trasmettere a Philanthropos: un Natale del pensiero.
*Directeur de l’Institut Philanthropos

sabato 27 dicembre 2014

DA CRISTO CHE NASCE , OGNI ESSERE UMANO E' INVITATO A RINASCERE AD UN SENSO PIU' VIVO DELLA PROPRIA DIGNITA' ***

DA CRISTO CHE NASCE , OGNI ESSERE UMANO E' INVITATO A RINASCERE AD UN SENSO PIU' VIVO DELLA PROPRIA DIGNITA' 
***
 (Da: Guiovanni Paolo II, Parole sull' Uomo (Dagli scritti e dai discorsi di papa Wojtyla le sue parole sulla fede, sull'amore, sul peccato, sulla scienza, sulla politica) , Milano , Rizzoli RCS  -Saggi BUR- , 2002; s. v. : Natale , pp. 331-32)  .  30-12-05
 
Natale è la festa dell'uomo. Nasce l'Uomo. Uno dei miliardi di uomini che sono nati, nascono e nasceranno sulla terra. L'uomo, un elemento componente della grande statistica. Non a caso Gesù è venuto al mondo nel periodo del censimento; quando un imperatore romano voleva sapere quanti sudditi contasse il suo Paese. L'uomo, oggetto del calcolo, considerato sotto la categoria della quantità; uno fra miliardi. E nello stesso tempo, uno, unico e irripetibile. Se noi celebriamo così solennemente la Nascita di Gesù, lo facciamo per testimoniare che ogni uomo è qualcuno, unico e irripetibile.                  Il Natale, Gesù lo ha vissuto lontano dalla sua casa, nel contesto squallido e anonimo di una grotta, in una situazione di pratica emarginazione. Ricordate la scarna ma eloquente annotazione dell'Evangelista: «Non c'era posto per loro nell'albergo»? Se poi alla scena aggiungete quel che succederà ben presto, cioè la fuga precipitosa in Egitto e la prolungata permanenza in terra  d' esilio, il quadro è completo.                  Non vi pare che vi siano elementi più che sufficienti per poter guardare al presepe con la fiducia che quel Bimbo adagiato nella mangiatoia è perfettamente in grado di capire il vostro stato d'animo? Sì, egli vi capisce e vi invita a non perdervi d'animo, ma a fare delle stesse circostanze difficili, nelle quali vi trovate, l'occasione di quella riuscita interiore, da cui dipende il vostro futuro. Non è forse questo il messaggio più vero del Natale? Da Cristo che nasce, ogni essere umano è invitato a rinascere ad un senso più vivo della propria dignità e dei doveri che da tale dignità derivano. Nel neonato Salvatore, peraltro, egli può trovare la luce ed il sostegno necessari  per individuare la strada di tale rinascita e per riuscire poi, giorno dopo giorno, a percorrerla.                          
        Perfino negli anni peggiori, il Natale ha sempre portato con sé qualche raggio. E questo raggio penetrava anche nelle più dure esperienze di disprezzo dell'uomo, di annientamento della sua dignità, di crudeltà. Basta, per rendersene conto, prendere in mano le memorie degli uomini che sono passati per le carceri o per i campi di concentramento, per i fronti di guerra e per gli interrogatori e i processi.            
      È una ricorrenza che ha veramente cambiato il volto del mondo. Non è forse di ciò una testimonianza la stessa atmosfera gioiosa che si respira per le vie delle città e dei Paesi, nei luoghi di lavoro, nell'intimo delle nostre case? La festa del Natale è entrata nel costume come incontrastata ricorrenza di letizia e di bontà e come occasione e stimolo ad un pensiero gentile, ad un gesto di altruismo e di amore. Questa fioritura di generosità e di cortesia, di attenzione e di premure, iscrive il Natale tra i momenti più belli dell'anno, anzi della vita, imponendosi anche a coloro che non hanno la fede e pur non riescono a sottrarsi al fascino che si sprigiona da questa magica parola: Natale.                    Ciò spiega anche l'aspetto lirico e poetico, che circonda questa ricorrenza: quante melodie pastorali, quante canzoni dolcissime sono sbocciate intorno a questo evento! E quale carica di sentimento o, a volte, di nostalgia esso sa suscitare! La natura che ci circonda acquista in questo giorno un suo linguaggio dolce e innocente, che ci fa assaporare la gioia delle cose semplici e vere, verso le quali il nostro cuore aspira, anche senza saperlo.                  Ma dietro a questo aspetto suggestivo, ecco subito manifestarsene altri, che ne alterano la limpidezza e ne insidiano l'autenticità. Sono, questi, gli aspetti puramente esteriori e consumistici della festa, i quali rischiano di svuotare del suo significato vero la ricorrenza, quando si pongono non come espressioni della gioia interiore che la caratterizza, ma come elementi principali di essa, o quasi come sua unica ragion d' essere.                  Il Natale perde allora la sua autenticità, il suo senso religioso, e  diventa occasione di dissipazione e di spreco, scivolando in esteriorità sconvenienti e sguaiate, che suonano offesa a coloro che la povertà condanna ad accontentarsi delle briciole.                  Occorre ricuperare la verità del Natale nell'autenticità del dato storico e nella pienezza del significato di cui esso è portatore.                  Il dato storico è che in un determinato momento della storia, in una certa contrada della terra, da un 'umile donna della stirpe di Davidee è nato il Messia, annunciato dai Profeti: Gesù Cristo Signore.               
    Il significato è che, con la venuta di Cristo, l'intera storia umana ha trovato il suo sbocco, la sua spiegazione, la sua dignità. Dio ci si è fatto incontro in Cristo, perché noi potessimo avere accesso a Lui. A ben guardare, la storia umana è un ininterrotto anelito verso la gioia, la bellezza, la giustizia, la pace. Sono realtà che soltanto in Dio possono trovarsi in pienezza. Ebbene, il Natale ci reca l'annuncio che Dio ha deciso di superare le distanze, di valicare gli abissi ineffabili della sua trascendenza, di accostarsi a noi, fino a far sua la nostra vita, fino a farsi nostro fratello (crf.: Natale 2005).

poesie di Natale

poesie di Natale
***

La notte è scesa

La notte è scesa
e brilla la cometa
che ha segnato il cammino.
Sono davanti a Te, Santo Bambino!
Tu, Re dell'Universo,
ci hai insegnato
che tutte le creature sono uguali,
che le distingue solo la bontà,
tesoro immenso,
dato al povero e al ricco.
Gesù fa ch'io sia buono,
che in cuore non abbia che dolcezza.
Fa che il tuo dono
s' accresca in me ogni giorno
e intorno lo diffonda,
nel Tuo nome.

(Umberto Saba, da : Cristo nella Letteratura d'Italia, a cura di neria Di Giovanni, Libreria Editrice Vaticana 2010)
Torna Gesù
***

La memoranda notte è ormai vicina
e mi risuona ancora negli orecchi,
eco gentil dell'età mia bambina,
la voce de' miei vecchi:
Candido roseo e biondo
come nato da giorni, eri anche tu,
vien questa notte al mondo
il Bambino Gesù !
Ogn'anno, ogn'anno in questo freddo mese,
per quanto stanca, l'anima risogna
la festa che a Gesù fa il mio paese.
Già suona la zampogna...
Ah che profonda, arcana
malinconia, che nostalgia m'assal
della casa lontana,
del villaggio natal !
Rigide sere della pia novena
in cui, sur ogni piazza, in ogni via,
fiamman, fuochi gregal, fasci d'avena:
mentre la litania
il vicinato intuona
raccolto innanzi a un rustico altarin,
e la zampogna suona,
tintinna l'acciarin.
Ed io fanciullo, alla finestra dietro
me ne stavo, e schiarendo con un dito
timidamente l'appannato vetro,
rimiravo smarrito,
in un'ansia segreta,
se in quella notte piena di mister
la fulgida cometa
apparisse davver... .
E dubitavo allora, e ho dubitato
sempre, dappoi. S'inaridì l'istinto
della fede nel cuore: errai bendato
per questo labirinto
della vita mortale,
e te pure chiamai causa, Gesù,
d'una parte del male
che si soffre quaggiù.
Ma santa adesso appar la tua follia
anche al mio sguardo, o dolce redentore.
E torna, io prego, a noi, torna, Messia,
a predicar l'amor!
Altri, del rosso tuo mantello avvolto,
d'odio nudrendo la gentil parola,
batte alle oscure case, e infosca il volto
de la miseria. Vola
il grido della guerra...
Pace tu sei, Gesù, tu sei pietà:
torna a rifare in terra d'amor la carità.
 
(Luigi Pirandello 1867-1936)

Per il Santo Natale
***
Tacciano i venti tutti,
del mar si arrestino le acque,
Gesù, Gesù già nacque,
già nacque il Redentor.
Il Sommo Nume Eterno
scese dall'alto cielo,
il misterioso velo
già ruppe il Salvator.
Nascesti alfin nascesti,
pacifico Signore,
al mondo apportatore
d'alma felicità.
L'empia, funesta colpa,
giacque da te fiaccata,
gioisci, o avventurata,
felice umanità.
Sorgi, e solleva il capo
dal sonno tuo profondo;
il Redentor del mondo
omai ti liberò.
No, più non senti il giogo
di servitù pesante,
son le catene infrante
da lui che ti salvò.
Gloria sia dunque al sommo,
Onnipossente Iddio,
guerra per sempre al rio
d'Averno abitator.
Dia lode e Cielo, e Terra,
al Redentor divino,
al sommo Re Bambino
di pace alto Signor .
 
(Giacomo Leopardi 1798-1837)
MosserO: e Betlehem sotto l'osanna 
***
Mossero: e Betlehem sotto l'osanna
de'cieli ed il fior dell'infinito,
dormiva. E videro, ecco una capanna.
Ed hai pastori l'accennò col dito
un angelo: una stalla umile e nera,
donde gemeva un filo di vagito.
E d'un Figlio dell'Uomo era, ma era
quale d'agnello. Esso giacea nel fieno
del presepe, e sua madre, una straniera,
sopra la paglia. Era il suo primo, e il seno
le apriva; e non aveva ella né due
assi: all'albergo alcun le disse: E' pieno.
Nella capanna povera le sue
lagrime sorridea sopra il suo nato,
su cui fiatava un asino ed un bue.
Noi cercavamo quei che vive...-entrato
disse Maath. Ed ella con un pio
dubbio: Il mio Figlio vive per quel fiato...
Quei che non muore... Ed ella : Il Figlio mio
morrà (disse, e piangeva su l'agnello
suo tremebondo) in una croce...-Dio...
rispose all'uomo l'Universo : E' quello .

(Giovanni Pascoli, Poemi Conviviali, Einaudi 2008 )
In si mirabil notte
*** 
In si mirabil notte a mezzo il verno
d'angelici concenti il cielo sereno
sonare udissi, e d'alto affetto or pieno
per ch'io gli ascolti col mio senso interno;

e'l celeste Figliol del Padre Eterno
si degnò diventare Figlio terreno
di mortal madre; e del suo nobil seno
nacque in vil loco, e pur non l'ebbe a scherno.
E questa notte Cristo ancor rinasce fra l'umiltà:
chi gli apparecchia albergo
degno di lui, che porti pace al mondo ?

Gliel dia l'anima mia, ch'a lui sol tergo
fra questo e quel desir, ch'in lei si pasce,
e presepio gli sia, ma puro e mondo.

(Torquato Tasso, da : Rime Sacre Romagnoli dall'Acqua 1898)


Nicolas Poussin, Adorazione dei pastori, inizio XVII sec. (olio su tela, 98x74), National Gallery, Londra

Gesù  il Fedele, il Verace, il Giudice
***

Gesù il Fedele, il Verace, il Giudice
che prese a esprimere visibile
nel giorno del Santo Natale
l'inesprimibile misericordia del Padre:
prese a raggiar malvisto nel volto sublime
la bellezza divina e materna compiendo:
e nuovo incanto di beltà pervase
con intimo fremito l'universo
fra linee terrene presagio di Cielo
per educarci lassù, al Paradiso;
ma prima ancora la bontà rifulse,
accese d'esser buono il gran tormento,
accese d'esser buono un vasto incendio
che a somiglianza divina
cresce e arde per ogni cuore
in carità di Dio trasfigurato:
cura d'una vita monda,
sete d'innocenza,
anelito di vergine scienza,
e devota attenzione presso il Bimbo,
attenzione devota al Fanciullo
fatto emblema d'ogni attenzione pura,
sciolto problema d'ogni vita piena;
e infine salvifico effetto
sopra l'intero creato
a salvare già qui tutto l'uomo,
ciò che è nato nel mondo perituro
e portarlo sicuro al giudizio;
Gesù il Fedele,
il solo punto fermo nel moto dei tempi,
in sterminata serie di eventi :
il solo Santo che non manca mai,
che trascende dove ci comprende
e si fa dono in cima ai nostri guai
e pareggia la grazia col perdono:
vero Dio trasumanante
e a Deità aperto vero Uomo:
Figli il Fedele per sempre,
maestro vivente di Fede,
egli che viene a Natale in peccato
per meritarci in maestà di gloria,
continuo avvento al termine segnato:
se non invano passiamo il breve tempo
come luce del Figlio Incarnato,
come frutti di dolce consiglio,
impegno amoroso di vita,
di vita nel singolo unanime nel segno,
vita raggiunta infinita,
in beata circolazione
dove l'impeto la porta
che ineffabilmente ovunque va e non ritorna,
 ma in desio del padre universalmente procede,
nel fulgore del fuoco
 tutti insieme gloriando
quali Figli di Dio,
alleluiando al Padre,
al figlio e allo Spirito Santo
che universalmente procede,
tutti insieme in gioco giocando festando
quali in gaudio rapiti figli di Dio
nell'impeto che procede
su per la multanime fiamma
di fratelli nella Mamma Celeste,
i Fratelli di Gesù il Fedele.

(Clemente Rebora, Poesie, Garzanti 1988

 Per un Iddio che rida


Per un Iddio che rida come un bimbo,
Tanti gridi di passeri,
Tante danze nei rami,

Un'anima si fa senza più peso,
I prati hanno una tale tenerezza,
Tale pudore negli occhi rivive,

Le mani come foglie
S'incantano nell'aria...

Chi teme più, chi giudica?

(da "Il Sentimento del Tempo - L'amore) - 1934

GIUSEPPE UNGARETTI -