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sabato 31 gennaio 2015

Citazioni dal Diario di Etty Hillesum

Citazioni dal Diario di Etty Hillesum 

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La sorgente di ogni cosa ha da essere la vita stessa, mai un’altra persona. Molti, invece - soprattutto donne - attingono le proprie forze da altri: è l’uomo la loro sorgente, non la vita. Mi sembra un atteggiamento quanto mai distorto e innaturale. (p.50)

Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo ‘amore’. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo.
E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti. (p.74-75)


Di nuovo mi inginocchio sul ruvido tappeto di cocco, con le mani che coprono il viso, e prego: Signore, fammi vivere di un unico grande sentimento - fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni ad un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. Allora quel che farò, o il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza. (p.82)

E quando si parla di sterminare, allora che sia il male nell’uomo, non l’uomo stesso.
Un'altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi: e perciò sono meno più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possono crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime. (p.102)

Certo che ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. (p.127)


Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto. (p.134)

La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell’uomo. Voglio dire: la maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com’è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione. Dio mio, tutto questo si può capire benissimo: ma se una vita simile viene tolta, viene tolto poi molto? Si deve accettare la morte, anche quella più atroce, come parte della vita. E non viviamo ogni giorno una vita intera, e ha molta importanza se viviamo qualche giorno in più, o in meno? Io sono quotidianamente in Polonia, su quelli che si possono ben chiamare dei campi di battaglia, talvolta mi opprime una visione di questi campi diventati verdi di veleno; sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno - ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine. (p.136)

…so tutto, tutto, in ogni momento; a volte devo chinare il capo sotto il gran peso che ho sulla nuca, e allora sento il bisogno di congiungere le mani, quasi in un gesto automatico, e così potrei rimaner seduta per ore -so tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato. Malgrado tutto. Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d’animo più elevato e pieno di fede. Si può esser stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te c’è qualcosa che non ti abbandonerà mai più. (p.137)

Bisogna saper riconoscere le proprie insufficienze, anche quelle fisiche; bisogna saper accettare di non poter essere per un altro come si vorrebbe.
Riconoscere le proprie debolezze non significa lamentarsene: questa sì che sarebbe una miseria, anche per gli altri. (p.145)

…lasciar completamente libera una persona che si ama, lasciarla del tutto libera di fare la sua vita, è la cosa più difficile che ci sia. (p.147)

E persino dalla sofferenza si può attingere forza. (p.155) L’uomo occidentale non accetta il “dolore” come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive. (p.173)

Preghiera della domenica mattina. Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento - invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio. (p.169-170)

Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito. (p.172)

Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzettino di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera. (p.173)

Mi sembra infantile pregare perché un altro stia bene: per un altro si può solo pregare che riesca a sopportare le difficoltà della vita. E se si prega per qualcuno, gli si manda un po’ della propria forza. (p.176)

Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio. (p.194)

...ognuno di noi deve raccogliere e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dovere distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale.
E Klaas, vecchio e arrabbiato militante di classe, ha replicato sorpreso e sconcertato insieme: si, ma – ma questo sarebbe di nuovo cristianesimo!
E io, divertita da tanto smarrimento, ho risposto con molta flemma: certo, cristianesimo – e perché poi no? (p.212)

La conversione di Gabriel, dalla sinistra libertaria anticlericale alla Chiesa cattolica. Per amore di una donna

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Cresciuto in una famiglia dove la bibbia era Il capitale di Marx, Gabriel “Gabi” Martinez, economista spagnolo oggi 52enne, ha vissuto mezza vita da militante della sinistra estrema, fiancheggiando l’Eta e seguendo uno stile di vita radicalmente “liberal” e anticlericale. Per cadere infine vinto nelle braccia della sua peggior nemica: la Chiesa cattolica. Aveva scoperto, come ha spiegato recentemente alla tv spagnola, che ciò che odiava era in realtà l’unica cosa in grado di risolvere «la mia insoddisfazione».
L’IDEALE DEL PIACERE. «Mio padre era per la società proposta dagli ideologi marxisti», racconta Martinez a tempi.it. «Perciò l’educazione ricevuta in casa nostra non poteva che essere all’insegna dell’uguaglianza e della libertà: le aziende dovevano essere guidate dai lavoratori, tutti i membri di una famiglia avere lo stesso peso, senza alcuna autorità sovrapposta». Ma quella libertà, comprende oggi l’economista convertito, non era altro che uno strumento per raggiungere un ideale del tutto borghese dato che «la comunità così concepita serviva solo al benessere del singolo». Era in un certo senso logico che questo si traducesse per lui in un’adolescenza vissuta cercando «tutto il piacere possibile: marijuana, alcol, sesso, furto».
martinez-gabi-giovaneLA CRESIMA E L’ETA. Quando però il padre perse il lavoro e la famiglia cambiò città, continua Martinez, accadde un fatto; la prova, secondo lui, che «Dio già lavorava». Tutte le scuole erano piene e il giovane Gabi fu iscritto in un istituto cattolico. Anche lui come i compagni volle ricevere i sacramenti, e quando per caso incontrò un sacerdote dal quale si sentì amato decise di chiedere anche la cresima. Fino a 16 anni, comunque, la sua vita è stata «come quella di un qualsiasi giovane di una famiglia non credente. Ma poi le mie amicizie con persone di ideologia libertaria si ampliarono. Cominciai a interessarmi a quella cultura e a collaborare politicamente con la sinistra radicale. Alcuni dei miei amici appartenevano a partiti vicini all’Eta, e con loro partecipai a qualche attività locale, per fortuna senza mai nuocere fisicamente a nessuno».
UNA VITA SENZA INIBIZIONI. Non erano certo le riflessioni esistenziali la sua occupazione principale. Di quegli anni Martinez ricorda solo che «non pensavo più che Dio esistesse e che non fosse necessario perdere tempo in queste cose». Il ragazzo militava a sinistra e per il resto del tempo pensava solo «al sesso, alla musica e alla droga». Se riuscì comunque a laurearsi in economia fu esclusivamente per il grande sforzo «motivato solo dai vantaggi economici che avrei potuto raggiungere». Nel frattempo si convinceva sempre di più che «qualsiasi pratica fosse buona, fumare marijuana o altre droghe, fare sesso senza impegno, anche con la donna di un amico senza bisogno di nasconderlo, promuovendo rivolte contro i poteri istituzionali, il governo e la Chiesa». Adesso Martinez si sente di dover ringraziare Dio: «È stato Lui che non mi ha permesso di cadere nelle droghe pesanti. Già allora probabilmente mi stava preparando a una conversione radicale».
gabi-angela-giovaniL’AMORE PER ANGELA. Di lì a poco, infatti, il giovane rivoluzionario si innamorerà di Angela, una donna cattolica. «Mi attirava tutto quello che era fuori dall’ordinario – spiega Martinez – e quella donna era una sfida per me: che fosse cattolica non era un problema, pensavo, in breve avrebbe cambiato idea. Ma non andò così. Al contrario, fui io a vedere in lei un modo di vivere che mi interrogava e mi attraeva. Aveva un modo diverso di rapportarsi con le persone, non faceva alcuna distinzione tra di loro, non parlava mai male di nessuno, dava i soldi ai poveri. E poi era allegra e si divertiva senza bere alcol, era un’altra cosa. Quando mio padre mi scoprì voleva uccidermi: “Gabriel, ti hanno ingannato”, mi diceva». Martinez era stato educato a pensare che la religione fosse l’oppio dei popoli, una volta lo aveva perfino scritto in grande sul muro di una Chiesa. Ovvio che con Angela «furono tre anni duri. Discutevamo e io cercavo di dimostrarle che le sue erano illusioni. Non la lasciai solo perché ero innamorato». Quella ragazza «viveva la fede seguendo il cammino neocatecumenale: parlava molto della Chiesa, dei sacerdoti, del Papa, e questo mi uccideva e mi ingelosiva. E in fondo pensavo che il suo essere cattolica, l’osservare i comandamenti e la legge della Chiesa sarebbe finito presto».
UN AUT AUT LIBERANTE. Invece fu lui a cambiare idea. «Cominciai a fare soldi, facevo affidamento sul “dio denaro” come base della mia felicità e questo mi spinse lontano dall’ideologia politica. Intanto Dio, con questa donna, veniva a liberarmi da ogni schiavitù, che mi legava alle cose materiali. Vivevo una doppia vita contrapposta alle mie convinzioni marxiste, e tutto quello che pensavo io era incoerente con lo stile di vita della mia ragazza: era tutto un caos». La situazione divenne insostenibile, finché la donna, su consiglio delle sue guide spirituali, si decise a mettere Martinez davanti a un aut aut. «O provavo a partecipare agli incontri che frequentava lei o ci saremmo lasciati. Può apparire come una cosa contraria alla libertà, ma oggi io ringrazio per essere stato messo davanti a quella alternativa: ha salvato il nostro rapporto, che dura ancora oggi». Quello è stato il cedimento finale, quando «l’amore ha vinto l’orgoglio».
UNA CHIESA DIVERSA. Del resto Martinez era ancora convinto che nulla in fondo sarebbe cambiato per lui: «Semplicemente dovevo frequentare una catechesi due giorni alla settimana». Solo che, messo piede in chiesa dopo anni di assenza, l’ormai ex libertino ha scoperto qualcosa che nessuno gli aveva mai detto: «C’era un Dio che mi mi amava molto, e Qualcuno si era lasciato maltrattare fino alla morte affinché potessi essere felice. Il suo unico figlio Gesù Cristo mi ha dimostrato che la mia mancanza di felicità era stata prodotta dai miei peccati». Era una Chiesa completamente diversa da quella contro cui Martinez si era sempre battuto: «Voleva essere una casa per me, dove poter essere felice mettendo in pratica il Vangelo, la Parola di Dio. Mi parlavano di qualcuno che aveva vissuto così, la Vergine stessa, mi hanno aperto gli occhi su un Dio con potere immenso e un amore che non avevo mai conosciuto».
matrimonio-martinezNULLA DA RINNEGARE. Adesso Martinez è sposato «felicemente con 4 bambini, sono sempre stato felice, con o senza soldi», e adesso «credo nella fedeltà del matrimonio, nel rispetto della vita del nascituro, nell’accoglienza degli anziani in famiglia, nel rispetto del ricco e del povero, del datore di lavoro e del dipendente» e «nel dire senza nessuna paura la verità quando necessario, che questo sia opportuno o inopportuno, a chi vuole ascoltare e a chi no». Ma ovviamente non è finita perché «ho bisogno di preghiera quotidiana, della confessione, dell’Eucaristia, della Parola di Dio. Così posso continuare a camminare e alzarmi ogni volta che cado». Con il conforto «della Chiesa e della Vergine Maria, che ho imparato a conoscere e che mi sostiene nei momenti difficili, come fece mia madre in vita, che tanto mi ha amato nella sua debolezza». Perché nulla in questa rivoluzione radicale è da rinnegare, nemmeno «il mio santo padre che è stato uno strumento necessario per la mia conversione: se non fossi stato educato così non sarei potuto arrivare qui fra coloro che vivono bene. Lui non ha fatto altro che provare a darmi il meglio. Nei suoi ultimi giorni di vita mi confidò: “Gabriel, si è scelto il migliore”».

venerdì 30 gennaio 2015

Addio a Charles Townes, il premio Nobel per la fisica che si inginocchiava di fronte al mistero di Dio

Addio a Charles Townes, il premio Nobel per la fisica che si inginocchiava di fronte al mistero di Dio

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Addio a Charles Townes, il premio Nobel per la fisica che si inginocchiava di fronte al mistero di Dio
di Francesco Agnoli

E’ morto Charles Townes. Il Corriere della sera lo descrive così:

«Scienziato poliedrico e interessato ai rapporti fra scienza e religione, è stato uno dei pionieri nel campo dell’astronomia a infrarossi. Insieme a un team di colleghi fu il primo a scoprire molecole complesse nello spazio ed è accreditato per aver determinato la massa di un buco nero supermassivo al centro della Via Lattea».

Vediamo qualcosa di più riguardo ai suoi interessi al rapporto scienza e fede.
Charles Townes aveva vinto il Premio Nobel per la Fisica nel 1964; era membro della Pontificia Accademia delle Scienze; aveva vinto anche il Premio Templeton, per «contributi alla comprensione della religione». Ricevendo il Templeton aveva dichiarato che «lo sviluppo concreto della scienza fu possibile grazie alla religione monoteista»  e che «lo stesso concetto di un universo governato in modo ordinato da un Dio era un presupposto per lo sviluppo delle leggi scientifiche». È stato autore di un saggio, La convergenza tra scienza e religione, pubblicato su IBM Journal Think e sul Mit Alumni Journal. In Italia ha partecipato al Meeting di Rimini del 2009.

Ha detto: «Credo fermamente nell’esistenza di Dio, basandomi sull’intuizione, sulle osservazioni, sulla logica, e anche sulla conoscenza scientifica» (C.H. Townes, A letter to the compiler T. Dimitrov, 24/05/2002); «La scienza, con i suoi esperimenti e la logica, cerca di capire l’ordine o la struttura dell’universo. La religione, con la sua ispirazione e riflessione teologica, cerca di capire lo scopo o significato dell’universo. Queste due strade sono correlate. Io sono un fisico. Anch’io mi considero un cristiano. Mentre cerco di capire la natura del nostro universo in questi due modi di pensare, vedo molti elementi comuni tra scienza e religione. Sembra logico che a lungo i due potranno anche convergere» (C.H. Townes, Logic and Uncertainties in Science and Religion, in Proceedings of the Preparatory Session 12-14 November 1999 and the Jubilee Plenary Session 10-13 November 2000)

«Ci si potrebbe chiedere: dove è Dio? Per me è quasi una domanda inutile. Se credi in Dio, non vi è alcun particolare “dove”, Lui è sempre lì, ovunque, Egli è in tutte queste cose. Per me, Dio è personale ma onnipresente. Una grande fonte di forza, Egli ha fatto una differenza enorme per me» (C.H. Townes, Making Waves, American Institute of Physics Press, 1995).

«La religione è stata molto importante nella mia vita. Sono sempre stato ispirato e guidato dalla religione» (Il Sussidiario, 26 agosto 2009).

mercoledì 28 gennaio 2015

la figura del padre

                                                 la figura del padre                
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L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.00 mercoledì 28-01-2015
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Riprendiamo il cammino di catechesi sulla famiglia. Oggi ci lasciamo guidare dalla parola "padre". Una parola più di ogni altra cara a noi cristiani, perché è il nome con il quale Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio: padre. Il senso di questo nome ha ricevuto una nuova profondità proprio a partire dal modo in cui Gesù lo usava per rivolgersi a Dio e manifestare il suo speciale rapporto con Lui. Il mistero benedetto dell’intimità di Dio, Padre, Figlio e Spirito, rivelato da Gesù, è il cuore della nostra fede cristiana.
"Padre" è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una "società senza padri". In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa. In un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione: genitori che trattavano i figli come servi, non rispettando le esigenze personali della loro crescita; padri che non li aiutavano a intraprendere la loro strada con libertà - ma non è facile educare un figlio in libertà -; padri che non li aiutavano ad assumere le proprie responsabilità per costruire il loro futuro e quello della società.
Questo, certamente, è un atteggiamento non buono; però, come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani. Già da vescovo di Buenos Aires avvertivo il senso di orfanezza che vivono oggi i ragazzi; spesso domandavo ai papà se giocavano con i loro figli, se avevano il coraggio e l’amore di perdere tempo con i figli. E la risposta era brutta, nella maggioranza dei casi: "Mah, non posso, perché ho tanto lavoro…". E il padre era assente da quel figliolo che cresceva, non giocava con lui, no, non perdeva tempo con lui.
Ora, in questo cammino comune di riflessione sulla famiglia, vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi. E in effetti le devianze dei bambini e degli adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli nella loro vita di ogni giorno, alla carenza di vicinanza, alla carenza di amore da parte dei padri. E’ più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani.
Sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti, anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano con i loro figli, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto "alla pari" con i figli. E’ vero che tu devi essere "compagno" di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre! Se tu ti comporti soltanto come un compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo.

E questo problema lo vediamo anche nella comunità civile. La comunità civile con le sue istituzioni, ha una certa responsabilità – possiamo dire paterna- verso i giovani, una responsabilità che a volte trascura o esercita male. Anch’essa spesso li lascia orfani e non propone loro una verità di prospettiva. I giovani rimangono, così, orfani di strade sicure da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente. Vengono riempiti magari di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; vengono illusi col dio denaro, e negate loro le vere ricchezze.
E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli, riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» ( Gv 14,18). E’ Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti. Qualcuno di voi potrà dirmi: "Ma Padre, oggi Lei è stato troppo negativo. Ha parlato soltanto dell’assenza dei padri, cosa accade quando i padri non sono vicini ai figli… È vero, ho voluto sottolineare questo, perché mercoledì prossimo proseguirò questa catechesi mettendo in luce la bellezza della paternità. Per questo ho scelto di cominciare dal buio per arrivare alla luce. Che il Signore ci aiuti a capire bene queste cose. Grazie.

lunedì 26 gennaio 2015

La più probabile causa della dipendenza è stata scoperta - e non è ciò che credete




La più probabile causa della dipendenza è stata scoperta - e non è ciò che credete

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Pubblicato: Aggiornato:
TOSSICODIPENDENZA


Sono ormai passati cent'anni da quando le droghe sono state proibite per la prima volta - e nel corso di questo lungo secolo di guerra alla droga, i nostri insegnanti e i governi ci hanno raccontato una storia sulla dipendenza. Una storia tanto radicata nelle nostre menti che la diamo per assodata. Pare ovvia. Sembra palesemente vera. Lo credevo anch'io, fino a quando tre anni e mezzo fa non mi sono imbarcato in un viaggio di 30mila miglia per lavorare al mio nuovo libro, Chasing The Scream: The First And Last Days of the War on Drugs, alla scoperta di ciò che c'è veramente dietro alla guerra alla droga. Ciò che ho imparato lungo la mia strada è che quasi tutto ciò che c'è stato raccontato sulla dipendenza è sbagliato - e che di storia ne esiste un'altra, molto diversa, che aspetta ancora d'esser raccontata, se solo saremo disposti ad ascoltarla.
Se faremo nostra questa nuova storia ci toccherà cambiare non solo la guerra alla droga. Dovremo cambiare noi stessi.
Ciò che ho imparato l'ho appreso da un mucchio di persone straordinariamente diverse che ho incontrato lungo i miei viaggi. Dagli amici ancora vivi di Billie Holiday, da cui ho scoperto che il fondatore della guerra alla droga l'aveva perseguitata, contribuendo alla sua morte. Da un dottore ebreo portato di nascosto via dal ghetto di Budapest quand'era piccolo, per poi scoprire da adulto i segreti della dipendenza. Da un trafficante transessuale di crack a Brooklyn, concepito quando la madre, dipendente dal crack, fu stuprata dal padre, un agente della polizia di New York. Da un uomo che è stato relegato in fondo a un pozzo per due anni da una dittatura dedita alla tortura, per poi riemergerne e finire un giorno col venire eletto presidente dell'Uruguay, segnando così gli ultimi giorni della guerra alla droga.
Avevo un motivo piuttosto personale per andare alla ricerca di tutte queste risposte. Uno dei miei primi ricordi da piccolo è stato quella di provare a svegliare un mio parente, senza riuscirci. Da allora mi sono rigirato in testa uno dei misteri essenziali della dipendenza - cos'è che fa sì che ci sia gente che diventa tanto ossessionata da una droga, o da un determinato comportamento, da non riuscire più a fermarsi? Come si può fare per aiutare quella gente a tornare da noi? Crescendo, un altro dei miei parenti più stretti sviluppò una dipendenza da cocaina, e io iniziai un rapporto con una persona dipendente dall'eroina. In un certo senso la dipendenza per me era di casa.
Se tempo fa mi aveste chiesto quale fosse l'origine della dipendenza dalla droga, vi avrei guardato come degli idioti, e vi avrei detto: "Beh, la droga, no?". Non era difficile da capire. Ero convinto di averlo esperito in prima persona. Siamo tutti in grado di spiegarlo. Supponiamo che voi e me, insieme ai prossimi venti passanti, stabilissimo di somministrarci per venti giorni di fila una droga veramente potente. Siccome queste droghe sono dotate di forti ganci chimici, se il ventunesimo giorno poi smettessimo, i nostri corpi finirebbero per bramare quella sostanza. Una bramosia feroce. Saremmo dunque diventati dipendenti da essa. Ecco che cosa significa 'dipendenza'.
La teoria è stata in parte codificata grazie agli esperimenti compiuti sui topi - entrati nella psiche collettiva americana negli anni '80 grazie a una nota campagna pubblicitaria di Partnership for a Drug-Free America. Potreste ricordarla. L'esperimento è piuttosto semplice. Mettete un topo in gabbia, da solo, con due bottiglie d'acqua. Una contiene solo acqua. L'altra anche eroina o cocaina. Quasi ogni singola volta in cui l'esperimento viene ripetuto, il topo finirà ossessionato dall'acqua drogata, e tornerà a chiederne ancora fino al momento in cui morirà.
La pubblicità lo spiegava così: "C'è solo una droga in grado d'indurre tanta dipendenza, e nove topi di laboratorio su dieci ne faranno uso. Ancora. E ancora. Fino alla morte. Si chiama cocaina. E a voi può fare lo stesso".
Tuttavia negli anni '70 un docente di psicologia a Vancouver di nome Bruce Alexander notò qualcosa di strano in questo esperimento. Il topo viene messo in una gabbia da solo. Non ha altro da fare che somministrarsi la droga. Che succederebbe allora, si chiese, se lo impostassimo diversamente? Così il professor Alexander costruì un 'parco topi'. Una gabbia di lusso all'interno della quale i topi avrebbero avuto a disposizione delle palline colorate, il miglior cibo per roditori, delle gallerie nelle quali zampettare e tanti amici: tutto ciò a cui un topo metropolitano avrebbe potuto aspirare. Che cosa sarebbe accaduto in quel caso, si chiedeva Alexander?
Nel 'parco topi' tutti ovviamente finivano per assaggiare l'acqua di entrambe le bottiglie, non sapendo che cosa ci fosse dentro. Ma ciò che successe in seguito fu sorprendente.
Ai topi che facevano una bella vita l'acqua drogata non piaceva. Perlopiù la evitavano, consumandone meno di un quarto rispetto ai topi isolati. Nessuno di loro morì. E mentre tutti i topi tenuti soli e infelici ne facevano uso pesante, ciò non accadeva ad alcuno di quelli immersi in un ambiente felice.
All'inizio pensai che si trattasse soltanto di una stranezza dei topi, finchè non scoprii che - nello stesso periodo dell'esperimento del 'parco topi' - c'era stato il suo equivalente umano. Si chiamava guerra in Vietnam. La rivista Time scriveva che fra i soldati americani l'uso di eroina era "comune quanto quello della gomma da masticare", e che ce n'erano delle prove concrete: stando a una ricerca pubblicata negli Archives of General Psychiatry circa il 20 per cento dei soldati americani in quel Paese erano diventati dipendenti dall'eroina. In tanti se ne sentirono comprensibilmente terrorizzati; convinti che alla fine della guerra in patria sarebbe rientrato un enorme numero di tossicodipendenti.
La verità è che circa il 95 per cento dei soldati che avevano sviluppato quella dipendenza - stando alla medesima ricerca - in seguito semplicemente non si drogarono più. In pochi furono costretti alla riabilitazione. Il fatto è che erano passati da una gabbia terrificante a una piacevole, per cui smisero di anelare alla droga.
Il professor Alexander ritiene che questa scoperta contesti in modo profondo sia il punto di vista destrorso, per cui la dipendenza non è che una questione 'immorale' generata dagli eccessi dell'edonismo festaiolo, sia quello liberal per cui la dipendenza è quel male che attecchisce all'interno di un cervello alterato dalle sostanze chimiche. Anzi, argomenta, la dipendenza è una forma d'adattamento. Non sei tu. È la tua gabbia.
Dopo la prima fase del 'parco topi' il professor Alexander portò avanti il test. Tornò a ripetere gli esperimenti originari, quelli in cui i topi venivano lasciati da soli e facevano compulsivamente uso della droga. Lasciò che ne facessero uso per cinquantasette giorni - una quantità di tempo sufficiente ad agganciarli. Poi li portò fuori dall'isolamento, collocandoli all'interno del 'parco topi'. Voleva capire se, una volta sviluppata una dipendenza, il cervello risultasse talmente alterato da non potersi più riprendere. Se le droghe in effetti s'impossessavano di te. Ciò che accadde risultò - ancora una volta - stupefacente. I topi mostravano qualche problema d'astinenza, ma smettevano presto di farne uso intensivo, tornando a vivere una vita normale. La gabbia buona li aveva salvati (i riferimenti precisi a tutte le ricerche a cui faccio riferimento sono nel libro).
Quando per la prima volta incappai in tutto questo rimasi perplesso. Che senso aveva? Questa nuova teoria criticava in maniera talmente radicale ciò che ci era stato detto che sembrava non potesse esser vera. Ma più scienziati intervistavo, più consultavo le loro ricerche, più scoprivo cose che non sembravano aver alcun senso - a meno che non si prendesse in considerazione questo nuovo approccio.
Ecco l'esempio di un esperimento che si sta conducendo, e che un giorno potrebbe riguardarvi direttamente. Se oggi v'investissero e subiste una frattura al bacino, vi verrebbe probabilmente somministrata la diamorfina, nome medico dell'eroina. Nell'ospedale in cui vi troverete ci sarà tanta altra gente a cui viene somministrata l'eroina per lunghi periodi, per attenuarne il dolore. L'eroina che vi darà il medico sarà molto più pura e potente di quella adoperata dai tossici per strada, costretti a comprarla da spacciatori che la tagliano. Ragion per cui, se la vecchia teoria della dipendenza fosse valida - sono le droghe a causarla, perché fanno sì che il tuo corpo ne senta il bisogno - la conseguenza sarebbe ovvia. Un mucchio di gente dovrebbe lasciare l'ospedale per finire alla ricerca di una dose per strada, assecondando la dipendenza che avrebbero sviluppato.
Ma ecco la cosa strana: questo praticamente non succede mai. Come il medico canadese Gabor Mate mi ha spiegato per la prima volta, coloro che ne fanno uso medico poi semplicemente smettono, pur essendo stata loro somministrata per mesi. La medesima droga, fruita per la medesima quantità di tempo, trasforma chi ne fa uso per strada in tossici disperati, lasciando immutati i pazienti d'ospedale.
Se siete ancora convinti - come anch'io un tempo - che la dipendenza sia causata dai ganci chimici, la cosa non avrà alcun senso. Ma se credete alla teoria di Bruce Alexander, tutto torna. Il tossico per strada è un po' come i topi della prima gabbia, isolato, solo, con un'unica fonte di consolazione a portata di mano. Il paziente d'ospedale è come il topo della seconda gabbia. Si prepara a tornare a casa, a una vita in cui sarà circondato dalla gente che ama. La droga è la stessa, l'ambiente però è diverso.
Questo ci fornisce un'intuizione che va ben oltre il bisogno di comprendere i tossicodipendenti. Il professor Peter Cohen sostiene che gli esseri umani abbiano una profonda necessità di formare legami ed entrare in contatto gli uni con gli altri. È così che ci gratifichiamo. Se non siamo in grado di entrare in contatto con gli altri, entreremo in contatto con qualsiasi altra cosa - il suono di una roulette che gira, o l'ago di una siringa. Lui è convinto che dovremmo smettere del tutto di parlare di 'dipendenza', e chiamarla piuttosto 'legame'. Un eroinomane si lega all'eroina perché non è stato in grado di legare in modo altrettanto forte con nient'altro.
Ragion per cui il contrario della dipendenza non è la sobrietà. Ma il contatto umano.
Quando ho saputo tutto questo, ho scoperto di aver cominciato a convincermene, ma non sono comunque riuscito a liberarmi da un dubbio assillante. Tutti questi scienziati sono forse convinti che i ganci chimici non facciano alcuna differenza? Così me l'hanno spiegato - puoi diventare dipendente dal gioco d'azzardo, e nessuno penserà mai che t'inietti un mazzo di carte in vena. Per cui potrai avere il massimo della dipendenza, e nessun gancio chimico. Ho partecipato a un incontro dei giocatori d'azzardo anonimi di Las Vegas (col permesso di tutti i partecipanti, che sapevano di essere osservati) e mi sembravano chiaramente dipendenti, tanto quanto qualsiasi altro cocainomane o eroinomane io abbia mai incontrato. Eppure di ganci chimici sul tavolo da gioco non ce ne sono.
Di certo, però, ribattevo, le sostanze chimiche lo dovranno svolgere un qualche ruolo. Salta fuori che esiste un esperimento in grado di rispondere in termini molto precisi a questa domanda. L'ho scoperto leggendo il libro The Cult of Pharmacology, di Richard DeGrandpre.
Tutti concordano sul fatto che il fumo della sigaretta sia uno dei più grandi generatori di dipendenza. I ganci chimici del tabacco derivano da una droga al suo interno chiamata nicotina. Quando nei primi anni '90 sono stati sviluppati i cerotti alla nicotina ci fu un grande ottimismo - i fumatori di sigaretta avrebbero potuto godersi tutti gli amati ganci chimici senza le sporche (e letali) controindicazioni del fumo. Sarebbero stati liberi.
Ma la Direzione generale della sanità ha scoperto che appena il 17,7 per cento dei fumatori di sigarette sono in grado di mettere adoperando i cerotti alla nicotina. Ora, non è proprio roba da nulla. Se le sostanze chimiche rappresentano il 17,7 per cento della dipendenza, come si è dimostrato, si parla comunque di milioni di vite rovinate in tutto il mondo. Ciò che però si scopre, ancora una volta, è che la storia che ci è stata insegnata sui ganci chimici come Causa della Dipendenza, per quanto vera, non è che un frammento all'interno di un mosaico più vasto.
Le implicazioni per l'ormai centenaria guerra alla droga sono notevoli. Quest'enorme crociata - che come ho avuto modo di osservare uccide gente dai centri commerciali messicani alle strade di Liverpool - si fonda sulla convinzione che sia necessario eliminare fisicamente una vasta quantità di sostanze chimiche perchè s'impossessano dei cervelli della gente e ne causano la dipendenza. Ma se non sono le droghe a portare alla dipendenza - se anzi a causarla è quel senso di scollegamento dagli altri - tutto questo non ha alcun senso.
Ironicamente la guerra alla droga non fa che alimentare i macro fattori che portano alla dipendenza. Ad esempio mi sono recato in una prigione in Arizona - 'Tent City' - dove per punirli per l'uso di droga i detenuti vengono costretti per settimane e settimane all'interno di minuscole celle d'isolamento in pietra (le chiamano 'il Buco'). Cioè quanto di più vicino si possa arrivare a ricreare per gli uomini le gabbie che garantivano la dipendenza letale dei topi. E quando poi quei detenuti ne fuoriescono, la fedina penale impedirà loro di essere assunti - garantendone per sempre l'isolamento. L'ho visto accadere in diversi casi a persone che ho incontrato in giro per il mondo.
Esiste un'alternativa. Si può costruire un sistema concepito per aiutare i tossicomani a rientrare in contatto col mondo - lasciandosi la dipendenza alle spalle.
Non è teoria. Succede davvero. L'ho visto coi miei occhi. Quasi quindici anni fa il Portogallo aveva una delle situazioni peggiori di tutta Europa quanto a diffusione degli stupefacenti, con l'1 per cento della popolazione dipendente da eroina. Avevano provato con la guerra alla droga, e il problema non faceva che peggiorare. Così decisero di fare qualcosa di drasticamente diverso. Stabilirono di depenalizzare tutti gli stupefacenti, rinvestendo il denaro che prima spendevano per arresto e detenzione del tossicomane, e adoperandolo invece per rimetterlo in comunicazione - coi propri sentimenti e con la società più ampia. Il passo determinante è quello di assicurargli un'abitazione stabile e un posto di lavoro sociale così da offrirgli uno scopo nella vita, e una ragione per alzarsi dal letto. Li osservavo mentre venivano aiutati all'interno di ambulatori ricchi di calore umano e accoglienti, per imparare a tornare in contatto coi propri sentimenti, dopo anni di trauma e di silenzioso stordimento dovuto alle droghe.
Uno degli esempi di cui sono venuto a conoscenza è un gruppo di tossicodipendenti a cui è stato offerto un prestito per mettere in piedi una piccola azienda di traslochi. D'un tratto erano diventati un gruppo, legarono tutti fra loro, e con la società, e si fecero responsabili della cura dell'altro.
I primi risultati stanno arrivando. Una ricerca indipendente del British Journal of Criminology ha scoperto che dal momento della sua totale depenalizzazione le dipendenze sono crollate, e l'uso di stupefacenti da iniezione è diminuito del 50 per cento. Lasciatemelo ripetere: l'uso di stupefacenti da iniezione è diminuito del 50 per cento. Il risultato della depenalizzazione è stato un successo talmente chiaro che in pochi in Portogallo aspirano a tornare al vecchio sistema. Il primo oppositore della depenalizzazione, nel 2000, era stato Joao Figueira, il più importante poliziotto antidroga del Paese. All'epoca lanciava quel genere di avvertimenti che ci si aspetterebbe dal Daily Mail o da Fox News. Ma quando poi ci siamo incontrati a Lisbona, mi ha spiegato come le sue previsioni non si siano avverate, e come oggi lui speri che tutto il mondo segua l'esempio del Portogallo.
Tutto ciò non riguarda solo i tossicodipendenti a cui voglio bene. Riguarda tutti noi, perché ci costringe a pensare a noi stessi in maniera diversa. Gli esseri umani sono animali sociali. Abbiamo bisogno legare, di entrare in contatto e di amare. La frase più saggia del ventesimo secolo appartiene a E.M. Forster: "Mettetevi in contatto". Ma noi abbiamo creato un ambiente e una cultura che ci isolano da ogni forma di connessione, o che ce ne offrono solo la parodia generata da internet. La crescita delle dipendenze è il sintomo di un male profondo del modo in cui viviamo - volgendo costantemente lo sguardo all'ennesimo gadget luccicante da acquistare, piuttosto che agli esseri umani intorno a noi.
Lo scrittore George Monbiot l'ha chiamata "l'epoca della solitudine". Abbiamo creato società umane all'interno delle quali isolarsi da ogni legame è più facile che mai prima d'ora. Bruce Alexander - l'ideatore del 'parco topi' - mi ha spiegato come per troppo tempo non abbiamo fatto altro che parlare della riabilitazione dell'individuo dalla dipendenza. Ciò di cui abbiamo bisogno di parlare oggi è la riabilitazione sociale - un modo per riabilitare noi tutti, insieme, dal male dell'isolamento che ci sta avvolgendo come una spessa coltre di nebbia.
Ma queste nuove scoperte non rappresentano esclusivamente una sfida politica. Non sono solo le nostre menti che c'impongono di cambiare. Ma i nostri cuori.
Amare un tossicodipendente è davvero dura. Quando guardavo alle persone dipendenti a cui volevo bene, una volta avevo sempre la tentazione di seguire i consigli di reality show come Intervention - intimando a chi aveva una dipendenza di mettersi in riga, o allontanandolo. Il messaggio era che un tossicodipendente che non è in grado di smettere dovrebbe essere rifiutato. È la logica della guerra alla droga, interiorizzata nel privato. E invece, come ho avuto modo di capire, ciò non fa che peggiorare la loro condizione - e potresti finire per perdere del tutto la persona. Quando sono tornato a casa ero determinato a tenermi stretto più che mai le persone dipendenti che facevano parte della mia vita - facendo loro capire che il mio amore per loro è incondizionato, cioè indipendente dal fatto che smettano o che non ci riescano.
Quando sono tornato dal mio lungo viaggio ho guardato in faccia il mio ex-ragazzo, in crisi d'astinenza, che tremava sul letto degli ospiti, e ho pensato a lui in maniera diversa. Da un secolo intoniamo canti di guerra contro i tossicodipendenti. Asciugandogli la fronte mi è venuto in mente che forse quello che avremmo dovuto fare in tutto questo tempo sarebbe stato cantargli delle canzoni d'amore.
Questo blog è stato pubblicato originariamente su Huffington Post United States

domenica 25 gennaio 2015

L’uomo dalle mani pulite

ROBERT H. BENSON

L’uomo dalle mani pulite

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di Alessandro Banfi
22/01/2015 - Lo ha citato papa Francesco, di ritorno dalle Filippine, per spiegare cosa sia la colonizzazione ideologica. E ha invitato a leggerlo. Ma "Il Padrone del mondo" è anche uno dei libri che fanno parte della storia del movimento (da "Tracce", 7/2011)
Nel 1987, ottanta anni dopo la sua prima pubblicazione in Inghilterra, Jaca Book ristampa in Italia Il padrone del mondo. Mancano due anni alla caduta del Muro di Berlino e alla fine ufficiale del mondo comunista. E tuttavia quel libro, allora, ci colpisce profondamente. Il nemico della fede, della Chiesa, può essere più insidioso di quello che avevamo creduto. Come scrisse Augusto Del Noce su il Sabato: «Oggi che il marxismo è in un declino irreversibile, sino al punto che si rischia di essere ingiusti rispetto alla sua reale potenza filosofica, e che la rivoluzione sessuale e la combinazione marx-freudiana segnano il passo, la lotta contro il cattolicesimo avviene proprio sotto il segno dell’umanitarismo». Dopo l’Anticristo di Solov’ëv, tema di un Volantone di Pasqua di quegli anni, don Giussani ci spinse a prendere in mano questo libro lucidamente visionario.

Un romanzo, oggi diremmo una fiction, con un grande tema: la fine dell’umanità e forse del mondo, certo la fine della Chiesa su questa terra. Con alcune impressionanti “profezie”, se si pensa che viene scritto all’inizio del Novecento, secolo drammaticamente segnato dal fascismo, dal nazismo e dal comunismo, da due guerre mondiali e da un’impressionante e inedita apostasia dalla Chiesa cattolica. Il personaggio principale del romanzo è un inquietante Giuliano Felsemburgh, carismatico uomo politico super massone, che conquista le folle con l’esperanto e la sua moralità. «Sembrava che la sua vera originalità consistesse nell’essere, fino ad ora, l’uomo dalle mani pulite, privo di macchie o di colpe passate». Perfetto negli anni Ottanta. Perfetto anche oggi.

La Londra e l’Europa (e poi il mondo) del libro lo osannano e lo venerano, abbandonando tradizioni e religione, trasformando la modernità in un incubo violento. Ma se la personalità di Felsemburgh occupa l’orizzonte apocalittico dove la Basilica di San Paolo è diventata un tempio massonico, è la storia di una piccola famiglia, formata dal comunista Oliviero Brand, la moglie Mabel, la mamma di lui a portarci nei sentimenti e nei colpi di scena del racconto. Non manca una bella figura di prete cattolico, padre Percy Franklin, le cui vicissitudini sono le stesse di tutta la Chiesa mondiale, fino all’ultimo atto che si svolge in Palestina. Grandi questioni, come l’eutanasia, il potere dei mass media, la guerra e la pace, vengono analizzate attraverso lo svolgersi di un giallo internazionale. Nel libro ci sono tante cose: la fede sentita del cattolico moderno, la critica dell’intellettuale inglese al falso umanitarismo, l’utopia dell’Europa e della Società delle Nazioni... Ma soprattutto c’è una profonda riflessione sulla persecuzione dei cristiani e sui nemici della Chiesa cattolica.

Giussani, attraverso questo testo, proponeva una lettura intelligente della vita contemporanea. La fede, quando c’è, spinge a giudicare che cosa accade nella realtà. Benson offriva uno straordinario spunto di analisi sui vizi del nostro mondo, ponendoci di fronte ad una domanda drammatica: in che cosa dobbiamo sperare in questi momenti della storia dell’umanità, in cui la Chiesa sembra sul punto di essere annientata?

Pochi anni prima del romanzo, il beato John Henry Newman aveva risposto così: «Troppe volte il cristianesimo si è trovato in quello che sembrava essere un pericolo mortale, perché ora dobbiamo spaventarci di fronte alle nuove prove... Questo è assolutamente certo. Quello che è invece incerto, e rappresenta solitamente una sorpresa per tutti, è il modo in cui di volta in volta la Provvidenza protegge e salva i suoi eletti. A volte il nemico si trasforma in amico, a volte viene spogliato della sua virulenza e aggressività, a volte cade a pezzi da solo, a volte infierisce quanto basta, a nostro vantaggio, poi scompare. Normalmente la Chiesa non deve fare altro che continuare a fare ciò che deve fare, nella fiducia e nella pace, stare tranquilla, e attendere la salvezza da Dio...».



Robert Hugh Benson
Il padrone del mondo
Fede e Cultura
pp. 352 - € 14

La vita di Frank, che andava all'Infinito

NEW YORK

La vita di Frank, che andava all'Infinito
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di Chris Bacich
20/01/2015 - È stato uno dei volti del video per i sessant'anni di CL. Afro-americano, con un passato drammatico, da tempo malato di cancro, è morto il 19 gennaio. Da Tracce di novembre 2014, la storia di un uomo rinato in un incontro
Frank Simmonds è un afro-americano di poco più di cinquant’anni, che ha un cancro in stadio avanzato al sistema neuro-endocrino. Ripete sempre: «Se una persona impara cos’è la verità conoscendo me e la mia storia, allora ne è valsa la pena».

Ha quindici anni quando alla madre viene diagnosticato un tumore. Dopo la sua morte, cresce in lui una fortissima ribellione contro Dio, perché non l’ha salvata. Comincia così la sua discesa. Droga, furti e vari periodi in carcere diventano la sua quotidianità. La ragazza con cui vive lo lascia e si porta via il loro bambino. Anni dopo, incontra il figlio per strada: «Papà, mi manchi, torna a casa». Umiliato, con gli abiti stracciati e puzzolenti, Frank si scusa, e cerca di allontanarlo da sé. Ma lui insiste: «Papà, sei importante. Ho visto una tua foto in un negozio con la scritta “ricercato”». Lo aveva rapinato poche settimane prima. Dopo anni da randagio, viene arrestato per spaccio. Ricorda ancora oggi le parole che l’agente gli ha detto mentre lo ammanettava: «Frank, non ti stiamo arrestando, ti stiamo salvando». In cella, una notte, scrive queste righe: «... Dio, per favore, non guardare al mio passato, perdona i miei peccati così che possa trovare finalmente la felicità... Aiutami a cambiare la mia vita, Signore: benedicimi con la tua Parola... Liberami dall’ansia del mio spirito in catene. Ti amo così tanto, Signore... Sono grato perché Gesù ha dato la vita per i nostri peccati. Per favore purifica la mia mente e il mio corpo, così che possa vivere. La realtà si è fatta presente; so che ho sbagliato. Il mio cuore è pieno di dolore; è il tuo perdono che io bramo...».
Il giorno della sentenza si avvicina e lui rischia fino a quindici anni di reclusione. Al giudice è morto un figlio per overdose ed è nota la sua severità con gli spacciatori. Ma all’udienza estrae il foglietto e legge alla corte i versi scritti da Frank. Gli chiede: «Signor Simmonds, ha scritto lei questa poesia?». «Sì, vostro onore». «Allora passerà sei mesi in carcere e poi non meno di due anni in un centro di riabilitazione».

Scontata la pena, torna dal padre: da tempo entrambi desideravano ritrovarsi. Ma dopo poco il padre si ammala e muore, e Frank torna sulla strada. «Pensi di non poter stare peggio e invece si apre una botola e cadi ancora più giù». Trascorrono tre anni terribili, dentro e fuori i centri di recupero.

Un giorno, avendo deciso di rapinare il primo passante, s’imbatte in un prete. «Dannazione, non posso borseggiare un uomo di Dio», pensa. Il sacerdote si gira e lo guarda negli occhi: «Dio non verrà a stare nel fango con te, perché è santo. Ma se glielo chiedi, può tirartene fuori». È talmente sconvolto da questo incontro che riemerge il suo vecchio dialogo con Dio: «Non esisti. Non sei vero. Sei una statua. E anche se tu esistessi, perché mi hai dato questa vita terribile? Non la voglio. Te la rendo». Raggiunge la stazione della metropolitana più vicina, per farla finita. Proprio lì, invece, di fronte ai binari gli viene un pensiero: «Se mi trattieni dal fare ciò che sto per fare, ti servirò per il resto della mia vita». È inondato da un’inspiegabile sensazione: era qualcosa di nuovo. «Quando morì mia madre, morì l’amore. Ma in quell’istante, dopo aver pronunciato quelle parole, ne feci un’esperienza travolgente. Chiamai il centro d’emergenza per la tossicodipendenza e mi spedirono con un taxi in ospedale».

Da quel momento, vive in una casa-rifugio. Rita, una volontaria, gli spedisce una lettera che conteneva anche una medaglietta di Maria. «Mentre stavo ancora cercando di rimettere insieme i pezzi della mia vita e non avevo nulla da offrire, a qualcuno importava di me. Da allora, ho considerato Rita al di sopra di tutte le altre donne, insieme alla mia mamma. Sapevo di non meritarmelo ed ero orgoglioso di conoscerla. Prima, non potevo fidarmi di nessuno. Più di una volta i miei “amici” di strada mi avevano buttato in un cassonetto, credendomi morto. Ero spazzatura».

Rita vede in Frank il suo stesso bisogno e lo porta a conoscere i suoi amici di CL. «All’inizio facevo resistenza. Continuavo a chiedere: “Ma chi è questo Giussani?”». Presto comincia ad accorgersi che quelle persone «descrivevano cose vere, che avevo vissuto nella mia vita. E la Verità parla da sola, non c’è bisogno di venderla. Sta a te rispondere. Cominciavo lentamente a guardarmi in modo diverso». Il rapporto con Rita cresce e dopo cinque anni si sposano.

Quando Frank riceve la diagnosi della sua malattia, pensa subito a don Giussani, che malato diceva: «Il Signore è la mia forza e il mio canto!». «Quando hai coscienza di chi sei, che appartieni a Dio, che sei Suo, tutto cambia», dice Frank: «Dio è il Signore della mia vita, non il cancro. Un tempo odiavo la mia vita. Ora capisco che è data per percorrerla, perché porta all’Infinito».

sabato 24 gennaio 2015

Il Papa: «Così tentarono di corrompermi»

Il Papa: «Così tentarono di corrompermi»

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Francesco parla sul volo papale
(©Ansa) Francesco parla sul volo papale

L'intervista sul volo di ritorno da Manila: racconta un episodio accaduto a Buenos Aires, quando gli chiesero una tangente in cambio di fondi per i poveri. Fa l’esempio del gender come «colonizzazione dei popoli» richiamando i tentativi di indottrinamento delle dittature. Annuncia viaggi in Africa e America Latina, torna sull'esempio del pugno. Parla della denatalità ma dice anche che essere cattolici non significa fare figli «come conigli». Racconta la sua commozione per i gesti dei filippini. Consiglia un libro: «Il Padrone del mondo» di Benson

ANDREA TORNIELLI Inviato sul volo Manila-Roma
Con le lacrime agli occhi ha descritto i gesti dei filippini che in questi giorni l'hanno colpito. A chi gli chiedeva che cosa intendesse dire quando ha parlato di «colonizzazione ideologica» della famiglia, ha risposto con un esempio concreto di cui è stato testimone in Argentina, quando la condizione per avere dei finanziamenti per le scuole era legata all'introduzione di libri di testo con la teoria del gender. Nel dialogo con i giornalisti sul volo da Manila a Roma, Francesco è tornato a parlare della libertà di espressione e delle provocazioni, definendo sempre ingiusta la violenza, ma invitando a usare la virtù umana della prudenza. Rispondendo sul tema della corruzione, ha ricordato un episodio vissuto in prima persona. Ha preannunciato viaggi in America Latina e Africa nei prossimi mesi. Ha parlato di contraccezione e paternità responsabile, denunciando il neo-malthusianesimo che vuole il controllo delle nascite, ma sul numero dei figli ha anche detto: «C'è chi crede che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli». Al termine della conferenza stampa, durata più di un'ora, Francesco ha fatto gli auguri di buon compleanno alla decana dei vaticanisti sui voli papali, la giornalista messicana di Televisa, Valentina Alazraki, le ha dato un regalo e ha offerto a lei e a tutti i giornalisti una torta per festeggiare.
I filippini hanno imparato molto dai suoi messaggi.  C'è qualcosa che lei ha imparato dal popolo filippino?
«I gesti... I gesti mi hanno commosso, non sono stati gesti protocollari, ma sentiti, gesti del cuore. Quasi fanno piangere (il Papa ha gli occhi lucidi, ndr). La fede, l'amore, la famiglia, il futuro, in quel gesto dei papà quando alzavano i bambini perché il Papa li benedicesse. Alzavano i bambini, un gesto che in altre parti non si vede. È come se dicessero questo è il mio tesoro, questo è il mio futuro, per questo vale la pena lavorare e soffrire. Un gesto originale, nato dal cuore. La seconda cosa che mi ha colpito tanto: un entusiasmo non finto, la gioia, l'allegria, la capacità di fare festa. Anche sotto l'acqua. Mi diceva uno dei cerimonieri di essere rimasto edificato, perché i ministranti a Tacloban, sotto l'acqua, con quella pioggia, mai avevano perso il sorriso. Una gioia non finta, non era un sorriso dipinto, ma un sorriso dietro al quale c'è la vita normale, ci sono i dolori, i problemi. Le mamme che portavano i figli ammalati... Tanti bambini disabili, con disabilità che possono fare un po' di impressione, non nascondevano il loro bambino, lo portavano perché il Papa lo benedicesse: questo è il mio bambino, è così ma è il mio. Tutte le mamme fanno questo, ma è il modo di farlo, è quello che mi ha colpito... Un gesto di maternità e di paternità. C'è una parola che è stata troppo volgarizzata, usata e capita male, ma che sostanzia: la rassegnazione. Un popolo che sa soffrire che è capace di rialzarsi e di andare avanti. Ieri nel colloquio che ho avuto col papà di Krystel, sono stato edificato. Krystel è morta in servizio e lui cercava le parole per accettare questo... Un popolo che sa soffrire, è questo che ho visto».
Lei è andato già a due volte in Asia. I cattolici in Africa non hanno ancora ricevuto la sua visita, sa che ci sono fedeli che soffrono per la povertà e per il fondamentalismo. Visiterà l'Africa?
«Rispondo ipoteticamente. Il piano è andare nella Repubblica Centroafricana e in Uganda, credo che sarà verso la fine dell'anno, per il tempo, perché non sia brutto con le piogge che rendono più difficili le cose. È un po' in ritardo questo viaggio perché c'è stato il problema dell'Ebola. È una grande responsabilità fare grandi riunioni per il rischio di contagio. Ma in questi due paesi non c'è problema»
A Manila, eravamo in un albergo bello, però appena si usciva si veniva aggrediti moralmente dalla povertà dei bambini in mezzo ai rifiuti... In Sri Lanka abbiamo visto favelas, baracche appoggiate agli alberi, dove vivono soprattutto i tamil discriminati. Dopo i fatti di Parigi ha parlato di terrorismo di Stato. Si può applicare anche a queste situazioni di povertà?
«I poveri sono le vittime di questa cultura dello scarto. Oggi non si scarta solo quello che avanza. Si scartano le persone, mi viene in mente l'immagine delle caste... E anche oggi sembra normale lo scarto. Lei parlava dell'albergo lussuoso e poi delle baracche... Nella mia diocesi di Buenos Aires c'era tutta la zona nuova che si chiama Portomadero e subito dopo cominciano le villas miserias. Nella prima parte ci sono 36 ristoranti di lusso, di qua c'è la fame. Una attaccata all'altra. Noi abbiamo la tendenza ad abituarci a questo... Qui siamo noi e lì stanno gli scartati. Questa è la povertà e la Chiesa deve dare esempio ogni volta di più nel rifiutare ogni mondanità. Per noi consacrati, vescovi, preti, suore, laici il peccato più grave è la mondanità. È tanto brutto vedere un consacrato, un uomo di Chiesa, una suora mondani. Questa non è la strada di Gesù, la Chiesa di Gesù. È una ONG che si chiama Chiesa, un'altra cosa. Quando diventa mondana la Chiesa diventa una ONG. La Chiesa è Cristo morto e risorto per la nostra salvezza e la testimonianza dei cristiani che seguono Cristo... A volte scandalizziamo noi preti o laici, è difficile la strada di Gesù. È vero, la Chiesa deve spogliarsi... Sul terrorismo di stato, non ci ho pensato, lei mi ha fatto pensare che anche questo scarto possa essere terrorismo di stato. Davvero non sono carezze: è come dire, no tu no, fuori... Qui a Roma un barbone aveva un dolore di pancia, quando andava all'ospedale gli davano un'aspirina. Lui è andato da un prete, che ha visto, si è commosso, ha detto: io ti porto all'ospedale, ma quando io inizio a spiegare quello che tu hai, fai finta di svenire. Così è caduto, un artista, l'ha fatta bene... C'era una peritonite. Questo se andava da solo era scartato e moriva. Quel parroco era furbo e ha aiutato bene, era lontano dalla mondanità. Si può pensare che è un terrorismo questo? Si può pensare...».
Nell'incontro con le famiglie ha parlato della «colonizzazione ideologica». Ci può spiegare meglio questo concetto? E poi ha citato Paolo VI sull'Humanae vitae e il fatto che era misericordioso con i casi particolari nelle famiglie. Ci può dire se si può allargare il corridoio di questi casi particolari?
«Parlando di colonizzazione ideologica farò soltanto l'esempio che ho visto io. Venti anni fa, nel 1995, una ministra della Pubblica istruzione aveva chiesto un prestito forte per costruire scuole per i poveri (nelle zone rurali, ndr). Gli hanno concesso il prestito a condizione che nelle scuole ci fosse un buon libro per i bambini di un certo livello. Un libro scolastico, preparato bene didatticamente, dove si insegnava la teoria del gender. Questa donna aveva bisogno dei soldi e quella era la condizione... Lei, furba, ha detto di sì, e ha fatto fare anche un altro libro (il secondo di diverso orientamento teorico, e i due testi sono stati distribuiti insieme, ndr). Questa è la colonizzazione ideologica: entrano in un popolo senza avere niente a che fare con quel popolo, o solo con dei gruppi di quel popolo ma non con il popolo, e lo colonizzano con un'idea che vuole cambiare una mentalità o una struttura. Durante il Sinodo vescovi africani si lamentavano del fatto che certi prestiti vengono concessi a certe condizioni. Prendono proprio il bisogno di un popolo per l'opportunità di entrare e farsi forti con i bambini. Ma non è una novità. Lo stesso hanno fatto le dittature del secolo scorso, non è una novità, sono entrate con la loro dottrina: pensate ai "balilla", pensate alla "gioventù hitleriana"... hanno colonizzato il popolo, ma quanta sofferenza. Il popolo non deve perdere la sua libertà, ogni popolo ha la sua cultura, la sua storia. Quando vengono imposte idee dagli imperi colonizzatori si cerca di far perdere ai popoli la loro identità. Questa è la globalizzazione a forma di sfera, con tutti i punti equidistanti dal centro. Ma la vera globalizzazione è il poliedro, cioè che ogni popolo conservi la propria identità senza essere colonizzato ideologicamente. C'è un libro che forse ha uno stile un po' pesante all'inizio, scritto a Londra nel 1903, è "Il Padrone del mondo", l'autore è Benson: ve lo consiglio, leggendolo capirete bene ciò che voglio dire. A proposito di Paolo VI: è vero che l'apertura alla vita è condizione per il sacramento del matrimonio. Un uomo non può dare il sacramento alla donna e la donna a lui, se non sono d'accordo sull'essere aperti alla vita. A tal punto che si può provare che questo o questa si è sposato con l'intenzione di non essere cattolico/a, quel matrimonio è nullo e causa di nullità matrimoniale, l'apertura alla vita. Paolo VI ha studiato questo con la commissione sulla vita, come fare per aiutare, tanti casi, tanti problemi... i problemi importanti che toccano l'amore della famiglia. Problemi di tutti i giorni. Tanti, tanti. Ma c'era qualcosa di più, il rifiuto di Paolo VI non era legato soltanto ai casi personali (dirà ai confessori di essere comprensivi e misericordiosi), lui guardava al neo-malthusianesimo universale che è in corso e che cercava un controllo della natalità da parte delle potenze: meno dell'uno per cento delle nascite in Italia, lo steso in Spagna. Questo non significa che il cristiano deve fare figli in serie. Ho rimproverato una donna che era all'ottava gravidanza e aveva avuto sette parti cesarei: vuole lasciare orfani i suoi figli? Non bisogna tentare Dio... Ma volevo dire che Paolo VI è stato un profeta».
Nel volo dallo Sri Lanka alle Filippine, parlando di libertà di espressione e insulti alle religioni lei ha mimato il gesto del pugno verso Alberto Gasbarri. Ha creato confusione e non è stato capito da tutti, come se giustificasse una reazione violenta. Che cosa intendeva dire?
«In teoria possiamo dire che una reazione violenta davanti a un'offesa, a una provocazione, non si deve fare, non è buona e non si deve fare. Possiamo dire quello che il Vangelo dice, dobbiamo porgere l'altra guancia. In teoria possiamo dire che noi capiamo la libertà di espressione. Questo è importante, nella teoria siamo tutti d'accordo. Ma siamo umani e c'è la prudenza che è una virtù della convivenza umana. Io non posso provocare, insultare una persona continuamente, perché rischio di farla arrabbiare, rischio di ricevere una reazione non giusta… ingiusta. Ma è umano. Dico che la libertà di espressione deve tener conto della realtà umana e per questo dico che deve essere prudente, educata. La prudenza è la virtù umana che regola i nostri rapporti, io posso arrivare fino a qui... etc. In teoria siamo tutti d'accordo, c'è libertà di espressione, una reazione violenta non è buona, è cattiva sempre. Ma fermiamoci un po', perché siamo umani, rischiamo di provocare gli altri. Per questo la libertà deve essere accompagnata dalla prudenza».
Lei ha parlato del viaggio negli Stati Uniti. Per la beatificazione di Junipero Serra è prevista una tappa anche in California? Entrerà negli Usa passando per la frontiera del Messico? Pensa di fare un viaggio in America Latina per beatificare monsignor Romero in Salvador?
«Comincio dall'ultima. No, no. Ci sarà una guerra (ride, ndr)... tra monsignor Paglia (il postulatore della causa, ndr) e il cardinale Amato (il Prefetto dei santi, ndr) su chi dei due farà la beatificazione. Normalmente i beati li fa il cardinale del dicastero o un altro. Le tre città per il viaggio negli Stati Uniti sono Philadelphia per l'incontro delle famiglie, New York per la visita all'Onu e Washington. Andare in California per la canonizzazione di Junipero mi piacerebbe, ma credo che ci sia un problema di tempo, ci vogliono due giorni in più. Io penso di fare la canonizzazione a Washington, è una figura nazionale. Entrare negli Usa dalla frontiera del Messico sarebbe una cosa bella come segno di fratellanza, ma lei sa che andare in Messico senza andare a visitare la Madonna (di Guadalupe, ndr) è un dramma, scoppierebbe una guerra... Penso che ci saranno solo queste tre città statunitensi. I Paesi latinoamericani previsti per quest'anno sono Ecuador, Bolivia e Paraguay. L'anno prossimo a Dio piacendo, andrò in Cile, Argentina e Uruguay».
Lei a Manila ha citato il fenomeno della corruzione. Come la definisce quando tocca i governi? E può esserci anche nella Chiesa?
«La corruzione oggi nel mondo è all'ordine del giorno e l'atteggiamento corrotto trova subito facilmente un nido nelle istituzioni perché una istituzione ha tanti ruoli, capi e vicecapi ed è facile che faccia annidare la corruzione. Ogni istituzione può cadere in questo. La corruzione è togliere al popolo. La persona corrotta che fa affari corrotti o governa corrottamente o che va ad associarsi con gli altri per fare un affare corrotto, ruba al popolo. Le vittime sono quelli che vivono nella povertà, loro sono le vittime... La corruzione non è chiusa in se stessa: va e uccide. Oggi la corruzione è un problema mondiale. Nel 2001 ho domandato al capo di gabinetto del presidente di quel momento, che era un governo che pensavamo non fosse tanto corrotto (ed era vero): mi dica, degli aiuti che voi inviate all'interno del paese - sia i container che gli aiuti alimentari e vestiario - quanto arriva a destinazione? Subito quest'uomo, che era pulito, mi ha detto: "Il 35 per cento". Era il 2001, nella mia patria.
E adesso la corruzione nelle istituzioni ecclesiali. Quando parlo di Chiesa mi piace parlare di battezzati, fedeli, e tutti siamo peccatori. Ma quando parliamo di corruzione, parliamo di persone corrotte o di istituzioni della Chiesa che cadono nella corruzione. E ci sono casi, sì. Ricordo una volta, nel 1994, appena nominato vescovo ausiliare nel quartiere di Flores, sono venuti da me due funzionari di un ministero. E mi hanno detto: "Lei ha tanto bisogno con questi poveri... Noi possiamo aiutare, abbiamo da darle se vuole un aiuto di 400mila pesos (il peso e il dollaro era uno a uno, dunque erano 400mila dollari)... Io ascoltavo. Poi mi hanno detto: "Per fare questa donazione, noi facciamo il deposito e poi lei dà la metà dei soldi a noi". In quel momento io ho pensato che cosa fare: o li insulto e do un calcio dove non batte il sole, oppure faccio lo scemo. Ho fatto lo scemo. Ho risposto: ma sapete... che noi nei vicariati non abbiamo il conto, lei deve fare un deposito in arcivescovado, con la ricevuta. Se ne sono andati. Ho pensato: se questi due sono atterrati direttamente senza chiedere pista (espressione in spagnolo che equivale ad "arrivare senza essere chiamato", ndr) - questo è un cattivo pensiero - è perché qualcun altro aveva detto di sì... Ricordiamo questo: peccatori sì, corrotti mai! Dobbiamo chiedere perdono per quei cattolici, quei cristiani che scandalizzano per le loro corruzioni. Ma ci sono tanti santi e santi peccatori, non corrotti. Guardiamo alla Chiesa santa».
Stiamo sorvolando la Cina. Al ritorno dalla Corea lei aveva detto che era pronto ad andarci. Ci può spiegare perché non ha ricevuto in udienza il Dalai Lama e a che punto sono le relazioni con la Cina?
«È abitudine per il protocollo della Segreteria di Stato di non ricevere i capi di stato o i leader di quel livello quando sono a una riunione internazionale a Roma. Nei giorni dell'incontro alla Fao non ho ricevuto nessuno. Non è vero che non ho ricevuto il Dalai Lama per paura della Cina. Ha chiesto un'udienza, siamo in relazione, ma il motivo non era un rifiuto alla persona o la paura della Cina. Noi siamo aperti e vogliamo la pace con tutti. Come vanno i rapporti? Il governo cinese è educato, anche noi siamo educati, facciamo le cose passo dopo passo. Ancora non si sa. Loro sanno che io sono disposto a riceverli o ad andare lì. Loro lo sanno».
Lei nel viaggio in Turchia ha lanciato un appello ai leader islamici dicendo che sarebbe necessario un passo da parte loro molto fermo di condanna del terrorismo. Non sembra che sia stata considerato e accolto. Ci sono paesi musulmani, posso fare l’esempio della Turchia, che hanno un atteggiamento perlomeno ambiguo nei confronti dell'Is. Ha pensato come andare oltre quel suo invito non accolto?
«Quell'appello l'ho ripetuto il giorno stesso della partenza per lo Sri Lanka, nel discorso al Corpo diplomatico, augurandomi che i leader religiosi, politici e intellettuali si esprimano. Anche il popolo moderato islamico chiede questo ai suoi leader. Alcuni hanno fatto qualcosa, credo che bisogna dare un po' di tempo. Ho speranza, c'è tanta gente buona, tanti leader buoni, sono sicuro che arriverà»
Lei ha parlato dei tanti bambini e della sua gioia, ma secondo dei sondaggi la maggioranza dei filippini pensa che la crescita enorme della popolazione sia una delle ragioni della povertà nel paese. Normalmente una donna partorisce più di tre bambini. La posizione della Chiesa sulla contraccezione è una delle cose con cui molta gente qui non è d'accordo con la Chiesa.
«Io credo che il numero di tre figli per famiglia che lei menziona, secondo quello che dicono i tecnici, è il numero importante per mantenere la popolazione. Quando scende sotto questa soglia, accade l'altro estremo, ciò che avviene in Italia, dove nel 2024 - ho sentito, non so se è vero - non ci saranno i soldi per pagare i pensionati... La parola chiave per rispondere, che usa la Chiesa e anch'io uso, è paternità responsabile e ogni persona nel dialogo col suo pastore cerca come fare quella paternità. L'esempio che ho menzionato poco fa di quella donna che aspettava l'ottavo figlio e ne aveva sette nati con parto cesareo, questa è una irresponsabilità: "No, ma io confido in Dio..." diceva. Sì, Dio ti dà i mezzi, ma, alcuni credono che – scusatemi la parola, eh? – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli, no? No. Paternità responsabile: per questo nella Chiesa ci sono gruppi matrimoniali, gli esperti in queste questioni e ci sono i pastori, e io conosco tante e tante via di uscita lecite, che hanno aiutato per questo. E un'altra cosa: per la gente più povera il figlio è un tesoro, è vero che si deve essere anche qui prudenti, ma il figlio è un tesoro. Paternità responsabile ma anche guardare alla generosità di quel papà o di quella mamma che vede nel figlio o nella figlia un tesoro».
Quale è stato per lei il momento più forte di questa visita? Ieri lei ha fatto storia, 6-7 milioni di persone, superando il record di Giovanni Paolo II. Come vive l'aver superato questo record?
«Il momento più forte è stata la messa di Tacloban: vedere tutto il popolo di Dio lì a pregare dopo questa catastrofe, pensare ai miei peccati e a quella gente è stato forte, un momento molto forte. Alla messa lì mi sono sentito come annientato, quasi non mi veniva la voce, non so che cosa mi è successo, forse l'emozione. E poi momenti forti sono stati i gesti, il grazie dei papà che alzavano i figli e a loro bastava una benedizione... E pensavo che io che ho tante pretese, che voglio questo, che voglio quello. Quanto alla grande presenza: mi sono sentito annientato, era il popolo di Dio, il Signore era lì, Dio ci dice: pensate bene che voi siete i servitori di questi eh... questi sono i protagonisti. Poi il pianto: una delle cose che si perde quando c'è troppo benessere, nella cultura dello scarto è questa capacità di piangere. C'è una bella preghiera nel messale antico che diceva: "O Signore, tu che hai fatto sì che Mosè col suo bastone facesse uscire acqua dalla roccia, fai che dalla roccia del mio cuore esca l'acqua del pianto". Noi cristiani dobbiamo chiedere la grazia di piangere, soprattutto i cristiani benestanti: piangere sulle ingiustizie e sui peccati. Perché piangere ti apre a nuove realtà. È quello che ho detto ieri alla ragazza. Lei (Glyzelle Palomar, che domenica ha chiesto perché i bambini soffrono, ndr) è stata l'unica a fare quella domanda a cui non si può rispondere. Il grande Dostoevskij se la faceva questa domanda. Lei con il suo pianto, di donna che piangeva... Quando dico che è importante che le donne siano più considerate nella Chiesa non è soltanto per dare loro una funzione, come per esempio segretario di un dicastero... no, perché loro ci dicano come sentono e guardano la realtà, perché le donne guardano da una ricchezza differente, più grande.... E poi quella risposta che ho dato all'altro ragazzo: non bisogna dimenticare che noi dobbiamo essere mendicanti, se noi togliamo i poveri dal Vangelo non possiamo capire il messaggio di Gesù. Vai a evangelizzare i poveri, ma lasciati evangelizzare da loro, hanno valori che tu non hai».